Kent Haruf e le storie dalla terra

“We got one last chance to make it real
To trade in these wings on some wheels
Climb in back
Heaven’s waiting on down the tracks
Oh oh come take my hand
Riding out tonight to case the promised land”

(Abbiamo un’ultima possibilità per farli avverare [i sogni], per scambiare con delle buone ruote le nostre ali. Salta su, il Paradiso ci aspetta lungo il percorso. Dai, prendi la mia mano, stanotte cercheremo di raggiungere la terra promessa)

Thunder Road, Bruce Springsteen

Se c’è un autore che ho scoperto e che ha caratterizzato tutto il mio 2021 con un amore a prima lettura è sicuramente è Kent Haruf. A lui dedico questo lungo post, alla fine del quale trovate gli incipit dei suoi romanzi, che vi invito a leggere perché sono sicura che non rimarrete delusi.

Tutti i libri di Kent Haruf sono pubblicati in Italia da NN Editore

Alan Kent Haruf nasce nel 1943 a Pueblo, città nel sud del Colorado, sul fiume Arkansas.

La vita qui non deve essere facile. Non è il sogno americano quello che si vive fuori dalle grandi metropoli. È una vita fatta di fatica, violenza, solitudine, soprusi, conflitti, infanzia violata nel corpo e nello spirito. Un mondo intero di luci e ombre che entra nei libri di Haruf, rinascendo sotto le mentite spoglie di Holt. Città che sulla carta del Colorado non troverete mai ma che esiste, vera e prepotente, nella testa del suo inventore, talmente chiara che se ne riesce perfino a disegnare la geografia.

La trovate, è alla fine di Le nostre anime di notte (Our Souls At Night), provate a cercarla.

Kent è figlio di un pastore e di una insegnante, si laurea alla Nebraska Wesleyan University e si forma leggendo William Faulkner e Ernest Hemingway.

Come molti altri autori, anche suoi contemporanei, prima di riuscire a mantenersi con la sola attività di scrittore svolge molti altri lavori: insegnante, bracciante, bibliotecario.

Ma la sua strada è la scrittura e lotta a lungo per realizzare questa vocazione.

Pubblica i primi racconti all’inizio degli anni ’80; il primo romanzo, Vincoli (The Tie That Binds) è del 1984.

Per uno strano scherzo del destino, la sua consacrazione e il riconoscimento da parte della critica arrivano solo nel 1999 con Canto della pianura (Plainsong). Haruf ha 56 anni.

Muore nel 2014 a Salida, cittadina poco distante da Pueblo, tornato a vivere in Colorado dopo una vita trascorsa in giro per gli Stati Uniti e dieci anni in Illinois. Coincidenza, sceglie di trascorrere gli ultimi anni della sua vita nel posto a cui apparteneva, proprio come il titolo (in originale) di La strada di casa: Where You Once Belonged.

Ci ha lasciato in eredità sei meravigliosi romanzi, tutti scritti dopo i quarant’anni, tutte opere mature, profonde, strazianti e bellissime allo stesso tempo.

La scrittura di Haruf è piana, semplice e terribilmente aderente alla realtà, cadenzata da dialoghi in discorso diretto libero, senza marcatori di punteggiatura, tecnica difficilissima da padroneggiare e usata tra l’altro da pochi altri grandi autori come Josè Saramago, in forma ancora più estrema, e Cormac McCarthy.  

Nel suo primo romanzo, Vincoli, sono già presenti tanti dei temi che, quasi come un’ossessione, ritornano nelle opere di Haruf: la voce narrante in terza persona, l’attaccamento alla terra e alla fatica del lavoro nei campi, la presentazione dell’infanzia come momento della vita che non è esente dal dolore e dalla morte, la sofferenza nell’esistenza, amanti che il destino avverso separa, la violenza della società che si incarna, in ogni libro, in un personaggio.

Ma anche temi positivi come la ricerca del riscatto sociale, l’amore come possibile redenzione, che rende la vita degna di essere vissuta, a prescindere dall’età, l’onore, la compassione. C’è poi la Storia, che fa da cornice agli eventi ma resta sempre sullo sfondo, perché tutte le storie di Kent Haruf sono senza tempo.

E poi ancora l’intreccio tutto particolare che riesce a creare nei suoi romanzi, che non hanno praticamente mai un solo protagonista, ma tante piccole storie, ognuna con un proprio sviluppo e un proprio arco di trasformazione, che a volte si intreccia alle altre storie, o a una sola di esse, solo alla fine del romanzo. In ogni libro inoltre ci sono piccoli rimandi agli altri, come se Haruf si fosse divertito a giocare con lettore che deve riuscire a riconoscere il dettaglio, il particolare che rimanda a un altro dei romanzi di Haruf, sempre dentro al micro cosmo di Holt.

E il legame con la terra, la sua terra, il Colorado che è tutto lì fra le case, le vie, i campi e i sassi di Holt.

Buona lettura.

Vincoli. Le origini di Holt (The Tie That Binds)

Prima edizione 1984

“Edith Goodnough non vive più in campagna. Ormai sta in città, in ospedale, in quel letto bianco, con un ago infilato nel dorso della mano e un uomo che la sorveglia in corridoio, fuori dalla sua stanza. Questa settimana compie ottant’anni: una donna linda, bella, con i capelli bianchi, che in vita sua non è mai arrivata a pesare cinquanta chili e che da Capodanno ne pesa ancora meno di così.”

Libro che si apre come un giallo, con un omicidio, ma si rivela un’epopea storica che ci porta in un viaggio dalla fine del XIX alla metà degli anni ’70, in un’America in continua evoluzione, che però nel mondo chiuso di Holt sembra rimanere sempre uguale e se stessa.

Un cerchio che inizia e si chiude nel 1977.

La strada di casa (Where You Once Belonged)

Prima edizione 1990

“Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui. Persino la polizia aveva smesso di cercarlo. Avevano ricostruito i suoi movimenti fino alla California, ma dopo il suo arrivo a Los Angeles se l’erano perso e a un certo punto avevano rinunciato.”

Il libro che più ho amato, il primo che ho letto e il più poetico fra i libri di Haruf*.

Trilogia della pianura

Benedizione (Benediction) – I libro

Prima edizione 2013

“Appena gli esiti dell’esame furono pronti, l’infermiere li chiamò nell’ambulatorio, e quando il medico entrò nella stanza diede un’occhiata e li invitò a sedersi. Capirono come stavano le cose guardandolo in faccia.”

Il più intimo fra i libri della trilogia, per il tema che tratta: il rapporto con noi stessi davanti alla vita che finisce. Cosa succede dei nostri rimpianti, dei fallimenti e delle occasioni perse per sempre?

Canto della pianura (Plainsong) – II libro

Prima edizione 1999

“A Holt c’ere quest’uomo, Tom Guthrie, se ne stava in piedi alla finestra della cucina, sul retro di casa sua, fumava una sigaretta e guardava fuori, verso il cortile posteriore su cui proprio in quel momento stava spuntando il giorno. Quando il sole ebbe raggiunto la sommità del mulino a vento, l’uomo rimase a guardare la luce che si faceva sempre più rossa sulle alette di acciaio e sulla coda, alte sulla piattaforma in legno.”

