Righe su “Il conformista” di Alberto Moravia

“Ogni scrittore è una chiave per aprire la porta della realtà”

(da un’intervista di Alberto Moravia)

Alberto Pincherle Moravia nasce a Roma il 28 novembre 1907 e muore nel 1990 dopo una vita iniziata in salita con i frequenti ricoveri nei sanatori sulle Alpi per curare una grave forma di tubercolosi ossea, ma vissuta intensamente fino all’ultimo giorno: una produzione letteraria sconfinata, tre grandissime donne al suo fianco, viaggi intorno al mondo, la fama che il cinema neorealista regala alle sue storie e l’amicizia con molti personaggi di primo piano della cultura italiana come Pier Paolo Pasolini.

Oggi voglio celebrare la vita di questo straordinario narratore testimone del novecento parlandovi del suo romanzo meno amato dalla critica, tanto che spesso non viene nemmeno inserito nelle antologie scolastiche.  

Se infatti, è nota la fortuna, di pubblico e di critica, de Gli indifferenti, de La ciociara o La noia, altrettanto non si può dire de Il conformista.

A soli 44 anni, Il conformista è l’ottavo romanzo, escluse le raccolte di racconti, dello scrittore romano.

Un romanzo che parte da una domanda drammatica: può un evento traumatico nell’infanzia condizionare tutta la vita, la lettura e l’interpretazione di tutti gli avvenimenti che avvengono prima e dopo quel fatto?

Pubblicato da Bompiani nel 1951, quando l’Italia sta ricostruendo quanto distrutto dalle bombe, Il conformista riprende molti temi già presenti nelle opere precedenti (ma anche successive) dell’autore: la decadenza della società borghese votata inconsciamente all’apparenza e ai rapporti stereotipati, il giudizio complessivo di fallimento della società occidentale durante la seconda guerra mondiale e nel periodo appena successivo, con l’inizio della Guerra Fredda, la tensione sessuale che guida i pensieri e le azioni dei suoi personaggi, ma anche la frustrazione per una sessualità mai apertamente vissuta, o peggio, subita, il tradimento come norma nei rapporti umani.

Mors tua, vita mea, una narrativa che non prevede eroi, come nella più pessimistica visione dell’esistenza umana.  

Il conformista è un romanzo in tre atti che ripercorre la vita del protagonista Marcello Clerici.

Il titolo, come spesso accade in Moravia, è un manifesto: programmatico e predittivo rispetto al contenuto della storia.

La narrazione è in terza persona, con uno stile discorsivo che somiglia quasi alla voce fuori campo di un film.  

Nel Prologo del libro, che è il primo atto, troviamo Marcello adolescente. L’adolescenza, età molto indagata dalla penna di Moravia: periodo della vita che può essere pieno di tormenti ma anche curiosità nei confronti dell’esistenza e del mondo, di ricerca di identità certezze e conferme.

Nella vita di questo adolescente ad un certo punto compare un personaggio ambiguo, Lino, che con il suo agire determina in modo definitivo la rotta che la vita di Marcello dovrà prendere per sempre: il ragazzo non vuole più, da quel momento in poi, sentirsi diverso dagli altri, avere pensieri differenti (o che crede erroneamente che siano differenti) da quelli degli altri, dei suoi coetanei.

Nell’età adulta, questa ricerca ossessiva verso il volersi sentire uguale agli altri, spinge il protagonista ad aderire al movimento fascista (nel secondo atto siamo nel momento appena precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale) nel modo forse più facile: diventare una spia alla ricerca dei nemici del duce. Poco importa se questi “traditori della patria” sono persone che lui conosce molto bene, come un suo vecchio professore stabilitosi in Francia.

Marcello parte alla volta di Parigi, mascherando la sua missione con il viaggio di nozze insieme alla moglie Giulia, per trovare il professore e consegnarlo nelle mani dei suoi sicari.

Da quel momento inizia inesorabilmente il suo viaggio di non ritorno verso il punto più basso verso la morale umana, una a-moralità, con una visione del tutto distorta di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un vortice discendente da cui sembra salvarsi, ma non del tutto, solo la moglie Giulia, personaggio che ha comunque dei lati oscuri e nascosti.

Si arriva così al terzo e ultimo atto, che chiude il cerchio e le fila di una vita che ricorda quella di certi inetti così cari alla letteratura italiana a cavallo fra otto e novecento.

Leggendo le pagine di questo romanzo fa impressione pensare che molti dei fatti narrati sono tratti dalla biografia del suo autore, a partire dall’anno di nascita del protagonista Marcello che viene fatto nascere 1907 esattamente come Moravia.

