Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: l’incipit

“Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza aspettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso errore.”

“Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all’epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro. Quando guarì e gli passarono i timori di dover smettere di giocare a rugby, Jem non ci pensò quasi più. Il braccio sinistro gli era rimasto un po’ più corto del destro; in piedi o camminando, il dorso della mano sinistra faceva un angolo retto con il corpo, e il pollice stava parallelo alla coscia, ma a Jem non importava un bel nulla; gli bastava poter continuare a giocare, poter passare o prendere il pallone al volo.”

“Naturalmente, un manoscritto. Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Don J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato di indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell’ordine benedettino. La dotta trouvaille (mia, terza dunque nel tempo) mi rallegrava mentre mi trovavo a Praga in attesa di una persona cara. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città. Riuscivo fortunosamente a raggiungere la frontiera austriaca a Linz, di lì mi portavo a Vienna dove mi ricongiungevo con la persona attesa, e insieme risalivamo il corso del Danubio.”

“Tutti parlavano del libro. Non potevo più camminare in pace per le strade di New York; non potevo più fare jogging nei vialetti di Central Park senza che qualche passante mi riconoscesse ed esclamasse: “Ehi, è Goldman! Lo scrittore!”. Capitava perfino che alcuni si mettessero a correre per seguirmi e farmi le domande che li assillavano […].”

“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.”

Li avete riconosciuti?

Sono cinque incipit di altrettanti famosi romanzi contemporanei (qualcuno più contemporaneo di altri).

In ordine abbiamo La casa degli spiriti di Isabel Allende, Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Il nome della rosa di Umberto Eco, La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker e Lolita di Vladimir Nabokov.

Partiamo dalla definizione, cos’e un incipit?

Il vocabolario dell’italiano contemporaneo Devoto-Oli lo definisce sinteticamente come “inizio di un’opera letteraria, di uno spettacolo o di un programma televisivo”.

In letteratura per incipit si intende una frase, o più,  di apertura, che può anche non coincidere con l’inizio della storia dal punto di vista cronologico.

“Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione”.

Oscar Wilde

A cosa serve l’incipit?

In un romanzo l’incipit svolge diverse funzioni.

La prima è quella di attirare l’attenzione del fruitore dell’opera, del lettore quindi, come una sorte di esca.

La seconda, fondamentale, è quella d’introduzione all’universo narrativo del racconto.

Dalle prime frasi si può comprendere lo stile dell’autore, l’atmosfera in cui si svolge la storia; viene introdotta la voce narrante (che può anche cambiare nel corso della storia) o elementi che ritorneranno nella narrazione.

Ecco quindi che Isabel Allende introduce uno dei personaggi chiave del suo primo romanzo, Clara, insieme ad una importante anticipazione: Clara prima o poi diventerà muta.

Se vogliamo scoprire perché, dobbiamo proseguire con la lettura.

Harper Lee preferisce presentarci i protagonisti della sua storia: la voce narrante della piccola Scout, che ci parla del fratello Jem, del quale veniamo a sapere che a tredici anni si rompe un braccio, ma non conosciamo ancora il motivo…

Il nome della rosa di Umberto Eco inizia in realtà con tre incipit diversi: una finta introduzione, un prologo e l’inizio vero e proprio della storia nel Primo Giorno. Quello riportato è solo uno dei tre. Una tecnica particolare che in questo caso crea una certa aria di solennità che aleggia attorno alla storia già dalle prime pagine.  

Joël Dicker introduce il leitmotiv che accompagna tutto la storia: il suo libro. Di quale libro stiamo parlando e perché la gente ne sia così incuriosita? Anche in questo caso lo scopriremo solo alla fine. Stiamo abboccando all’amo e ancora non lo sappiamo.  

Nabokov infine con l’incipit di Lolita, famosissimo e citato spesso nei corsi di letteratura, con la sua ripetitività fa comprendere senza ombra di dubbio quando Humbert Humbert sia ossessionato dall’adolescente che da il titolo al romanzo.

L’incipit può anche coincidere con il prologo della storia che si definisce come “un’introduzione che differisce dal resto della storia per tempo, spazio o punto di vista (o tutti e tre assieme) e crea attese e curiosità per gli eventi futuri” (J.P. Morrell).

Esiste una formula per l’incipit perfetto? Ovviamente no.

È necessario provare e riprovare, andare anche per tentativi, scrivere e riscrivere. Un consiglio da manuale di scrittura creativa è però quello di non avere fretta di svelare troppi particolari, creare curiosità nel lettore senza però raccontare tutto subito.

L’incipit può essere una mano che ci accompagna dolcemente verso un nuovo viaggio oppure uno schiaffo che risveglia la coscienza e la curiosità.

È talmente importante che alcuni autori lo scrivono quando hanno terminato il romanzo.