Lente di ingrandimento puntata in questo caso sull’inizio della vita, sul suo sbocciare a dispetto delle avversità del mondo.

Crepuscolo (Eventide) – III libro

Prima edizione 2004

“Tornarono dalla scuderia nella luce obliqua del primo mattino. I fratelli McPheron, Harold e Raymond. Vecchi che si avvicinavano a una vecchia casa alla fine dell’estate. Attraversarono il vialetto sterrato, superarono il furgone e l’automobile parcheggiata accanto alla recinzione in rete metallica e varcarono il cancello l’uno dopo l’altro.”

In Crepuscolo ritroviamo alcuni dei protagonisti di Canto della Pianura, nel più malinconico dei libri della trilogia. Preparate i fazzoletti.

Le nostre anime di notte (Our Souls at Night)

Prima edizione 2015

“E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Water. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio.

Vivevano a un isolato di distanza da Cedar Street, nella parte più vecchia della città, olmi e bagolari e solo un acero cresciuti sul ciglio della strada e prati verdi che si stendevano sul marciapiede fino alle case a due piani.”

Opera con cui Haruf si congeda dalla letteratura, e in fondo dalla vita. Una storia romantica e anticonvenzionale, su un argomento che spesso è ancora considerato un tabù: l’amore fra due persone anziane. Nel 2017 ne è stato tratto un bellissimo film omonimo, con Robert Redford e Jane Fonda.

Tutti i libri di Kent Haruf sono tradotti in italiano da Fabio Cremonesi, puoi acquistarli anche su Amazon cliccando sul titolo del libro in neretto e sottolineato.

Visita il sito web della casa editrice su www.nneditore.it

Paola Cavioni

14 dicembre 2021

*Puoi leggere la recensione del libro, già pubblicata su Righe di Arte, a questo link:

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Quando guardi oltre, tutto è possibile. Righe su “Il vento contro” di Daniele Cassioli

“La missione di ogni uomo consiste nell’essere una forza della natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina perché l’universo non si dedica a renderlo felice.”

(George Bernard Shaw)

Il vento contro (DeAgostini 2018)

La citazione con cui apro questo post invita con decisione a essere forza della natura, a non lamentarsi, a essere artefici della propria felicità. Leggendo fra le righe, è un’esortazione a prendere di petto la vita, a sfruttare potenzialità e talenti, a dare un senso all’agire nel mondo e più in generale alla vita.

Concetti di facile comprensione, ma non sempre facili da mettere in pratica, soprattutto nella società in cui siamo immersi dove così spesso la lamentela diventa uno stile di vita.

Non vi è mai capitato di avere a che fare con persone che apparentemente non sono mai soddisfatte, che cercano la causa della loro insoddisfazione nelle persone e nelle cose che hanno intorno, ma che non fanno nulla per cambiare?

Oggi vi parlo di un libro che incarna perfettamente la massima di Shaw: Il vento contro, che ho letto nei giorni scorsi dopo avere assistito a una formazione aziendale tenuta proprio dal suo autore Daniele Cassioli.

Daniele nasce a Roma 35 anni fa, si laurea in Fisioterapia a pieni voti, ha un diploma di pianoforte al conservatorio, come sportivo detiene un numero altissimo di record nello sci nautico, si occupa di formazione su temi legati alla motivazione, svolge diverse attività nel sociale e attualmente sta scrivendo il suo secondo libro… è perché no, è anche influencer, nel senso più positivo del termine.

Già fino a qua, è tanta roba per una vita sola, per un solo uomo.

Mettiamoci anche, piccolo dettaglio del tutto trascurabile, che Daniele è non vedente dalla nascita, non so se avrei dovuto dirvelo prima.

Serve altro per capire quanto straordinaria possa essere l’esistenza?

In Il vento contro Cassioli parla della sua vita, della sua famiglia, di come i suoi genitori siano stati in grado, dopo una prima comprensibile fase di smarrimento e di ossessiva ricerca di una cura alla retinite pigmentosa con cui Daniele è nato, di fare accettare al loro figlio la sua diversità, che diventa poi unicità, per vivere come tutti i suoi coetanei.

Una fotografia di Daniele, dal sito web http://www.danielecassioli.it

Vivere come gli altri vuol dire impegnarsi nella scuola, tra le non poche difficoltà logistiche della mancanza di libri i braille e programmi scolastici che spesso non sono a misura di non vedente (per usare un eufemismo) uscire con gli amici, essere sgridato come tutti i bambini, e poi crescendo avere delle fidanzate, fare sport.

E qui arriva la vera svolta per Daniele, che nello sport trova un nuovo scopo, la motivazione e lo stimolo per superare ogni giorno i suoi limiti, fino a ottenere risultati assolutamente straordinari.

Certo si può obiettare che lui comunque è fortunato perché nato in una famiglia che ha avuto la possibilità di fargli fare esperienze, di farlo studiare, di portarlo in giro per il mondo, di gestire in modo positivo la sua diversità. Certo.

Ma con quanta facilità Daniele avrebbe potuto “accontentarsi” della sua vita, trovare nel suo essere cieco una giustificazione alla paura, all’inerzia?

Parlo per me, ma in moltissime occasioni mi lascio vincere dalla pigrizia per molto, molto meno. Basta un raffreddore per farmi rimanere un pomeriggio intero sul divano, una pioggerellina per non uscire a correre, una notte insonne per giustificare l’umore storto.

Quanti come me? Siate onesti.

Il titolo Il vento contro è metafora potentissima presa dallo sci nautico che fa capire come gli ostacoli nella vita possano essere considerati muri contro cui scontrarsi e che bloccano il cammino, oppure trampolini da cui prendere la spinta per saltare per arrivare più in alto possibile e per provare a toccare il cielo.  

Daniele si apre al lettore con una scrittura semplice e diretta, senza fronzoli, la comunicazione tipica di chi è abituato a stare in mezzo alla gente, a raccontarsi ad adulti con esperienze e un vissuto diverso dal suo,  ma anche a farsi comprendere dai bambini.

Perché Daniele che ha anche fondato un’associazione che si occupa della promozione dello sport e di attività sociali legate al mondo e non.

Il vento contro è un libro che si legge per la forza del messaggio che contiene: quando guardi oltre, tutto è possibile.

Che non deve essere confuso con facile da realizzare, scontato o regalato, ma possibile.

E che soprattutto, che alla fine, ne vale sempre la pena.

Per maggiori informazioni su Daniele Cassioli e l’attività della sua associazione puoi visitare i siti web:

www.danielecassioli.it

www.sportrealeyes.it

Puoi acquistare il libro anche su Amazon, per accedere allo shop clicca QUI.