C’è poi il tema dell’adesione al fascismo, che Alberto conosce molto bene essendo stato tacciato di pornografia dal regime, costretto a pubblicare dietro pseudonimo e poi alla fuga dopo l’8 settembre, e il tema dell’omicidio politico.

Nel 1937, infatti, Carlo e Nello Rosselli, cugini di Moravia, vengono assassinati in Normandia per mano di un’organizzazione filofascista francese.

Non mi soffermo a elencare i motivi per i quali quest’opera è così poco amata dalla critica; personalmente credo che sia assolutamente da scoprire e comprendere, soprattutto visto che il tema del conformismo, che può portare anche agli esiti catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti sotto forma di violenza di branco e bullismo, è sempre presente all’interno della società.

Il conformista è  un romanzo di segreti e rivelazioni, di calma sulla superficie a nascondere la tormenta e il terremoto che da sempre scuote l’animo umano.

Paola Cavioni

28 novembre 2021

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Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling e il principio dell’iceberg di Ernest Hemingway

“Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg. I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno. Prima di tutto eliminare tutte le parti superflue e trasmettere al lettore un’esperienza che potesse entrare a far parte della sua, come quelle reali. È un’impresa difficilissima, e ho dovuto lavorare sodo.”

Queste sono le parole di Ernest Hemingway in un’intervista a George Plimpton del 1954.

Lo stesso anno in cui Hemingway riceve il Nobel per la Letteratura per Il vecchio e il mare, romanzo breve pubblicato due anni prima e che è considerato l’ultimo capolavoro dello scrittore statunitense.

Molti anni prima che la metafora dell’iceberg venisse sfruttata in qualsiasi contesto lavorativo (basta aprire LinkedIn per capire di cosa sto parlando), Hemingway in poche righe riassume il senso del suo narrare: un procedimento per sottrazione che dice moltissimo del rapporto fra letteratura e vita, fra scrittura ed esperienza.

È sufficiente leggere l’incipit de Il vecchio e il mare:

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che ormai non prendeva un pesce.”

Un inizio semplice ma potentissimo, che catapulta il lettore nel cuore della storia in una sola frase.

Per spiegare meglio il principio dell’iceberg si possono fare due premesse: la prima è l’antica massima “conosci te stesso”, l’iscrizione presente nel tempio di Apollo a Delfi, declinata in questo caso in conosci i tuoi personaggi.

Sì perché ogni storia per forza di cose ruota attorno a uno o più personaggi, a meno che non vogliate romanzare la storia del Big Bang o stiate scrivendo un’epopea sulle eruzioni vulcaniche.

Conosci i tuoi personaggi.

Sembra più facile a dirsi che a farsi, perché perdere il controllo è davvero un attimo.  

Per raccontare una storia che sia credibile e indimenticabile i personaggi devono agire, muoversi, parlare. Le loro azioni, movimenti e dialoghi sono il frutto del loro vissuto, delle loro vicissitudini personali, anche di quelle che non sono inserita all’interno di quel momento, breve o lungo, che si sta narrando.

La seconda premessa è invece il caposaldo con cui si aprono quasi tutti i corsi di scrittura creativa: show don’t tell (mostrare, non dire). Questo perché, se i personaggi sono costruiti in modo solido, anche se quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg sarà sufficiente farli agire in maniera coerente con la loro personalità, con le loro esperienze, senza che siano necessarie troppe spiegazioni. Le azioni parleranno da sé.

Alcuni autori prima della stesura vera e propria del romanzo, dopo una ovvia fase di documentazione, scrivono delle schede biografiche dei loro personaggi, in modo da riassumere nero su bianco tutti i punti salienti della loro vita per poterne attingere in fase di stesura del romanzo.
Altri invece preferiscono utilizzare il metodo delle interviste, scrivendo una serie di domande ipotetiche e rispondendo calandosi nei panni del loro protagonista.

Queste domande servono a costruire la personalità e a fare emergere i bisogni più profondi delle voci che porteranno avanti la narrazione.

Tutte queste analisi preliminari servono a creare la famosa base dell’iceberg di cui ci parla Hemingway. Facile vero? Sicuramente, se fossimo tutti come Hemingway…

Ti è mai capitato di leggere un libro in cui invece l’autore, in maniera più o meno consapevole, non segue questo principio? Una storia in cui i personaggi appaiono come vuoti, senza sostanza?

