Apro gli occhi questa mattina e mi chiedo cosa ne è stato di quelle giornate di attese infinte, silenzi, telefonate e ancora attese.
Cosa ne è stato di un marzo insolitamente caldo e surreale che ha fermato il mondo in molti modi, e la nostra famiglia in uno solo, terribile. Tu.
Apro gli occhi questa mattina e mi rendo conto che sono già passati cinque anni da quel sabato sera in cui abbiamo dormito stretti, tutti e quattro insieme nel letto grande, per non sentire il freddo che aveva aperto lo squarcio della tua assenza.
La telefonata prima di cena, come tutte le sere, che noi si aspettava guardando il mondo fermo da un balcone, con un bicchiere di prosecco a scaldarsi in una mano, per provare a rallentare i battiti, per provare a non impazzire.
Quella sera la telefonata era per dirci che non c’eri più.
Niente più speranza, niente più aggiornamenti medici, parole difficili da comprendere, impossibili da associare alla persona che eri.
Terapia intensiva, scambi gassosi, dialisi.
Cose quella fetta di mondo che in quei giorni ha avuto la fortuna di non passarci non sa.
Cose che non si vogliono sentire, perché la vita va avanti, lo sappiamo.
Io raggomitolata sul divano, Alessandro che ha parlato prima con gli occhi e poi con le parole, mentre si chiudeva la porta alle spalle, per non farci sentire dai bambini. Un gesto che ora mi sembra la porta che si chiude per sempre sulle nostre vite di prima.
Apro gli occhi questa mattina e mi sforzo di non ricordare la tua voce rotta dalla malattia in quell’ultima telefonata che non riesco a cancellare dalla memoria del mio cellulare.
Perché come Guccini, “voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi, voglio pensare che ancora mi ascolti, che come allora sorridi”.
Voglio ricordare la tua voce quando diventava risata, quando parlavi di storia, quando cantavi la melodia di una sinfonia, perfino tutte volte in cui alzavi la voce quando ero bambina.
Apro gli occhi questa mattina e cerco la forza per far sì che la forza dei ricordi belli sia più grande del senso di colpa del non averti tenuto la mano in tutti quei giorni, in quel 28 marzo.
Cerco la forza di non farmi vincere dalla rabbia, da quel giorno per ogni giorno venuto dopo, perché so che tu non lo vorresti. Perché in ogni momento, con ogni cellula del corpo e tutta la forza della mia anima, penso a quello che ci hai lasciato, che mi hai lasciato, papà.
Perché è ancora tutti qui.
Perché quello che ci hai lasciato è immensamente più grande, bello e importante di tutto il dolore venuto dopo.
Cose che nessuna pandemia, nessuna distanza, nessuna assenza, potrà mai cancellare.
Paola Cavioni, 28 marzo 2025