Paola Cavioni

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Righe su “Il conformista” di Alberto Moravia

“Ogni scrittore è una chiave per aprire la porta della realtà”

(da un’intervista di Alberto Moravia)

Alberto Pincherle Moravia nasce a Roma il 28 novembre 1907 e muore nel 1990 dopo una vita iniziata in salita con i frequenti ricoveri nei sanatori sulle Alpi per curare una grave forma di tubercolosi ossea, ma vissuta intensamente fino all’ultimo giorno: una produzione letteraria sconfinata, tre grandissime donne al suo fianco, viaggi intorno al mondo, la fama che il cinema neorealista regala alle sue storie e l’amicizia con molti personaggi di primo piano della cultura italiana come Pier Paolo Pasolini.

Oggi voglio celebrare la vita di questo straordinario narratore testimone del novecento parlandovi del suo romanzo meno amato dalla critica, tanto che spesso non viene nemmeno inserito nelle antologie scolastiche.  

Se infatti, è nota la fortuna, di pubblico e di critica, de Gli indifferenti, de La ciociara o La noia, altrettanto non si può dire de Il conformista.

A soli 44 anni, Il conformista è l’ottavo romanzo, escluse le raccolte di racconti, dello scrittore romano.

Un romanzo che parte da una domanda drammatica: può un evento traumatico nell’infanzia condizionare tutta la vita, la lettura e l’interpretazione di tutti gli avvenimenti che avvengono prima e dopo quel fatto?

Pubblicato da Bompiani nel 1951, quando l’Italia sta ricostruendo quanto distrutto dalle bombe, Il conformista riprende molti temi già presenti nelle opere precedenti (ma anche successive) dell’autore: la decadenza della società borghese votata inconsciamente all’apparenza e ai rapporti stereotipati, il giudizio complessivo di fallimento della società occidentale durante la seconda guerra mondiale e nel periodo appena successivo, con l’inizio della Guerra Fredda, la tensione sessuale che guida i pensieri e le azioni dei suoi personaggi, ma anche la frustrazione per una sessualità mai apertamente vissuta, o peggio, subita, il tradimento come norma nei rapporti umani.

Mors tua, vita mea, una narrativa che non prevede eroi, come nella più pessimistica visione dell’esistenza umana.  

Il conformista è un romanzo in tre atti che ripercorre la vita del protagonista Marcello Clerici.

Il titolo, come spesso accade in Moravia, è un manifesto: programmatico e predittivo rispetto al contenuto della storia.

La narrazione è in terza persona, con uno stile discorsivo che somiglia quasi alla voce fuori campo di un film.  

Nel Prologo del libro, che è il primo atto, troviamo Marcello adolescente. L’adolescenza, età molto indagata dalla penna di Moravia: periodo della vita che può essere pieno di tormenti ma anche curiosità nei confronti dell’esistenza e del mondo, di ricerca di identità certezze e conferme.

Nella vita di questo adolescente ad un certo punto compare un personaggio ambiguo, Lino, che con il suo agire determina in modo definitivo la rotta che la vita di Marcello dovrà prendere per sempre: il ragazzo non vuole più, da quel momento in poi, sentirsi diverso dagli altri, avere pensieri differenti (o che crede erroneamente che siano differenti) da quelli degli altri, dei suoi coetanei.

Nell’età adulta, questa ricerca ossessiva verso il volersi sentire uguale agli altri, spinge il protagonista ad aderire al movimento fascista (nel secondo atto siamo nel momento appena precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale) nel modo forse più facile: diventare una spia alla ricerca dei nemici del duce. Poco importa se questi “traditori della patria” sono persone che lui conosce molto bene, come un suo vecchio professore stabilitosi in Francia.

Marcello parte alla volta di Parigi, mascherando la sua missione con il viaggio di nozze insieme alla moglie Giulia, per trovare il professore e consegnarlo nelle mani dei suoi sicari.

Da quel momento inizia inesorabilmente il suo viaggio di non ritorno verso il punto più basso verso la morale umana, una a-moralità, con una visione del tutto distorta di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un vortice discendente da cui sembra salvarsi, ma non del tutto, solo la moglie Giulia, personaggio che ha comunque dei lati oscuri e nascosti.

Si arriva così al terzo e ultimo atto, che chiude il cerchio e le fila di una vita che ricorda quella di certi inetti così cari alla letteratura italiana a cavallo fra otto e novecento.

Leggendo le pagine di questo romanzo fa impressione pensare che molti dei fatti narrati sono tratti dalla biografia del suo autore, a partire dall’anno di nascita del protagonista Marcello che viene fatto nascere 1907 esattamente come Moravia.

C’è poi il tema dell’adesione al fascismo, che Alberto conosce molto bene essendo stato tacciato di pornografia dal regime, costretto a pubblicare dietro pseudonimo e poi alla fuga dopo l’8 settembre, e il tema dell’omicidio politico.

Nel 1937, infatti, Carlo e Nello Rosselli, cugini di Moravia, vengono assassinati in Normandia per mano di un’organizzazione filofascista francese.

Non mi soffermo a elencare i motivi per i quali quest’opera è così poco amata dalla critica; personalmente credo che sia assolutamente da scoprire e comprendere, soprattutto visto che il tema del conformismo, che può portare anche agli esiti catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti sotto forma di violenza di branco e bullismo, è sempre presente all’interno della società.

Il conformista è  un romanzo di segreti e rivelazioni, di calma sulla superficie a nascondere la tormenta e il terremoto che da sempre scuote l’animo umano.

Paola Cavioni

28 novembre 2021

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Righe su “Per un pò” di Niccolò Agliardi e anche un pò su di me…

“È primavera da pochi giorni, e il cielo sereno filtra dal parabrezza della macchina ancora sporca di pioggia e polvere depositate dagli ultimi colpi dell’inverno. Io non ho smesso di combattere contro la mia malinconia, contro quella solitudine esasperata e invisibile che a ogni nuovo giro di carte, da qualche anno, batte il banco e si porta via il malloppo. Eppure sono un uomo fortunato, lo riconosce la mia ragione, ho una famiglia scomposta ma presente a ogni mio richiamo, ho buoni amici e un corpo in salute nonostante la mente si ostini sporadicamente a lanciare falsi segnali di vere ipocondrie.

L’anima no, non è ancora in porto. Di certo ho attraversato burrasche peggiori, ma so che per le acque calme c’è ancora bisogno di tempo e di molte miglia.”

(Niccolò Agliardi)

Spoiler: volevo scrivere un post a misura di Instagram ma non ci sono riuscita.

Dovrete avere la pazienza di leggere di più di 2200 caratteri e 30 hashtag, ma è un bel po’ che non scrivo quindi so che mi perdonerete la lunghezza del post perché per arrivare dove devo arrivare sono obbligata a fare una piccola digressione che parte dal mio personale.

Nel maggio scorso dopo più sei anni ho cambiato lavoro.

Uscire dalla mia zona di comfort non è stato facile, proprio per niente, soprattutto dopo più di un anno fra lockdown e didattica a distanza.