Paola Cavioni

Per leggere le pillole di storytelling precedenti, clicca sui link seguenti:

La regola delle 25 parole, Il grande libro della scrittura di Marco Franzoso

Scrivere e un’abitudine, non un’arte

Il viaggio dell’eroe di Chrisfopher Vogler e Midnight in Paris di Woody Allen

La sospensione dell’incredulità e The Truman Show

Bibliografia:

  • Lezioni di scrittura creativa, Gotham Writer’s Workshop (Dino Audino Editore, 2005)
  • Master di scrittura creativa, Jessica Page Morrell (Dino Audino Editore, 2007)
  • Il grande libro della scrittura, Marco Franzoso (Il Saggiatore, 2020)
  • On writing, Stephen King (Pickwick, 2000)
  • Il vecchio e il mare, Ernest Hemingway (Mondadori)
  • Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare, Ernest Hemingway (Il Nuovo Melangolo, 1996)

Ciao e benvenuto/a!

Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

L’altra mia più grande passione? Che domanda, i libri! Su Righediarte trovi tante recensioni di libri, senza un ordine preciso perché amo spaziare in ogni ambito della narrativa.

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Lune-dì Scrittura, la sospensione dell’incredulità e The Truman Show (1998)

“Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta, è molto semplice”

The Truman Show (Christof)

Qualche giorno fa ho rivisto The Truman Show insieme a mia figlia Gaia, che ha quasi dieci anni e lo ha visto per la prima volta.

Per chi non lo conoscesse, The Truman Show, caso cinematografico della fine degli anni ’90, è la storia di Truman Burbank. Truman, interpretato da un indimenticabile Jim Carrey, vive a Seaheaven, cittadina balneare che incarna il sogno americano con le sue casette tutte in fila e i prati all’inglese. Burbank è sposato con Meryl, fa l’assicuratore, ha degli amici ma soprattutto è inconsapevole del fatto che tutta la sua vita si stia svolgendo in un grandissimo set cinematografico e che ogni avvenimento della sua esistenza è stato deciso a tavolino dal regista Christof (Ed Harris).

Tutta la sua vita di fatto, pur essendo perfetta, è quello che oggi chiameremmo un fake.

Una serie di “intoppi nella sceneggiatura” (come un faro – il finto Sirio della volta celeste – che quasi gli cade in testa mentre è sulla via di casa) iniziano a fare capire a Truman che c’è qualcosa che non torna in questa perfezione, e lo spingono a indagare per capire cosa stia succedendo, realizzando qualcosa che forse aveva intuito da tempo.

Il regista del film è Peter Weir, che lavora sul soggetto scritto da Andrew Niccol (per gli amici cinefili, è lo stesso sceneggiatore del distopico In Time).

Tornando all’origine di questo post e la connessione con le pillole di storytelling del lunedì, devo ringraziare mia figlia.

Mi ha fatto emozionare e riflettere infatti la sua reazione davanti alla pellicola, dato che inizia ora vedere film da adulti e non più solo cartoni animati o film di animazione.

Mentre sullo schermo scorrevano le vicende dei protagonisti, lei continuava a farmi domande sulle sorti del povero Truman.

Ma suo padre è morto realmente?

Perché Truman ha sposato una donna se ama un’altra?

Ma Christof è cattivo?

Perché non vogliono che lui se ne vada dallo show?

Era completamente immersa nel film.

Questo momento quasi di trance, di astrazione dalla realtà e completa immersione in una storia mi porta a parlarvi della sospensione volontaria dell’incredulità, o più semplicemente sospensione dell’incredulità, che è un principio valido sia quando si scrive narrativa (e di conseguenza quando si legge) che quando si guarda un’opera rappresentata.

Leggere un libro, andare a teatro o vedere un film, a meno che non lo si faccia per professione, sono degli atti volontari cui ci si approccia con uno stato d’animo di apertura nei confronti della storia che stiamo per vedere scorrere sotto i nostri occhi. Andiamo al cinema perché siamo disposti a credere a ciò che vediamo, leggiamo un libro perché vogliamo lasciarci trasportare dalle vite dei personaggi e dal loro mondo.

La sospensione dell’incredulità è quel sentimento, di cui non siamo completamente consci, di annullamento del nostro naturale scetticismo per metterci nella condizione di credere a quanto stiamo guardando, emozionarci e, soprattutto, provare empatia per i personaggi e le loro sorti.

È un meccanismo innato che accompagna l’uomo dalla notte dei tempi, da quando le storie venivano raccontate intorno al fuoco. Un filo sottile che lega le narrazioni di tutte le epoche: da Omero alla Bibbia, a Dumas a Hemingway.

Certo l’arte cinematografica dal punto di vista della creazione di mondi verosimili è avvantaggiata, poiché ha a disposizione, oltre alla forza della storia e del soggetto, la recitazione degli attori e la scenografia (come può esserci nel teatro) ma anche gli effetti speciali, l’utilizzo della colonna sonora, le inquadrature, il montaggio ecc…

La sospensione dell’incredulità viene teorizzata all’inizio del diciannovesimo secolo dal poeta e critico letterario Samuel Taylor Coleridge, uno dei fondatori del romanticismo inglese.

