Morning Routine. A modo mio.

Di recente su YouTube ho scoperto l’esistenza di una tipologia di video, con milioni di visualizzazioni, intitolati “morning routine”, realizzati da mamme con un numero indefinito di figli (una tizia russa ne ha addirittura dieci!) che mostrano al mondo cosa fanno ogni mattina per prepararsi a uscire di casa.

Il chiaro intento è quello di fare sentire noi, mamme comuni, delle complete incapaci.

Ora, a parte il fatto che vorrei sapere che lavoro fanno queste madri (e padri) per mantenere tutti quei figli, per avere case enormi con arredamento ultramoderno e figlie vestite come principesse, andiamo ad analizzare punto per punto cosa succede nella maggior parte di questi video.

La loro mattina è la seguente:

  • Sveglia prima dell’alba modalità grillo entusiasta grato alla vita (‘zzo ridi lo sai solo tu);
  • Momento mindfulness, ginnastica e preghiere della durata di un’ora;
  • Colazione vegana preparata direttamente da Gordon Ramsey, già pronta in tavola;
  • Scelta outfit, trucco e parrucco della mamma, per un’altra ora buona (in quale spazio tempo vivi?? Di quante ore è composta la tua mattina??);
  • Sveglia dei bambini che si alzano al suono delle campane tibetane, tutti biondi e belli e che si svegliano di buonumore e già pettinati;
  • I bambini, anche i più piccoli, si cambiano da soli e sono tanto teneri nei loro completi in coordinato;
  • Preghiera di gruppo tutti seduti (sì, avete letto bene, tutti i bambini sono seduti) intorno al tavolo della colazione;
  • Ognuno va a scuola per conto suo, i figli più piccoli giocano tranquilli sul tappeto persiano in salotto, ovviamente con giochi svedesi in legno pensati per sviluppare tutte le facoltà mentali dei bambini in modo che automaticamente siano candidati al nobel per la fisica 2040.
  • Il papà esce per andare al lavoro (spaccia? Si dedica al traffico internazionale di organi? Da dove arrivano tutti i soldi con dieci figli, DA DOVE??);
  • La mamma si dedica serenamente al suo blog sulla cura della cinciallegra andina.

Fine della mattina, tutti felici.

Io ho solo due figli, che per la media italiana sono già tanti, e la mia mattina invece è questa:

  • Sveglia che suona alle sei meno un quarto. La spengo;
  • Sveglia che suona alle sei. La spengo e provo ad andare avanti a dormire ma mio marito russa. Gli tiro una gomitata, metto la testa sotto il cuscino e provo a dormire ancora;
  • Sveglia che suona ininterrottamente fino alle sette.  Apro gli occhi e so già che sarò in ritardo. Fuori è ancora buio. Momento per capire come mi chiamo, cosa ci faccio nel mondo e perché non sono andata a vivere in Irlanda nel 2008;
  • Inizio le pratiche di risveglio della ciurma. Provo a svegliare Figlia n°1 Gaia con una carezza. Non si sveglia. La chiamo ancora dopo dieci minuti e provo a scuoterla. Non si sveglia. La chiamo ancora dopo dieci minuti e già è tardi. Inizio a urlare come Annie Wilkes di Misery non deve morire  nella scena della battaglia finale e la minaccio di restare in punizione fino ai 18 anni se arriviamo in ritardo a scuola. Finalmente si alza e, in loop su “non ho voglia di andare a scuola” va in bagno;
  • Spalanco la finestra della camera da letto ed è subito Alaska. Nebbia freddo giorni lunghi e amari (questa la capiranno in pochi). Ancora in pigiama rifaccio i letti, nel frattempo il marito è già in bagno e praticamente è vestito e profumato;
  • Si sveglia anche il piccolo Francesco che inizia la cantilena di “mamma, mamma, mamma, mamma, mamma” e mi si attacca alla gamba mentre cerco di raggiungere faticosamente la doccia come un concorrente di Giochi senza Frontiere;
  • Mi vesto in tre minuti chiusa nella cabina armadio (per non farmi raggiungere dal piccolino che è attaccato alla porta e continua a chiamarmi) e solo quando sono in ufficio mi accorgerò di avere messo le calze di due tonalità diverse.
  • Mia figlia nel frattempo non ha ancora finito di prepararsi e anzi la trovo sulla tazza che fissa il vuoto. Secondo urlo della mattina. Mio marito nel frattempo cerca di vestire il piccolino legandolo al fasciatoio perché sguscia via peggio di un’anguilla.
  • Una volta vestiti, mi tocca pettinare mia figlia. Chiunque abbia figlie femmine sa di cosa sto parlando, e non pensate alla dolcezza con cui Rapunzel pettina i sui lunghi capelli. No. Avete in mente l’espressione della Medusa di Caravaggio? Ecco, quella è mia figlia quando le faccio la coda alla mattina. Ogni mattina. Da quasi dieci anni.   
  • Momento colazione: Gaia che ci mette mezz’ora a decidere cosa vuole mangiare, Francesco urla perché vuole vedere i cartoni e fare colazione con il formaggio (giuro). Io, in piedi, trangugio il caffè rovente, mentre penso ad un modo con cui potrei fingere la mia morte e mentre urlo ancora perché Gaia ci mette una vita per andare a lavarsi i denti. In tutto questo Macchia, il cane, ci guarda perplessa e meno male che non può dirci cosa pensa;
  • Usciamo finalmente tutti di casa e corro a portare Gaia a scuola, corro alla macchina e corro al lavoro (tutto questo correre e non capisco ancora come faccio ad avere la cellulite). Arrivo al parcheggio dell’ufficio e finisco di truccarmi in macchina, rischiando di incrociare lo sguardo di qualche collega mentre ho  la tipica espressione da babbuino stupito che facciamo tutte noi donne quando ci mettiamo il mascara.