Se è pur vero che ci sono anche storie che necessitano del tempo per carburare e diventare coinvolgenti, un buon incipit deve avere la caratteristica di non lasciare indifferenti.

Deve essere memorabile.

Se volete scoprire una selezione degli incipit più famosi della letteratura di ogni tempo potete visitare il sito web www.incipitario.com.

Pensate che il sito contiene gli incipit di oltre cinquemila opere di quasi duemila autori italiani e stranieri.

Un bacino davvero infinito di spunti di ispirazione per ogni aspirante autore, per trovare il proprio stile e scrivere un incipit indimenticabile.

Paola Cavioni

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Bibliografia:

  • Isabel Allende, La casa degli spiriti (Feltrinelli Editore, 1982)
  • Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani, 2013)
  • Umberto Eco, Il nome della rosa (Bompiani/RCS, 1980)
  • Il buio oltre la siepe, Harper Lee (Feltrinelli editore, 1962)
  • Lolita, Vladimir Nabokov (1955)
  • Nuovo Devoto – Oli, Vocabolario dell’italiano contemporaneo
  • Jessica Page Morrell, Master in scrittura creativa (Dino Audino Editore, 2007)

Ciao e benvenuto/a!

Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

L’altra mia più grande passione? Che domanda, i libri! Su Righediarte trovi tante recensioni di libri, senza un ordine preciso perché amo spaziare in ogni ambito della narrativa.

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Il tema delle medie

“Su una curva lungo il viaggio dei tuoi giorni
Capirai che la versione dei ricordi
È polvere sul cuore da soffiare via”

(La mia versione dei ricordi, Francesco Gabbani)

Frugando fra le carte a casa dei miei genitori ho trovato un tesoro.

Una cartelletta un po’ sciupata che gelosamente conservava le brutte copie di una quindicina di miei temi.

Compiti in classe che portano la data del 1998, quando ero alle scuole medie e avevo la professoressa Daniela per letteratura e storia. Daniela era la classica professoressa che incuteva timore e riverenza. Perché lei non si accontentava della mediocrità: spingeva sempre i suoi studenti a dare il massimo delle loro possibilità. E aveva ragione.

È la professoressa che ora vorrei per i miei figli, anche se all’epoca non lo avrei detto neanche sotto tortura.

In alcuni di questi fogli la calligrafia è curata e precisa, in altri frettolosa e disordinata. I contrasti tipici dell’adolescenza, di chi ha ancora un piede nell’infanzia e un altro nella vita adulta.

A ripensarci ora, gli anni migliori della mia vita, anche se alle medie ero una ragazzina timida, introversa, con l’insicurezza di chi non riesce ancora a convivere con il proprio corpo e la testa proiettata in avanti.  

Ho riletto tutti i temi con un misto d’imbarazzo e nostalgia, come se stessi parlando con la me di oltre vent’anni fa, con le pagine di un diario senza logica, dato che nelle brutte copie non ho riportato la consegna del compito.

E penso, come sarà rileggere queste righe fra altri vent’anni?

A tredici anni scrivevo: “io mi auguro che valori quali l’amore per la vita, l’impegno e il sapersi proporre come modelli positivi siano ancora condivisibili da tutti. La società non potrebbe andare avanti se alcuni non credessero fermamente in questi principi. Personalmente ritengo che la vita sia un dono e come tale vada rispettata.”

A quasi trentasei anni, per fortuna non ho cambiato idea, almeno su questo.

Sfoglio queste pagine e leggo che in alcuni temi ci veniva chiesto di parlare di cosa avremmo voluto fare “da grandi”, quali erano i nostri progetti per il futuro. E lì uscivano i desideri più assurdi, ma anche più veri.

Alcuni di questi temo che ormai rimarranno solo desideri (volevo diventare la più grande fumettista del mondo. Non lo diventerò mai, ma almeno non ho perso la voglia di disegnare). Altri mi hanno fatto tornare alla mente progetti che non devo assolutamente abbandonare, come visitare il Canada, non appena il mio portafoglio me lo permetterà.

E poi ho ricordato anche l’ansia che provavo ogni volta prima dell’inizio del compito in classe, quella paura dell’incertezza. Quale sarebbe stata la consegna? Sarei stata capace di scrivere come volevo?

Avrei trovato le parole?

Ora invece provo solo tanta tenerezza per queste pagine così piene di vita e di desideri.

Chissà, forse un giorno da uno di questi temi che sono sbucati come tanti regali inaspettati riuscirò a tirare fuori un racconto che dedicherò alla professoressa Daniela, come quella storia che mi aveva fatto leggere ad alta voce in classe perché le era tanto piaciuta.  

Da queste righe scritte a mano però, oggi, ho capito una cosa.