La cosa più bella è che nei bambini questo meccanismo non esiste perché per loro non c’è distinzione fra quello che vedono sullo schermo e ciò che succede nella vita reale.

Senza questa sospensione non riusciremmo a vedere un film intero come The Truman Show senza sentirci presi in giro da una storia che, di fatto, è fantastica.  

Senza la sospensione dell’incredulità non potremmo mai fare il tifo per Truman quando cerca di scappare dal destino che Christof ha stabilito per lui.

In The Truman Show inoltre c’è un sottile gioco metacinematografico: noi siamo spettatori anche della vita degli spettatori dello show di Truman, che piangono, ridono o si arrabbiano insieme a lui. La sospensione quindi è al quadrato.

Ovviamente ogni opera per essere credibile deve essere verosimile ed avere una coerenza interna.

Se ad esempio, nel mezzo di The Truman Show fossero arrivati anche gli alieni a complicare le cose, ecco forse avremmo davvero alzato le mani in segno di arresa, e ci saremmo anche alzati dalle poltrone del cinema.

Ma per fortuna, almeno in questo caso, l’immersione nel mondo creato da Christof è completa e niente è lasciato al caso.

Ora che sapete che cosa vuol dire sospensione dell’incredulità però, vi invito a dimenticarvene ogni volta che andrete al cinema. Lì dovete solo rilassarvi, spegnere il telefono, e lasciarvi trasportare dalla storia davanti a un sacchetto di pop corn.

Per la lettura di un buon libro, valgono le stesse prescrizioni.

Paola Cavioni

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Per leggere tutte le pillole di storytelling del lunedì, seleziona dal menù in alto la voce “Lune-dì scrittura”.

Lune-dì Scrittura. Il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler e Midnight in Paris di Woody Allen

“Il viaggio dell’Eroe non è un’invenzione, ma un’osservazione. È il riconoscimento di un modello eccellente, un insieme di principi che governano il modo di vivere e il mondo della narrazione così come la fisica e la chimica regolano il mondo fisico.”

Il viaggio dell’eroe, che ha ormai quasi trent’anni di vita ed è la base per molti testi di scrittura creativa, è un manuale classico per approcciarsi allo studio delle tecniche di scrittura della fiction (romanzo e cinema). Il suo autore è Christopher Vogler, analista di sceneggiature per Warner Bros e 20th Century Fox, nonché docente nella prestigiosa università UCLA di Los Angeles.

Con la sua opera, Vogler porta alla luce, come fosse uno scultore che dalla pietra cava la sua statua, le strutture archetipiche, i modelli che danno corpo e struttura alla narrazione, che fanno scaturire nel pubblico quel meccanismo di riconoscimento ed empatia determinante per il successo della storia stessa.

Questa ovviamente è una sintesi del lavoro di Vogler, che moltissimo deve a Joseph Campbell e al suo L’eroe dai mille volti, che a sua volta attinge a piene mani dalla psicologia di Jung e dal mito.

Ma cosa dice di originale Vogler?

Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (Dino Audino Editore)

Dice che in ogni “storia”, intesa come narrazione con un inizio e una fine, ha una struttura in tre atti (ma questo già ce lo aveva detto Aristotele). Ogni atto è suddiviso in momenti che rappresentano le tappe di un Viaggio, che può essere fisico o metaforico, e che portano l’Eroe protagonista da una condizione di “ordinarietà” all’avventura in un mondo nuovo, straordinario, che lo porta a cambiare la propria visione del mondo e anche lati della propria esistenza che non lo facevano vivere nella piena soddisfazione (si parla in questo caso di need, un bisogno profondo).

I passaggi sono riassumibili come di seguito:

Primo atto:

  • Mondo ordinario: l’Eroe si trova all’interno del suo Mondo Ordinario, può amarlo o sentirselo andare stretto, ma è comunque all’interno di quella che potremmo definire la sua zona di comfort;
  • Chiamata all’avventura e rifiuto della chiamata: l’Eroe si trova di fronte ad un problema che lo catapulta fuori dal mondo delle sue certezze e, come ogni cambiamento, lo fa andare in crisi fino a rifiutare questa chiamata alle armi.
  • Incontro con il Mentore: il Mentore, colui che funge da guida, può manifestarsi sotto varie sembianze, può anche non essere umano in alcuni casi, ma ha sempre comunque il compito di preparare l’eroe ad andare verso l’ignoto, fornendo le armi per affrontare l’avventura.
  • Superamento della prima soglia: a questo punto l’Eroe è pronto a varcare la soglia ed entrare nel Mondo straordinario.