Fine della mattina, qualche ferito e io già esaurita.

Mamme, ditemi che non sono da sola?

Paola Cavioni

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Noi, sopravvissuti agli anni ’90

“Tanta nostalgia degli anni novanta
Quando il mondo era l’arca e noi eravamo Noè
Era difficile, ma possibile
Non si sapeva dove e come, ma si sapeva ancora perché
C’era chi aveva voglia, c’era chi stava insieme
C’era chi amava ancora nonostante il male
La musica, c’era la musica, ricordo
La musica, la musica, c’era la musica”

(Articolo 31, 2030)

Eccoci qua. Abbiamo tra i trenta e i quarant’anni e siamo sopravvissuti a un conflitto che neanche sappiamo di avere combattuto. Siamo sopravvissuti agli anni ’90 e nonostante tutto, come nella canzone degli Articolo 31, ne abbiamo ancora tanta nostalgia, anche se ormai siamo molto più vicini al 2030 che al 1999.

Noi siamo le bambine reduci da quelle orribili calze bianche traforate di cotone (che toglievi alla sera, ma la mattina dopo trovavi ancora la trama impressa sulle gambe) immortalate in eterno nelle foto di famiglia. Le stesse fotografie conservate negli album che nostra madre ostinatamente mostra a ogni nostro nuovo fidanzato, salvo poi stupirsi del fatto che alla fine restiamo sempre single.

Siamo sopravvissuti alle scuole medie senza smartphone e 4G, per tanti di noi senza internet completamente. Quando ancora la scuola non si chiamava primaria e secondaria, le ricerche si facevano davvero con “le sudate carte”. Dovevamo passare i pomeriggi in biblioteca o a casa dall’amico con i soldi che aveva la Treccani. Quando ancora stampante e fotocopiatrice (che si chiamava ancora ciclostile!) erano un bene raro, quanti crampi ci sono venuti alla mano mentre copiavamo paragrafi su paragrafi per la ricerca sulla seconda Guerra Mondiale o la tesina di fine anno?

Siamo sopravvissuti senza book fotografico su Facebook, corredato da frase strappalacrime sul tempo che passa, il nostro primo giorno di scuola, che quando andava bene i nostri genitori ci facevano una sola fotografia con il sorriso sdentato, il grembiule nuovo e in mano il diario. Fotografia fatta giusto per finire il rullino “vacanza Liguria ‘93”.

Abbiamo vissuto l’infanzia e la adolescenza senza YouTube ma con le audiocassette e i primi CD, così preziosi perché se li rovinavi la tua musica preferita era persa per sempre (o almeno così ci sembrava a quei tempi).

Siamo andati a scuola senza registro elettronico, senza l’elenco del materiale consegnato dalle maestre a metà agosto, perché il primo giorno di scuola la mamma ti diceva: “Porta solo l’astuccio, un quaderno e il diario”. Ora a scuola il primo giorno i bambini portano: cartella, due astucci, quaderni per tutte le materie con relative scorte, cartellette, carta igienica, sapone, risma di fogli, tovaglietta per la merenda, vocabolario in italiano e inglese e narra la leggenda che ci siano ancora in uso i regoli (vero pezzo di archeologia industriale). Ora si va a scuola con il trolley. Siamo andati a scuola ogni singolo giorno con la schiena più carica di uno sherpa in spedizione invernale sull’Himalaya. Con lo zaino sulle spalle ben posizionato sulle reni, così pesante che dovevi stare piegato e parlavi con il tuo compagno guardandoti le scarpe per non perdere l’equilibrio. E lo sa bene chi sta ancora pagando le sedute dal chiropratico per sistemare la scoliosi.