È stato difficile abbandonare routine e percorsi conosciuti, lasciare la sicurezza di relazioni consolidate, saltare nel vuoto di una nuova realtà, con nuovi orari e responsabilità.

Giorni intensi in cui il sano entusiasmo tipico di tutte le cose nuove che iniziano si alternava a più di un umano timore.

Sarei riuscita a svolgere bene il mio nuovo lavoro?

Mi sarei integrata con il gruppo di nuovi colleghi?

Stavo facendo la cosa giusta per me e per i miei figli?

Avevo paura perché tutto stava capitando in un momento in cui la mia famiglia richiedeva ancora tante attenzioni: le conseguenze emotive della perdita di mio papà lo scorso anno, mia figlia Gaia che si stava ristabilendo dopo un brutto incidente in bicicletta, mio figlio Francesco nel pieno della fase dei “terribili tre”. Insomma, un casino.

Questa è stata la cornice personale del mio arrivo in Fondazione L’Albero della Vita Onlus come Coordinatore delle Risorse Umane.

Paura, gioia, entusiasmo unite alla consapevolezza di essere davanti al coronamento di un sogno personale che credevo quasi impossibile: lavorare in una ONG.

Una ONG, quanto di più umano ci possa essere, per una come me che ha scelto di lavorare nel settore delle Risorse Umane perché convinta che le persone non siano solo numeri di matricola.

In questa nuova realtà ho scoperto e sto scoprendo ogni giorno la bellezza della gentilezza come modalità di approccio tra colleghi e fra superiori e collaboratori.

Sto conoscendo persone che, da varie strade, sono arrivate a lavorare per una Onlus lasciando anche lavori molto più pagati ma meno appaganti.

Mi sto gustando ogni giorni la soddisfazione di tornare a casa alla sera consapevole di avere contribuito, per la mia piccolissima parte, al lavoro di persone che si prestano al servizio del prossimo, nei contesti più difficili, in favore di quella silenziosa massa che vive ai margini della società.

Ma soprattutto sto scoprendo moltissime storie legate all’attività che Fondazione L’albero della Vita Onlus svolge da più di vent’anni in Italia e nel mondo.

Come le tante piccole e grandi storie legate al progetto dell’affido familiare, istituto importantissimo per la tutela dell’infanzia e della adolescenza.

È proprio da questa voglia di conoscere sempre meglio la mia nuova realtà lavorativa che sono arrivata al libro di Niccolò Agliardi, Per un po’. Storia di un amore possibile (Salani Editore).

Un romanzo ma una storia vera allo stesso tempo.

Niccolò Agliardi è un cantautore, autore e scrittore milanese. Ha 40 anni, una famiglia, degli amici, una vita indipendente, viaggia molto. Un uomo realizzato, certo ogni tanto ha qualche attacco di panico, ma chi non ne ha nella nostra società?

E poi diverse storie d’amore anche importanti ma tutte ormai finite.

E in questa vita che si divide fra musica e scrittura, Niccolò sente che c’è uno spazio che può essere colmato. Anzi, uno spazio che può essere donato.

Donato rendendosi disponibile, e risultando idoneo, per un affido familiare, una particolare forma di affido chiamato prosieguo amministrativo.

Così Niccolò diventa genitore affidatario di Federico, Chicco, che è un ragazzo già maggiorenne, segnato da una vita difficile, con più di un affido precedente terminato male e una madre fragile e inconsapevole di quanto la sua assenza pesi sulla vita del figlio.

L’affido di Federico viene seguito dal personale educativo proprio de L’Albero della Vita, che affianca tanti genitori come Niccolò nel percorso spesso emotivamente pesante di una genitorialità differente, che non inizia con una gestazione, ma da un atto di amore altruistico.

In Per un po’ Agliardi racconta il cammino insieme a Federico, le cui fragilità lo obbligano a fare i conti con le proprie zone d’ombra e tutto il non risolto della sua vita.  

Un cammino pieno di difficoltà nel tentativo di diventare solo un padre e un figlio. Anche solo per un po’.

Ci saranno dei passaggi che vi faranno piangere, altri che vi faranno arrabbiare, altri ancora in cui ritroverete anche un pezzo della vostra storia.

Perché questa storia non è una favola, non ci sono buoni e cattivi. Questa è solo e semplicemente vita vera.

Per un po’ è va letto con il cuore aperto e con la consapevolezza che ci sono delle esistenze che precedono l’inizio del racconto e continuano dopo la fine del libro.

Mi sono ritrovata molto nella profondità delle riflessioni di Niccolò e lo ringrazio per avere regalato al mondo una storia così personale, mettendosi a nudo anche davanti agli occhi troppo spesso giudicanti degli altri genitori.

Per questo per poter parlare di Per un po’, ho sentito che dovevo donarvi anche un piccolo pezzo della mia storia.

E vi ringrazio per avermi letta.

Paola

Per un po’. Storia di un amore possibile è acquistabile anche su Amazon. Clicca QUI per andare direttamente al negozio online.

Se volete conoscere tutte le attività di Fondazione L’Albero della Vita potete visitare il sito web https://www.alberodellavita.org/

Ciao e benvenuto/a!

Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

L’altra mia più grande passione? Che domanda, i libri! Su Righediarte trovi tante recensioni di libri, senza un ordine preciso perché amo spaziare in ogni ambito della narrativa.

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Righe su “Elisabetta e le altre” di Eva Grippa.

Elisabetta e le altre. Dieci donne per raccontare la vera regina, di Eva Grippa con prefazione di Enrico Franceschini (DeAgostini Editore, 2021).

Pochissimi giorni fa DeAgostini ha pubblicato un libro che racconta la Regina Elisabetta partendo dalle storie di dieci donne della sua vita. Non ne manca nessuna: ci sono madri, sorelle, figlie, nipoti e nuore.

Il 2021 per la monarchia inglese è un anno importante: si festeggiano i dieci anni di matrimonio di William e Kate, i novantacinque della regina, l’anno del consolidamento della Brexit e della Megxit. Lady Diana avrebbe compiuto sessant’anni. Se fosse stata ancora la Principessa Diana chissà quale festa sarebbe stata in tutto il Regno Unito.

A giugno il Principe Filippo avrebbe compiuto cento anni, se non fosse che il 9 aprile i riflettori si sono spenti sulla lunga vita del tenente Philip Mountbatten, Sua Altezza Reale il Duca di Edimburgo.

Che smacco per il Principe Carlo, proprio il 9 aprile: il giorno dell’anniversario di matrimonio di Carlo e Camilla. Giorno evidentemente infausto dato che nel 2005 la coppia, dopo oltre trent’anni di relazione più o meno clandestina, aveva dovuto posticipare le nozze di un giorno (fissate per l’8 aprile)perché Carlo doveva essere a Roma, presente ai funerali di papa Giovanni Paolo II.

Ma tornando al libro, chi sono queste donne, di cui grazie alle parole di Eva Grippa conosciamo vizi, virtù e soprannomi?