Secondo atto:

  • Prove, alleati e nemici: oltrepassata la prima soglia, l’Eroe incontra delle prove sul suo cammino, e ad aiutarlo o a ostacolarlo ci sono dei personaggi “archetipici”: Alleati o Nemici
  • Avvicinamento alla caverna più profonda: l’Eroe giunge finalmente ai confini del luogo più pericoloso, dove si nasconde il reale oggetto della sua ricerca.
  • Prova centrale: qui l’Eroe si scontra con la sua paura più grande, affronta la morte (anche sotto forma di metafora) e la guarda in faccia. È il momento in cui tipicamente il pubblico resta con il fiato sospeso. Il nostro eroe se la caverà? Ci sarà il lieto fine?
  • Ricompensa: l’Eroe sopravvive ed entra finalmente in possesso della ricompensa tanto desiderata, che fuor di metafora rappresenta la consapevolezza, la conoscenza e una maggior comprensione della propria esistenza.

Terzo atto:

  • Via del ritorno: l’Eroe non è ancora fuori pericolo perché si trova ancora fuori dal suo Mondo Ordinario e in questa fase deve decidere se intende tornarci oppure se vuole seguire per sempre il Bianconiglio e rimanere nel Mondo Straordinario.
  • Resurrezione: l’Eroe viene messo nuovamente alla prova, quella definitiva, ed è l’esame conclusivo per verificare se ha realmente imparato la lezione appresa nella Prova Centrale.
  • Ritorno con l’elisir: l’Eroe ha finalmente compreso il senso profondo del suo viaggio e non è più la stessa persona che è partita per l’avventura, spesso è anche cambiata fisicamente ed esteriormente oltre che interiormente.

La straordinarietà del modello di Vogler e la sua universalità è facilmente riconoscibile: basta pensare a qualsiasi film che abbiate visto di recente e incastrare i passaggi nello schema appena illustrato. Non importa che i momenti ci siano tutti, e a volte non sono neanche nello stesso ordine, ma l’ossatura profonda rimane, sempre.

E per fare un esempio concreto, in questa quarta pillola di storytelling, vediamo come la struttura del viaggio dell’eroe può essere applicata al film Midnight in Paris, scritto e diretto da Woody Allen con Owen Wilson e Rachel McAdams.

Midnigth in Paris (2011): trama e analisi

Il protagonista è Gilbert Pender, Gil per tutti, interpretato da Owen Wilson e dal suo caratteristico taglio di capelli.  

Gil è un brillante sceneggiatore che sta per sposarsi con la bellissima fidanzata Inez, dovrebbe essere un momento felice eppure Gil soffre di attacchi di panico, è depresso ed è insoddisfatto del suo lavoro che non trova più stimolante.

La coppia è a Parigi insieme ai genitori di lei, che non vedono di buon occhio Gilbert e preferiscono di gran lunga Paul, intellettuale borioso vecchia conoscenza di Inez, che a sua volta nutre un debole per l’uomo e non fa neanche troppa fatica per nasconderlo.

Gil vorrebbe trasferirsi a Parigi, città che ama, anche perché spera che l’atmosfera magica della città lo aiuti a terminare il suo primo vero romanzo, per poter dire addio definitivamente alla carriera di sceneggiatore e diventare un “vero” scrittore.

Gil però, spinto da Inez, molto attaccata alla apparenze e con i piedi bel piantati a terra, è reticente a fare il grande passo a buttarsi nella nuova avventura fino a quando… Fino a quando una notte, a mezzanotte precisa, è l’avventura che arriva da lui, nelle sembianze di una vecchia automobile che lo trasporta indietro direttamente in quella che per lui è la sola età dell’oro: gli anni ’20.

Qui, fra fumosi café parigini e lo studio di Gertrude Stein, Gil conosce i suoi più grandi idoli: Zelda e Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Luis Buñuel, Salvador Dalì, Cole Porter, Man Ray e soprattutto Adriana. Quest’ultima gli fa capire che non ha senso continuare a guardare ad un passato ideologizzato per nascondersi e non affrontare le frustrazioni, ma anche le gioie, della vita quotidiana.

Senza entrare troppo nel dettaglio della trama per non anticipare nulla a chi ancora non lo abbia visto, in Midnight in Paris troviamo tutte le strutture del Viaggio dell’eroe vogleriano.

Abbiamo un eroe inconsapevole, Gil, che non sembra proprio il prototipo di eroe senza paura, anzi. È pieno di incertezze e ansie, ha scelto la strada che apparentemente sembra la più giusta per lui: il matrimonio con una ragazza bella e ricca. Ma è quello che vuole? Capiamo subito che il Mondo Ordinario di Gil gli va stretto, lo manifesta nelle sue ansie e dal suo continuo “guardare indietro”, al mito dei ruggenti anni ’20 parigini.