Siamo sopravvissuti a scuola senza la famigerata chat delle mamme. Perché le chat degli anni ’90 erano le chiacchiere delle vicine di casa, operative alla finestra h24, che se ti beccavano a fare qualcosa che non dovevi, facevi prima a non rientrare neanche a casa e ad arruolarti nella legione straniera perché tua madre ti avrebbe aspettato sulla porta con la ciabatta in una mano e il mestolo nell’altra.

Siamo sopravvissuti alla scuola dell’obbligo che finiva in terza media. Che chi non proseguiva gli studi e andava a lavorare era considerato una capra che non aveva voglia di studiare, ma quando dopo l’università e i master ci siamo trovati alla soglia dei trent’anni disoccupati e precari, abbiamo guardato con malcelata invidia i nostri ex compagni che lavoravano già da dieci anni, assunti in regola e con i contributi pagati. Noi che se ci va bene andremo in pensione a settantacinque anni con la minima.

Siamo la generazione che ha girato l’Italia e l’Europa senza dispositivo anti-abbandono, senza le cinture di sicurezza, senza seggiolini specifici per ogni fascia di età, di quelli moderni scelti in base ad un preciso algoritmo fra peso e altezza. Nei lunghi tragitti in macchina le nostre cinture di sicurezza erano le ginocchia di nostra madre seduta con noi sul sedile posteriore, che diceva di mettere giù la testa perché il viaggio era ancora lungo. Per non parlare di quando si andava in vacanza per due o tre settimane al mare in estate, e si partiva con la macchina zeppa all’inverosimile, senza aria condizionata e con le valigie sul portapacchi, legate con un moschettone elastico che se malauguratamente si sganciava rischiavi di perderci un occhio.

Siamo sopravvissuti alle nonne che avevano visto la guerra e che passavano il tempo fra i fornelli. Le nonne che “prima mangia e poi mi racconti”, che non erano vegane e friggevano anche i tovaglioli e il caffè, alla faccia della dieta mima digiuno.

Siamo l’ultima generazione del servizio militare e delle cabine telefoniche a gettone e la prima degli SMS a 180 caratteri.

Siamo i sopravvissuti ai tanti, troppi amici morti in motorino perché ancora non c’era l’obbligo di potare il casco, e chi lo aveva lo portava alzato sulla fronte, perché così era più figo e non ti spettinavi.

Siamo la generazione di quelli che aspettavano il mercoledì perché in edicola usciva TV Sorrisi e canzoni e si potevano ritagliare i testi di Torn e I’ll be missing you per non doversi inventare le parole in inglese. Siamo riusciti a crescere discretamente sani di mente anche senza il parental control sulla TV e anche se rimanevamo svegli la sera fino a tardi per vedere i programmi televisivi che i nostri genitori ci vietavano.

Siamo quelli sopravvissuti alle contraddizioni di un decennio a metà fra la rabbia della musica dei Nirvana e i testi imbarazzanti delle canzoni degli Aqua.

Siamo sopravvissuti alla moda anni ’90. Ai codini con i ciuffi rosa, ai capelli tagliati a scodella, alle magliette sopra l’ombelico, ai jeans a vita bassa che non lasciavano proprio niente all’immaginazione quando ti piegavi, ai bomber da tamarri, alle zeppe della Buffalo che facevano camminare come un Frankenstein con la sciatica.

Siamo sopravvissuti ai grandi traumi provocati dalla cinematografia anni ’90, il decennio dei film più tristi di tutta storia del cinema. Edward mani di forbice, Titanic, Ghost, Romeo + Giulietta, Lezioni di piano, Philadelphia solo per fare alcuni esempi. E penso che tanti di noi stessero ancora elaborando il lutto per la morte di Mufasa quando la Disney nel 2019 ha ben pensato di ravvivare la nostra sindrome da stress post traumatico con il live action del Re Leone. Grazie. Grazie davvero cara Disney, penso che tu abbia qualche forma di scambio merci con l’albo degli psicologi perché altrimenti non si spiega tanto accanimento sulla nostra generazione, e sì, mi riferisco anche alla mamma di Bambi. Sai che non ti perdoneremo mai.

Siamo sopravvissuti agli anni ’90 e alle cadute sulla ghiaia quando non c’era ancora la pavimentazione anti trauma e non c’erano neanche i parchetti a dire la verità, perché si giocava per strada o in oratorio. Si giocava tanto e si cadeva tanto. Si cadeva per un contrasto a calcio, si cadeva dai pattini e dalla bicicletta. Sbucciati e sanguinanti, si rientrava a casa per l’ora di cena e c’era sempre una nonna che ci disinfettava con litri di mercurocromo e la stessa finezza di Rambo quando si cuce da solo la ferita sul braccio.