Il libro segue un ordine strettamente cronologico dall’infanzia di Elisabetta, Lilibet, prima ancora di essere l’erede al trono d’Inghilterra. Lei, appartenente ad un ramo cadetto della famiglia Windsor, non era destinata a diventare regina. Almeno fino a quando non è arrivata Wallis Simpson.

Nell’infanzia della regina c’è Marion Crawford, detta Crawfie. Marion è la tata delle giovanissime Elisabeth e Margaret, molto amata dalle due sorelle ma che subisce una vera damnatio memoriae alla fine del suo servizio a seguito della pubblicazione, nel 1950, del libro scandalistico The Little Princesses. Libro che la Regina Madre commenta con un flemmatico “È uscita di senno” riferendosi alla sua autrice ed ormai ex collaboratrice.

Elizabeth Bowes-Lyon, la Regina Madre, mummy, vero simbolo del secolo passato perché nasce nel 1900 e muore alla veneranda età di centodue anni, dopo aver seppellito un marito e una figlia. Dotata da Madre Natura di un viso che sembra sempre sorridente, rotondetta e rassicurante, tanto che la cognata Wallis Simpson (con la quale non correrà mai buon sangue) la chiama Cookie, biscotto. Con le figlie, in particolare con Elisabetta, ha un rapporto speciale. Oltre che con il gin.

Più controverso è invece il rapporto con Filippo.

“Era soprattutto l’ascendenza tedesca di Filippo a disturbarla: era nato principe di Grecia in una casa reale derivata da ceppi tedesco-danesi, che gli avevano dato il cognome di Schleswig-Holstein-Soderburg-Glücksburg, poi cambiato in Mountbatten come adattamento del cognome di sua madre, Battenberg. Un certo legame con il partito nazista delle sorelle di Filippo non farà che confermare l’antipatia. Mummy sapeva quanto la figlia fosse innamorata di lui, ma ciò non le ha impedito di combattere contro il genero una sottile guerra tra le mura delle residenze di corte.”

C’è sua Altezza Reale la Principessa Margaret, contessa di Snowdon, donna tanto bella ed elegante quanto sfortunata, in amore e non solo. Muore lo stesso anno di sua madre, anzi poco prima, e possiamo solo immaginare quanto sia stato difficile per la Regine Elisabetta perderle a così poca distanza l’una dall’altra. Leggendo la sua storia penso che l’appellativo di principessa triste sia più adatto a lei che a Diana Spencer.

È il turno poi di Wallis Simpson, That woman (quella donna). Pietra dello scandalo nella famiglia Windsor perché pluri divorziata e filo nazista, donna assolutamente indipendente e pronta a tutto pur di difendere il suo amore, tanto osteggiato e non creduto, per Edoardo VIII, in questo forse spirito guida della bella Meghan Markle.

La principessa reale Anna, unica figlia femmina di Elisabetta, che con la madre condivide l’amore per i cani,  la vita all’aria aperta e l’impegno nella vita pubblica. È anche l’unico membro della famiglia reale che abbia mai partecipato ai Giochi olimpici. Una donna, tanto per dire.

Lady Diana Spencer, sulla quale ormai si è detto e scritto qualunque cosa, fino a farla diventare quasi una figura al limite del mitologico, cui per contrasto viene associata la scandalosa, e forse un po’ sgraziata, Sarah Ferguson, che solo di recente ha riconquistato la simpatia e la stima della Regina Elisabetta.

Chiudono il libro la sempre presente Camilla Parker Bowles, la Queen to be Kate Middleton e l’ultima arrivata (per modo di dire) Meghan Markle, che non ha saputo adeguarsi alla vita di corte. Henry forse non conosce il significato del proverbio “mogli e buoi dei paesi tuoi”, ma credo che ora, lontano dai flash dei paparazzi che tanto sono costati nella vita della sua famiglia, sia un uomo più felice e realizzato.

La vita della Regina Elisabetta e di chi ha fatto e fa parte, a vario titolo, della famiglia reale, è cosparsa di scandali, tradimenti, divorzi, grandi amori e figli illegittimi. Ma lei ha saputo sempre tenere fede al suo motto: never complain never explain, mai lamentarsi e mai dare spiegazioni.

Eva Grippa ci accompagna in un viaggio piacevole, fatto di storia, di etichetta ma anche di gesti spontanei, di ripicche e aneddoti assolutamente inediti. Un libro fondamentale per capire la personalità della regina come donna e come leader di una potenza quale è quella inglese e dell’intero Commonwealth.

Leggere Elisabetta e le altre in questi giorni porta con sé inevitabilmente un velo di tristezza, al pensiero che, fra tante donne, ora Elisabetta II, la regina dei record, abbia perso il suo uomo, il suo grande amore, il suo Cabbage (cavolo), come affettuosamente lo chiamava.

Ma così è la vita, anche i ricchi (e i nobili) piangono.

Paola Cavioni

Eva Grippa è giornalista di Repubblica dal 2004 e royal watcher per passione e professione.

Il libro Elisabetta e le altre è acquistabile anche su Amazon. Clicca QUI per andare direttamente allo shop dal link affiliazione di Righediarte.

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Righe su “Canto della pianura” di Kent Haruf

Well, my sense of humanity has gone down the drain

Well, my sense of humanity has gone down the drain

Behind every beautiful thing there’s been some kind of pain

She wrote me a letter and she wrote it so kind

She put down in writin’ what was in her mind

I just don’t see why I should even care

It’s not dark yet but it’s gettin’ there

(Bene, la mia umanità è andata nella fogna

Dietro ogni cosa bella, c’è sempre qualche tipo di dolore

Lei mi ha scritto una lettera ed era così dolce

Nelle parole ha messo tutto quello che aveva in testa

Ma perché tutto questo dovrebbe importarmi?

Non è ancora buio, ma lo sarà fra poco)


Not dark yet, Bob Dylan

Canto della pianura (Plainsong, Enne Enne Editore, 2015. Traduzione di Fabio Cremonesi)

Meno di un mese fa ho condiviso sul blog la recensione di La strada di casa.

Oggi torno a parlarvi nuovamente di Kent Haruf con il secondo romanzo della Trilogia della Pianura (il primo è Benedizione, il terzo Crepuscolo, e lo so che non sto andando in ordine ma come dice Karl Kraus “Ben venga il caos, perché l’ordine non ha mai funzionato”)

Il magnifico Canto della pianura è del 1999 e consacra definitivamente il suo autore nell’olimpo della grande letteratura americana, accanto a nomi come Hemingway, Faulkner, Carver e Chandler, ai quali spesso Haruf viene paragonato.

Un libro che è realmente un canto, un romanzo corale ambientato nella tanto amata Holt, che se seppur non esista sembra di vederla sulla cartina, proprio lì accanto a Denver, nell’America che più rurale di così non si può.