La sua Chiamata all’avventura inizia nel momento in cui mette piede sull’auto che lo trasporta magicamente indietro di novant’anni e gli fa incontrare personaggi che, in un modo o nell’altro, fungono da Mentore nel cammino di cambiamento da sceneggiatore frustrato a scrittore: Hemingway e la Stein per primi.

Da quando mette piede negli anni ’20 inizia il cammino di avvicinamento alla caverna più profonda, il confronto con le sue paure: la paura della morte ma in sostanza la paura di scegliere di non vivere, seguendo una strada che non sente sua.

Ma Gil prova a rimanere aggrappato alla sua vecchia vita, vorrebbe condividerla con la sua fidanzata, ma lei non può capire. E in agguato c’è Paul, il nemico, contro cui Gil vince con l’astuzia, anche se in apparenza può sembrare il contrario…

Gil deve cercare da solo la sua ricompensa, dopo averla individuata, per poi tornare dal viaggio con un elisir unico: la consapevolezza di chi è e di cosa vuole diventare.

Gli elementi del Viaggio dell’eroe ci sono tutti, anche se apparentemente la storia di Midnight in Paris possa sembrare lontanissima dal Mito. Ma è scavando sotto la superficie che si trova la struttura di base.

Midnight in Paris a mio parere è assolutamente imperdibile per capire come costruire un soggetto che abbia corpo, una palestra per aspiranti autori, un film universale e bellissimo non solo per la brillante sceneggiatura ma per il messaggio che lascia nello spettatore: quale è la tua età dell’oro?

Non deve essere un tempo o un luogo fisico, ma uno condizione mentale.

Una volta che l’hai individuata, seguila anche a costo di camminare da solo sotto la pioggia.

Seguila senza rimpianti, perché la paura è il solo reale limite che ci autodistrugge e ci impedisce di vivere.

Paola Cavioni

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“Trilogia di New York” di Paul Auster e la scrittura perfetta

“I libri vanno letti con la stessa cura e la stessa riservatezza con cui sono stati scritti.”

Paul Auster

Paul Auster, La trilogia di New York, edito da Einaudi

Scrivere della Trilogia di New York mi ha messo in difficoltà. Più che altro, mi ci è voluto parecchio tempo per mettere insieme le parole  più adatte in uno scritto degno dello stile di Paul Auster (o almeno ci provo)  per parlare di un libro che ho scoperto lo scorso settembre e che ho letto in un paio di giorni.

Per chi ama scrivere, come me, ogni lettura è fonte di miglioramento per affinare il proprio stile, ogni nuovo autore scoperto rappresenta un maestro da cui carpire tecniche e segreti. Leggere la Trilogia è un’illuminazione.

Perché la scrittura di Paul Auster è essenziale, asciutta, senza fronzoli. Niente di più, niente di meno. Perfetta.

Auster è un architetto delle parole, che costruisce periodi, psicologia dei personaggi, capitoli e intrecci, con la stessa pulizia ed eleganza delle architetture moderniste di Mies Van Der Rohe. Questo per quanto riguarda lo stile, perché il contenuto è un’altra storia… La Trilogia  infatti è una discesa negli inferi della vita frenetica e alienante della New York degli anni ’80, un’esplorazione dell’animo umano nelle sue tante sfaccettature fra nevrosi e follie.

Una scrittura diretta, ipnotica e allo stesso tempo ruvida, che ricorda molto lo stile di Charles Willeford. C’è infatti più di un’analogia fra i due autori. Una fra tutte è il richiamo al Walden di Henry David Thoreau, ma lascerò scoprire a voi tutti gli indizi e le somiglianze disseminati qua e là nelle opere e nelle biografie dei due scrittori americani.

Se non avete ancora letto Willeford, vi invito a farlo; so che invece Thoreau mette in difficoltà anche le menti più allenate alla lettura, ma conviene comunque provare a conoscerlo.

La Trilogia si compone di tre romanzi brevi: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa. La sua pubblicazione nella metà degli anni ‘80 consacra lo scrittore nell’olimpo della letteratura americana contemporanea, destinandolo all’immortalità.

Nella Trilogia ci sono più storie che si rincorrono e si chiudono una nell’altra come una matrioska, un libro nel libro, con i personaggi che sembrano richiamarsi gli uni con gli altri e moltiplicarsi. 

Tre romanzi che hanno protagonisti dall’identità confusa, che cambiano nome o che non lo hanno (Città di Vetro), che sono giochi di colori (Fantasmi), che scambiano la loro vita con quella di amici scomparsi (La stanza chiusa).