Che il tempo che passa e i pensieri dell’età adulta non devono mai spegnere la voglia di esplorare e di esplorarsi, di volare con la fantasia lasciando, se occorre, la coerenza da parte.

Voi ve li ricordate i temi della scuola?

Paola Cavioni

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“Trilogia di New York” di Paul Auster e la scrittura perfetta

“I libri vanno letti con la stessa cura e la stessa riservatezza con cui sono stati scritti.”

Paul Auster

Paul Auster, La trilogia di New York, edito da Einaudi

Scrivere della Trilogia di New York mi ha messo in difficoltà. Più che altro, mi ci è voluto parecchio tempo per mettere insieme le parole  più adatte in uno scritto degno dello stile di Paul Auster (o almeno ci provo)  per parlare di un libro che ho scoperto lo scorso settembre e che ho letto in un paio di giorni.

Per chi ama scrivere, come me, ogni lettura è fonte di miglioramento per affinare il proprio stile, ogni nuovo autore scoperto rappresenta un maestro da cui carpire tecniche e segreti. Leggere la Trilogia è un’illuminazione.

Perché la scrittura di Paul Auster è essenziale, asciutta, senza fronzoli. Niente di più, niente di meno. Perfetta.

Auster è un architetto delle parole, che costruisce periodi, psicologia dei personaggi, capitoli e intrecci, con la stessa pulizia ed eleganza delle architetture moderniste di Mies Van Der Rohe. Questo per quanto riguarda lo stile, perché il contenuto è un’altra storia… La Trilogia  infatti è una discesa negli inferi della vita frenetica e alienante della New York degli anni ’80, un’esplorazione dell’animo umano nelle sue tante sfaccettature fra nevrosi e follie.

Una scrittura diretta, ipnotica e allo stesso tempo ruvida, che ricorda molto lo stile di Charles Willeford. C’è infatti più di un’analogia fra i due autori. Una fra tutte è il richiamo al Walden di Henry David Thoreau, ma lascerò scoprire a voi tutti gli indizi e le somiglianze disseminati qua e là nelle opere e nelle biografie dei due scrittori americani.

Se non avete ancora letto Willeford, vi invito a farlo; so che invece Thoreau mette in difficoltà anche le menti più allenate alla lettura, ma conviene comunque provare a conoscerlo.

La Trilogia si compone di tre romanzi brevi: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa. La sua pubblicazione nella metà degli anni ‘80 consacra lo scrittore nell’olimpo della letteratura americana contemporanea, destinandolo all’immortalità.

Nella Trilogia ci sono più storie che si rincorrono e si chiudono una nell’altra come una matrioska, un libro nel libro, con i personaggi che sembrano richiamarsi gli uni con gli altri e moltiplicarsi. 

Tre romanzi che hanno protagonisti dall’identità confusa, che cambiano nome o che non lo hanno (Città di Vetro), che sono giochi di colori (Fantasmi), che scambiano la loro vita con quella di amici scomparsi (La stanza chiusa).

E ci sono anche altri elementi comuni in tutte e tre i racconti: la follia, i pedinamenti, il taccuino, la descrizione della vita dello scrittore spiantato. Nella Trilogia infatti c’è anche tanto della biografia dell’autore, come se avesse rotto in mille pezzi le sue esperienze personali come scrittore in cerca di fama, e le avesse disseminate qua e là nella trama.

I temi presenti nell’opera di Auster sono ricorrenti: la solitudine dell’uomo di città e la volontà di ritorno a una vita più ascetica e a contatto con la natura, la follia dovuta all’alienazione dal lavoro e dallo stile di vita contemporaneo. E ancora la ricerca del senso dell’esistenza, il bisogno di certezze insito dell’uomo, il fato, il destino che tiene in mano le vite di tutti, lo studio del linguaggio e del legame fra linguaggio ed esistenza.

Un libro, attualissimo anche se scritto ormai quasi quarant’anni fa, adatto a chi non ha paura di guardare in faccia le molte contraddizioni dell’Occidente, che lascia il lettore alla fine con una lieve ma persistente sensazione di amaro in bocca e la certezza che la società occidentale non è fatta a misura d’uomo.

L’autore

Immagine di Paul Auster

Paul Benjamin Auster (conosciuto anche con lo pseudonimo di Paul Quinn) nasce a Newark, città del New Jersey a pochi chilometri da New York, nel 1947.

Il suo talento per la scrittura si manifesta molto precocemente, tanto che compone le prime poesie attorno ai dodici anni.

La sua carriera come scrittore inizia alla fine degli anni ’70, dopo avere svolto per qualche tempo lavori saltuari. La consacrazione avviene fra il 1985 e il 1987 con la pubblicazione dei libri della Trilogia.

Auster è anche saggista, produttore, attore e sceneggiatore.

Paola Cavioni

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