Canto della pianura all’interno della Trilogia è il libro dedicato al tema della nascita: un viaggio lungo nove mesi in cui ci accompagnano Tom Guthrie con i figli Ike e Bobby, Vittoria Roubideaux che si trova a dovere affrontare una gravidanza in età adolescenziale, senza un compagno, o meglio con un ex fidanzato che non si può proprio definire un gentiluomo, e con la madre che la caccia di casa, i due anziani fratelli McPheron che sono chiamati ad un compito molto lontano dalla loro natura solitaria e schiva, e poi ci sono Ella, Maggie Jones e gli altri che si muovono sullo sfondo.  

La trama è tutta qua, uno spaccato di nove mesi o poco più nelle vite di un gruppo di persone di Holt che affrontano i problemi del quotidiano: matrimoni che finiscono e figli da crescere, adolescenti difficili, bambini che scoprono come si nasce e come si muore, ragazzine che diventano donne pur non essendo mai state del tutto amate come figlie.

Kent Haruf è un maestro nella tessitura di trame che si intrecciano solo al momento giusto, non un minuto prima; ci fa scorrere sotto agli occhi le vite dei personaggi che alla fine in un modo o nell’altro si ricongiungono, ognuna con le proprie ferite più o meno rimarginate.

E poi quello stile inconfondibile nei dialoghi, che seppure non sono mai indicati dalle virgolette non affogano nel resto del testo. I protagonisti prendono davvero la parola, la vita e si animano davanti al lettore.

Canto della pianura è un fiume in piena, un film che non si può smettere di guardare, idealmente da leggere senza soluzione di continuità.  

Ho terminato la lettura di questo romanzo con le lacrime agli occhi e l’ammirazione sempre più grande nei confronti di un autore che forse ci ha lasciato orfani troppo presto, a poco più di settant’anni nel 2014, che avrebbe potuto regalarci ancora tanta emozione e tanta vita fra le pagine dei suoi libri.

Chiudo con due parole sul lavoro di traduzione di Fabio Cremonesi, che è la voce italiana di Haruf. Chi leggerà il libro si renderà conto, almeno in un paio di occasioni, di quanto possa essere stato difficile rendere in italiano dei termini tecnici legati alla vita rurale, senza però perdere nulla della potenza di quelle particolari scene (che non vi anticipo perché dovete “godervele” in tutto e per tutto). Quindi chapeau, Fabio Cremonesi.

Paola Cavioni

I romanzi di Kent Haruf si possono acquistare anche su Amazon, clicca sul titolo del romanzo per andare direttamente al negozio dal link affiliazione di Righe di Arte:

Leggi la recensione di La strada di casa cliccando QUI.

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Righe su La moglie di Ponzio Pilato di Massimo Trifirò (NeptUranus editore)

La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.

Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.

Via della Croce, Fabrizio de Andrè (La buona novella)

Quale occasione migliore degli auguri di Pasqua per parlarvi del libro La moglie di Ponzio Pilato. Tradire se stessi per la verità di Massimo Trifirò, edito da NeptUranus nella collana Il nome della prosa.

Ringrazio la casa editrice per avermi inviato copia dell’opera; un libro particolare e unico nel suo genere, a metà fra il saggio storico e il racconto breve, che offre un punto di vista differente sulla vicenda storica di Gesù di Nazareth, partendo proprio dal racconto de sogno di Claudia Procula, per poi spostarsi sulla ricostruzione prettamente storica delle vicende che portano alla morte di Gesù Cristo.

La romana Claudia Valeria Procula, moglie del governatore Ponzio Pilato, nei Vangeli canonici è nominata una sola volta dall’evangelista Matteo, in poco più di una riga.

Gesù, dopo essere stato giudicato dal sommo sacerdote Caifa, si trova davanti a Ponzio Pilato, l’uomo che ha il potere e l’autorità per confermare la sua condanna alla crocifissione oppure liberarlo.

In occasione della festa, il governatore era solito rilasciare al popolo un detenuto a loro scelta. In quel tempo c’era un prigioniero distinto, di nome Barabba.

Mentre essi erano radunati, Pilato domandò: “Chi volete che vi rilasci, Barabba o Gesù, quello che è chiamato Cristo?”.

Sapeva, infatti, che per odio l’avevano consegnato.

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie mandò a dirgli: “Nulla vi sia fra te e questo giusto, poiché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua”.

Dal Vangelo secondo Matteo 27, 15-19

Mentre alcuni dei suoi discepoli lo tradiscono, lo rinnegano e cercano di salvarsi per non fare la fine del loro maestro, una donna romana, una first lady come la chiameremmo oggi, si schiera dalla parte di Gesù.

Mentre la folla inneggia la liberazione di Barabba, Claudia chiede che si risparmi la vita a un uomo giusto.

Con un atto di coraggio, che dice molto del rapporto che poteva esserci con il marito, chiede la liberazione di Cristo quasi come un favore personale, perché turbata da un sogno di cui possiamo solo ipotizzare il contenuto.

Un sogno che avrebbe potuto cambiare la Storia dell’umanità se solo Pilato l’avesse ascoltata.

E chissà quali scenari si sarebbero aperti se in una remota provincia romana, oltre duemila anni fa, Gesù Cristo non fosse morto da martire e gli evangelisti non avessero raccontato la sua storia.

Forse sarebbe rimasto solo uno dei tanti profeti? Chi può dirlo.

Claudia Valeria Procula, donna romana e di nobili origini, va contro la cultura dalla quale proviene perché sente che quella è la cosa giusta da fare.

Sembra addirittura che appartenesse alla dinastia Giulio-Claudia perché figlia di Giulia Maggiore (e quindi nipote di Giulio Cesare) ma nata al di fuori del matrimonio con l’imperatore Tiberio, che era il terzo marito di Giulia. Insomma, ce n’è per una soap opera solo per ricostruire il suo albero genealogico, era inevitabile che la sua figura diventasse mitica.

Nonostante l’esiguo spazio dedicatole nei Vangeli, Procula è venerata nella Chiesa Ortodossa e la sua figura storica è ampiamente documentata nell’arte figurativa e anche nel cinema (se volete approfondire vi consiglio di guardare La tunica e The Passion, in cui Claudia Procula ha il volto di Claudia Gerini). Segno quindi che non è riuscita a salvare Gesù, ma è diventata lei stessa immortale.

Vi consiglio di approcciarvi al libro di Massimo Trifirò, che racconta molto di più di quanto ho brevemente riassunto in questo post, con la voglia e la curiosità di esplorare la vicenda umana di Gesù Cristo, oltre che la valenza storica e religiosa. Un libro che regala molti spunti di riflessione e spazio per approfondimento personale, se si è curiosi di conoscere quello che volente o nolente è parte del retaggio culturale occidentale.

Ora concludo con gli auguri di una serena Pasqua, vi lascio al vostro pranzo di festa (nel rispetto di tutte le norme per il contenimento della pandemia) e vi auguro di passare comunque una bella giornata in serenità, in compagnia delle persone che amate.

Buona Pasqua

Paola Cavioni

La casa editrice

NeptUranus è una piccola casa editrice che propone un numero limitato di titoli scelti con cura, suddivisi in tre collane dai nomi assolutamente geniali: Fuorismi, Increspature e Il nome della Prosa.