E ci sono anche altri elementi comuni in tutte e tre i racconti: la follia, i pedinamenti, il taccuino, la descrizione della vita dello scrittore spiantato. Nella Trilogia infatti c’è anche tanto della biografia dell’autore, come se avesse rotto in mille pezzi le sue esperienze personali come scrittore in cerca di fama, e le avesse disseminate qua e là nella trama.

I temi presenti nell’opera di Auster sono ricorrenti: la solitudine dell’uomo di città e la volontà di ritorno a una vita più ascetica e a contatto con la natura, la follia dovuta all’alienazione dal lavoro e dallo stile di vita contemporaneo. E ancora la ricerca del senso dell’esistenza, il bisogno di certezze insito dell’uomo, il fato, il destino che tiene in mano le vite di tutti, lo studio del linguaggio e del legame fra linguaggio ed esistenza.

Un libro, attualissimo anche se scritto ormai quasi quarant’anni fa, adatto a chi non ha paura di guardare in faccia le molte contraddizioni dell’Occidente, che lascia il lettore alla fine con una lieve ma persistente sensazione di amaro in bocca e la certezza che la società occidentale non è fatta a misura d’uomo.

L’autore

Immagine di Paul Auster

Paul Benjamin Auster (conosciuto anche con lo pseudonimo di Paul Quinn) nasce a Newark, città del New Jersey a pochi chilometri da New York, nel 1947.

Il suo talento per la scrittura si manifesta molto precocemente, tanto che compone le prime poesie attorno ai dodici anni.

La sua carriera come scrittore inizia alla fine degli anni ’70, dopo avere svolto per qualche tempo lavori saltuari. La consacrazione avviene fra il 1985 e il 1987 con la pubblicazione dei libri della Trilogia.

Auster è anche saggista, produttore, attore e sceneggiatore.

Paola Cavioni

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Donne

donna

Che belle le donne che sanno accompagnare gli anni che passano.

Che non nascondono un capello bianco o quella ruga che allunga l’orizzonte del loro sguardo.

Che dona espressione al loro sorriso.

Che belle le donne sorelle delle donne.

Che sanno essere complici.

Donne solo apparentemente semplici.

Che belle le donne che in un mondo sterile sanno essere madri.

Madri di progetti, di idee. Di figli.

Che belle le donne che non nascondono la loro fragilità ma che sanno quanto valgono.

E come sono belle le donne quando amano.

Ma anche quando si accorgono di non amare più.

Che belle le donne che sanno essere libere ma mettere radici.

Che belle le donne che si perdono nella musica che hanno dentro.

Paola Cavioni

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On writing: la vita e il mestiere di Stephen King fra incubi, deliri e consigli di scrittura

“Scrivere è magia, acqua di vita, a pari di qualsiasi altra attività creativa. L’acqua è gratis. Forza, bevete. Bevete e dissetatevi.”

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On writing. Autobiografia di un mestiere era nella mia lista di libri da leggere da diversi anni. Per un motivo o per un altro mi sono decisa a leggerlo solo all’inizio di questo 2018, a quasi vent’anni dalla sua prima pubblicazione. Arrivata alla fine di questo saggio autobiografico ho capito principalmente tre cose: la motivazione del successo planetario di King che sta tutta nella semplicità con cui scrive e che è anche stata la principale argomentazione dei suoi detrattori, quanto sia difficile proporre una prosa onesta e accessibile a tutti e infine che se nella vita vuoi campare con la scrittura ritieniti fortunato ad avere accanto persone che ti sostengono e che credono in quello che fai (nel caso di King, il supporto della moglie Tabitha è stato fondamentale per l’avvio della sua carriera). Tengo a precisare che queste mie poche righe non vogliono essere una vera e propria recensione ma una riflessione su un libro che ho davvero apprezzato tanto e che penso dovrebbero leggere tutti gli appassionati di scrittura, addetti ai lavori e non.

“Che cosa mi spingeva a credere che avessi una storia degna di essere raccontata?”

Partiamo da un presupposto: viviamo in un’epoca che nel bene e nel male consente a chiunque di scrivere e farsi conoscere in tutto il mondo grazie alla velocità con cui circola la carta stampata, ai social network, ai blog (tanti!). Ma quanti si fermano a riflettere realmente sul senso del loro scrivere, sulle necessità più profonde che portano a preferire questo passatempo rispetto alla pesca o agli scacchi (anche se alcuni scrittori o presunti tali forse dovrebbero veramente riconsiderare i loro hobby)? Quanti scrivono per dare sfogo ad un bisogno viscerale, senza essere mossi dalla smania di successo e denaro o per seguire una moda. Quanti hanno realmente qualcosa da dire?

“Questo è un libro breve perché la maggior parte dei manuali di scrittura creativa sono pieni di stronzate.”