Il motto di NeptUranus è “Meglio essere dilettanti che lavorano in maniera professionale, piuttosto che essere professionisti che operano in modo dilettantesco.”

www.nepturanus.com

info@nepturanus.com

L’autore

Massimo Trifirò nasce a Lecco, città della quale è Cittadino Benemerito.

Ha una laurea in Scienze Politiche con specializzazione in Storia.

È autore di numerosi saggi  e racconti (La lama nel buio, Il dono della lentezza, Racconti tra Lecco e Oggiono).

Con NeptUranus ha pubblicato anche La necessità del bene, Vide e credette, La buona notizia.

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Righe su “Non lasciarmi” di Kazuo Ishiguro

Non lasciarmi (Never let me go, Einaudi 2005, traduzione di Paola Novarese)

“Mi chiamo Kathy H. Ho trentun anni, e da più di undici sono un’assistente. Sembra un periodo piuttosto lungo, lo so, ma a dire il vero loro vogliono che continui per altri otto mesi, fino alla fine di dicembre […] Ma so per certo che sono soddisfatti del mio lavoro, tanto quanto, nell’insieme, lo sono io. I miei donatori hanno sempre reagito meglio del previsto.”

Per parlare di Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro (nato in Giappone nel 1954 ma cresciuto in Inghilterra) è obbligatoria una premessa: bisogna per forza dare qualche anticipazione sulla trama e sui protagonisti del romanzo, senza ovviamente svelarne il finale (penso che non me lo perdonereste mai).

Partiamo dalla definizione: Non lasciarmi è un romanzo ucronico (che parolone per un venerdì pomeriggio).

Cosa vuol dire questo termine dal suono così duro?

Il romanzo ucronico (letteralmente “di nessun tempo”) è un genere di narrativa, a metà fra il romanzo fantastico, lo storico e per certi versi il fantasy, che parte dalla premessa che la storia del mondo abbia avuto un corso differente rispetto alla realtà (per gli amanti del cinema, Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino è un esempio dello stesso genere di narrazione).

Non lasciarmi inizia in Inghilterra alla fine degli anni ‘90, ma poi è tutto un lungo flashback.

Il mondo è quello che conosciamo, tranne per i protagonisti della storia.

Kathy (la voce narrante), Tommy e Ruth vivono insieme ad altri ragazzi ad Hailsham, un collegio immerso nella campagna inglese. I ragazzi che vivono e studiano in questo collegio che sembra una comune non hanno cognome (solo una lettera puntata, Kathy H.), non hanno fratelli o sorelle, non hanno genitori o famiglia, ma non sono neanche orfani, e non possono avere figli.

Ad Hailsham i ragazzi studiano l’arte e la letteratura con i loro insegnanti ma scoprono anche ogni giorno cosa significano sentimenti come amicizia e amore vivendo sempre in compagnia di coetanei, e si interrogano sul loro futuro fuori dal collegio.

La responsabile della struttura è una donna che tutti conoscono come Madame, che regolarmente selezione e porta via con sé le opere d’arte migliori prodotte dagli ospiti della scuola.

Ma cosa rende così particolari Kathy, insieme agli altri ragazzi, e soprattutto il loro istituto?

Ed è qui che bisogna anticipare il tema fondamentale del libro per poterne parlare.

Gli ospiti del collegio non sono ragazzi normali perché, più o meno a metà del libro, scopriamo che sono dei cloni umani creati appositamente per diventare, un giorno, donatori di organi.

Esseri viventi, con dei sentimenti, destinati ad essere fatti “a pezzi” per salvare altre vite.

Nel loro futuro non ci può essere un lavoro, una famiglia, dei viaggi, perché il loro destino è stato scritto nel momento stesso della loro creazione. Ma forse una speranza c’è, e ha molto a che fare con l’amore… Ma mi fermo qua per non togliere l’effetto sorpresa.

Dal punto di vista narrativo, il romanzo è diviso in tre parti che corrispondono grosso modo al racconto di infanzia, adolescenza e età adulta.

Non lasciarmi è scritto con lo stile inconfondibile e già maturo di Ishiguro, sul quale non è necessario spendere parole dato che parla per lui la sua vittoria al Nobel per la Letteratura nel 2017.

La grande forza del romanzo risiede nella domanda drammaturgica che fa nascere la storia: è giusto creare una vita e sacrificarla per salvarne un’altra?

Fino a che punto la scienza si può muovere, entrando in modo preponderante nel campo dell’etica e della morale?

Le domande ovviamente rimangono senza risposta, ognuno trovi la propria.

Quello che posso dire è che personalmente rilevo altre due critiche alla società moderna occidentale.

La prima è il fatto che i ragazzi di Hailsham studino materie artistiche. Forse perché queste sono considerate dalla società come inutili e superficiali? È più sacrificabile un futuro Pablo Picasso oppure un futuro Stephen Hawking? L’arte costringe lo spirito ad una evoluzione, ma forse non è quello che la società occidentale materialista vuole.

Il secondo tema, preponderante, è legato al fatto che ognuno di noi, quando nasce, abbia già un destino che è in gran parte segnato. Segnato dalla propria condizione famigliare, dal proprio paese, dal proprio stato di. Non sono molti quelli che riescono a sottrarsi a questo destino, che nella società in cui viviamo consiste per molti nel prendere un titolo di studio, trovare un lavoro, comprare una casa, fare figli e lavorare fino alla pensione o fino alla morte. Che comunque alla fine arriva per tutti, indipendentemente dalla nostra felicità in questo mondo.

È quindi un libro che, in ultima analisi, ci parla di amore, ma anche di cosa vuol dire veramente felicità e libertà.

Nel 2010 dal romanzo di Ishiguro è stato tratto un film omonimo diretto da Mark Romanek e ha, tra i protagonisti, anche Keira Knightley nel ruolo di Ruth. Carey Mulligan presta il volto a Kathy.

La pellicola si aggiudica il British Independent Film Award nello stesso anno della sua uscita.

Paola Cavioni

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Puoi leggere la mia recensione di Quel che resta del giorno, il più famoso dei romanzi di Kazuo Ishiguro, al seguente link: https://righediarte.com/tag/ishiguro/

Righe su “La strada di casa” di Kent Haruf

“I come from down in the valley
Where, mister, when you’re young
They bring you up to do like your daddy done”

(Vengo dal fondo della valle dove, signore, quando sei giovane ti fanno crescere per fare il lavoro di tuo padre)

The River, Bruce Springsteen

La strada di casa, Kent Haruf (NNEDITORE)

“Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui. Persino la polizia aveva smesso di cercarlo. Avevano ricostruito i suoi movimenti fino in California, ma dopo il suo arrivo a Los Angeles se l’erano perso e a un certo punto avevano rinunciato. Quindi nell’autunno del 1985, per quanto se e sapeva, Burdette era ancora là. Era ancora in California, e noi ci eravamo quasi dimenticati di lui.”

È su quest’ultimo quasi che si regge tutta la trama di La strada di casa di Kent Haruf (1943-2014), romanzo del 1990 uscito prima della più nota Trilogia della pianura (Benedizione, Canto della pianura, Crepuscolo).

Il titolo inglese originale è in realtà molto più significativo, ai fini della comprensione della storia, di quello italiano: Where You Once Belonged, il posto a cui un tempo appartenevi.

Una sfumatura semantica e una carica emozionale diversa rispetto a La strada di casa, che comunque è un buon titolo.

La storia è sì quella di una partenza e di un ritorno a casa: è la storia di Jack Burdette, raccontata dell’amico Pat Arbuckle, che si svolge in un arco temporale che va dagli anni ’60 al 1985. Dalla nascita al momento della sua scomparsa di Jack da Holt, proprio nel momento in cui sta per diventare padre per la terza volta, e fino al suo ritorno inaspettato che porta non poco scompiglio nelle vite delle persone che lo hanno conosciuto.

Holt è la cittadina, inventata, dell’America rurale che fa da sfondo a tutti i romanzi di Haruf, con i suoi personaggi dalle anime graffiate, dove nessuno è destinato alla redenzione e tutti devono sottostare alla teoria del caos e all’effetto farfalla.

“Boulder [Università ndr] era uno stagno ben più profondo di quanto non si aspettassero quei due ragazzi della contea di Holt.”

Nel film Big Fish di Tim Burton c’è una bella frase che pronuncia il protagonista Ewan McGregor: “tenuto in un piccolo vaso, il pesce rosso rimarrà piccolo, in uno spazio maggiore esso raddoppia, triplica, o quadruplica la sua grandezza”.

Ne La strada di casa Haruf ci dice esattamente l’opposto. Ci dice che quello che in una realtà piccola può sembrare un pesce grosso, tolto dal suo contesto e messo nella vasca dei pesci grandi, si rivela in realtà solo un piccolo pesce rosso, che per sopravvivere deve comportarsi come un predatore.

Il come sarà proprio Pat a spiegarcelo nel corso della narrazione.

La strada di casa emoziona, fa arrabbiare, fa piangere, fa riflettere su cosa vuol dire amare, sul senso di giustizia e soprattutto di ingiustizia di chi non riesce a fare pace con le proprie radici.

Un romanzo che tocca dei punti altissimi di capacità di scrittura, di resa delle immagini, con descrizioni sintetiche e precise come tocchi in punta di fioretto.

Un romanzo per chi ama la buona scrittura e le buone storie, che lascia nelle orecchie il suono metallico e malinconico dell’armonica di Bruce Springsteen e la sensazione destabilizzante, da pugno in faccia, dei libri di Raymond Carver.  

E l’immensa capacità di Haruf di fare assurgere gli altari della Grande Letteratura e a rendere immortale il solo apparente ordinario della vita nella provincia americana.

Paola Cavioni

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Righe su “La donna degli alberi”di Lorenzo Marone

“I bilanci non sono per la nostra ultima parte di vita, stanno invece nel mezzo, sono per chi ha ancora tempo da tessere, mia nonna non si perdeva dietro ai bilanci, aveva da tirare avanti con dignità.”

Lorenzo Marone

Oggi torno a parlare di Lorenzo Marone, autore napoletano che apprezzo e stimo molto e che ho avuto anche la fortuna – dico fortuna perché è scrittore di successo ma assolutamente affabile e soprattutto profondo – di conoscere di persona nel 2018 in occasione dell’uscita del suo romanzo Un ragazzo normale (incentrato sulla storia del giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra nel 1985).

A ottobre del 2020 Marone esce con La donna degli alberi (Feltrinelli editore), romanzo molto differente rispetto ai suoi precedenti.

La copertina è evocativa: una donna ci cammina distrattamente davanti agli occhi, scalza e alta come gli alberi, una moderna Gulliver dei monti. Questa donna non ha volto, come nel romanzo la protagonista, che parla in prima persona, non ha un nome.

Nessuno ha un nome nella storia, i personaggi che portano avanti la narrazione sono identificati dalla loro caratteristica principale: lo Straniero, la Guaritrice, la Rossa, il Cane.

Personaggi che richiamano agli archetipi della psicologia e che guidano il lettore in un processo di profonda identificazione.

La donna degli alberi è la storia di una donna in fuga dalla città e da una vita nella quale non si riconosce più, da un passato forse doloroso che ci viene presentato in frammenti di ricordi e lunghe riflessioni, e da un complesso rapporto con i genitori, in particolare con il padre, tema ricorrente nell’opera di Marone.

È una storia di fuga e ritorno, di ricerca e di elevazione dello spirito umano che esplora e scopre se stesso nel contatto con la natura, con la montagna che è sfondo e ambientazione della vicenda, che non ha però una precisa collocazione temporale e spaziale.

La montagna, che può essere una madre amorevole ma anche una Medea inconsapevole che uccide i suoi figli.

La montagna è anche una madre esigente, che costringe l’uomo a fare i conti con l’infinitamente grande e con l’infinitamente piccolo: la maestosità degli alberi secolari, l’altezza delle vette che sfiorano il cielo e conoscono il mistero dell’esistenza di dio, che ricordano con forza quanto sia fragile la vita.

La donna degli alberi è un libro che profuma di resina e legno che brucia nel camino, che fa sentire nelle mani la fatica del freddo che spacca la pelle alla fine di una giornata di lavoro.  

Un libro che commuove, che insegna, come solo la montagna sa fare, carico di riflessioni sul senso di chi siamo, con il tempo che è assolutamente il protagonista indiscusso. Il tempo che scandisce le vite, unico reale comune denominatore di ogni esistenza.

Chiudo questa recensione con la descrizione che si trova in terza di copertina e che riassume pienamente lo spirito che accompagna tutta la narrazione: “un romanzo lirico e poetico sulla forza d’animo che, a volte senza saperlo, custodiamo dentro di noi. Un invito a coltivare la bellezza del minuscolo e dell’essenziale, a preoccuparsi anche per ciò che verrà e che è altro da noi.”

Puoi acquistare il romanzo su Amazon, al link affiliazione di Righediarte cliccando QUI.

Trovi le mie recensioni ad altri due romanzi di Lorenzo Marone, Un ragazzo normale e Magari domani resto, a questo link:

https://righediarte.com/tag/lorenzo-marone/

L’autore

Lorenzo Marone è nato a Napoli nel 1974.

Esordisce nel 2015 con il romanzo La tentazione di essere felici (Longanesi). Con Longanesi pubblica anche La tristezza ha il sonno leggero, premio Como 2016 da cui è stato tratto il film omonimo.

Con Feltrinelli pubblica Magari domani resto (Premio Bancarella 2017), Un ragazzo normale (Premio Giancarlo Siani 2018), Tutto sarà perfetto (2019) e i saggi Cara Napoli (2018), Inventario di un cuore in allarme (2020).

Il sito web dell’autore è  www.lorenzomarone.net

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