Portando la mia piccola (minuscola) esperienza posso dire di aver letto diversi saggi sulla scrittura, ho partecipato a corsi di scrittura creativa che mi hanno lasciata soddisfatta solo in parte e questo libro è davvero una rivelazione perché con chiarezza e semplicità elenca e spiega principi universalmente validi per scrivere bene. Cose che chiunque aspiri a scrivere almeno decentemente dovrebbe ripetersi ogni giorno: sii onesto, scrivi di cose che conosci, stai attento alla grammatica, ometti parole inutili, correggi, rileggi e soprattutto leggi, leggi, leggi. Leggi tanto, leggi tutto quello che ti capita sotto mano. E poi sii metodico nel lavoro, soprattutto se sei alle prime armi trova il tempo per scrivere tutti i giorni, proprio come se si trattasse di un allenamento (in questo King è all’opposto rispetto alla credenza popolare che genio e sregolatezza vadano a braccetto). E da ultimo, ma non per importanza: esci e vivi la tua vita, fai esperienze. Non aspettare che l’idea giusta ti piombi in testa mentre ti spremi le meningi su un foglio di word o stai partecipando ad un corso di scrittura creativa, perché purtroppo non esiste nessuna pozione magica che permetta di sfornare il nuovo Racconti di due città e, a meno che tu non abbia le doti narrative di Charles Dickens, l’idea giusta arriverà esattamente nel momento in cui starai facendo e pensando tutt’altro.

“L’incidente mi aveva in fondo insegnato una cosa sola: l’unico modo per andare avanti è andare avanti. Dire lo posso fare anche quando sai che non puoi.”

Ho passato tante notti della mia adolescenza nelle pagine di Cujo, Misery, Il miglio verde. Ho amato Johnny Smith de La zona morta. Il mio giudizio più che positivo su questo libro è sicuramente di parte, lo ammetto, anche perché mi ha fatto conoscere dettagli della biografia di un autore che amo da sempre. Stephen King, con la sua aria un po’ da nerd attempato fin da giovane, uno scrittore che ha la capacità di narrare storie deliranti e inquietanti pur rimanendo sostanzialmente una persona normale – se si esclude una parentesi di alcolismo e dipendenze varie – un lavoratore preciso e metodico, un marito, un padre e un nonno. Un essere umano che proprio durante la stesura di On Writing ha rischiato di lasciare le penne su una strada del Maine quando un minivan lo ha travolto mentre stava facendo la sua consueta passeggiata pomeridiana. Eppure King, quasi come il personaggio di un romanzo, lo stesso Paul Sheldon di Misery, è ancora qua, zoppicante, rimesso insieme da diverse dolorose operazioni e da una forza di volontà straordinaria. E ancora scrive tutti i giorni, anche il giorno del suol compleanno e a Natale. Perché c’è un legame indissolubile che lega la sua vita alla scrittura e che riassume magistralmente alla fine del libro:

“No, la scrittura non mi ha salvato la vita, ma come sempre ha contribuito a renderla più felice e radiosa. Scrivere non c’entra con i soldi, diventare famosi, rimorchiare senza problemi, scopare facile o farsi un sacco di amici. Alla fin fine, il nocciolo della questione è arricchire la vostra esistenza e quella dei lettori. È rialzarsi, rimettersi in sesto e passare oltre. Ritrovare la gioia, d’accordo? Ritrovare la gioia.”

Scrivere non solo per dare sfogo ad una sofferenza, come spesso capita, ma per ritrovare la gioia. Penso che non ci possa essere chiusura migliore.

Nota:

Per chi volesse approfondire l’argomento scrittura consiglio anche il testo di Claudio Giunta, Come non scrivere, edito da Utet (2018).

Potete acquistare i due libri su Amazon, cliccando sui link seguenti:

On writing. Autobiografia di un mestiere

Come non scrivere. Consigli ed esempi da seguire, trappole e scemenze da evitare quando si scrive in italiano. Con ebook

Cinque del mattino

Il mio orario perfetto.

L’orario perfetto per scrivere e non perdere neanche un pensiero della notte, per leggere, per fare sport, per riordinare cose e pensieri, per iniziare nel migliore dei modi e sentire che sarà davvero una bella giornata.

Da questo punto di vista penso di essere stata un monaco buddista in una vita precedente: a letto presto e sveglia molto prima del canto del gallo.

MI ritrovo spesso sveglia all’alba, io e una tazza di caffè, quando persino il mio cane mi guarda come se fossi una pazza a lasciare così presto il tepore del letto per buttarmi su un computer a battere dei tasti.

E voi? Quale è la vostra ora migliore per scrivere o per coltivare le vostre passioni?

Se come me avete un lavoro a tempo pieno, una famiglia, dei figli  e un cane, quando riuscite a ritrovare un po’ di tempo per voi?

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