Siamo sopravvissuti ai metodi educativi degli anni ’90, che a confronto con il “metodo danese per crescere bambini felici” i nostri genitori sembravano accondiscendenti come il Sergente Maggiore Hartman. Se hai fra i trenta e i quaranta anni, conosci bene il significato della frase “guarda che se poi ti fai male piangi due volte”. Perché negli anni ‘90 non c’erano tata Lucia o gli psicologi a salvarci dalla sicura punizione corporale che ci avrebbe aspettato a casa nel momento in cui nostro padre avesse scoperto che avevamo preso una nota o un’insufficienza a scuola.

Siamo la generazione che è sopravvissuta anche senza centinaia di attività extra scolastiche, perché negli anni novanta a scuola si faceva tutti il tempo pieno e se ti andava bene, facevi un solo sport l’anno o suonavi uno strumento.

Siamo sopravvissuti anche alla noia di pomeriggi passati a ciondolare senza meta per strada e nei cortili condominiali, senza sapere che quell’apparente noia sarebbe stata la più bella forma di libertà di tutta la nostra vita.

Paola Cavioni

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Che bella la primavera. Ma non se abiti in Lombardia.

Sono nata in provincia di Milano.

Vivo da sempre in provincia di Pavia.

Sono quindi abituata e direi quasi vaccinata rispetto al clima e alle “bellezze” tipiche della Pianura Padana.

Sono abituata alla nebbia da ottobre a gennaio, che crea più code di quelle ai bagarini per un concerto dei Coldplay. Lei che ti fa ricordare ogni mattina tutti i santi del calendario, quando non riesci ad entrare in tangenziale neanche se parti da casa alle 5 e al lavoro ci vai in bicicletta.

I miei occhi sono talmente abituati al tuo faro retronebbia che quando scendo dalla macchina mi scambiano per la sorella incazzata di Ciclope degli X Men.

Sono abituata alla caldazza del mese di luglio che fa fondere l’asfalto sotto il cavalletto della bicicletta. Che se osi scendere dallo scivolo con tuo figlio e i pantaloncini corti puoi tranquillamente dire addio alle tue chiappe perché le troverai fuse lungo tutta la discesa, come lardo adagiato su una fetta di pane.

Sono abituata alle cimici che fanno come noi le partenze intelligenti e ormai tornano già al mese di agosto, pure loro belle abbronzate e riposate dalla ferie, pronte a romperti i coglioni non appena osi stendere i panni sul balcone. Oppure le migliori, le cimici che vogliono farti a tutti i costi compagnia in macchina quando indossi un bel paio di pantaloni bianchi puliti e ti ci siedi sopra. E allora ripeti a memoria tutto l’elenco dei santi che hai sapientemente studiato durante le code in inverno per la nebbia. E poi devi stare a distanza di sicurezza dagli altri, perché gli anni passano ma certe cose non passano mai, e la puzza di cimici è una fra queste.

Sono abituata alle cavallette transgeniche chiaramente figlie di Alien che ti trovi attaccate alle imposte di casa quando nelle campagne tagliano il mais. Quelle che Macchia, la mia piccola beagle, mi porta in casa come fossero un bellissimo trofeo croccante (‘tacci suoi..). Amore della mamma, prima di darmi un bacino vieni qua che ti disinfetto la bocca con l’idraulico liquido…

Sono abituata a quando nevica e ogni anno non puliscono le strade, oppure quando le puliscono ma spalano tutta la neve davanti al tuo box.

Insomma, sono abituata. Oppure rassegnata, che in questo caso è la stessa cosa.

 

Ma alla primavera lombarda quella no, non mi abituo mai.

Perché lei ti illude sempre, come il più bello della scuola che fa finta di starci ma poi scopri che ti stava solo prendendo in giro e in realtà esce con la tua migliore amica.

Non mi posso abituare all’ascella pezzata al mese di febbraio, quando a poco più di un mese dal Natale esci in pausa pranzo e ci sono quindici gradi. E allora, povero illuso, pensi “cazzo vai che quest’anno arriva presto la primavera!”.

E fino al 15 marzo sono tutte belle giornate, e conti i giorni che mancano al cambio dell’ora quando finalmente all’uscita dall’ufficio ci sarà un po’ di luce e non ti sentirai più come Dracula che esce di casa alla mattina col buio e torna a casa di sera, sempre e solo al buio.

Attendi con ansia che arrivino i ponti del mese di aprile e maggio, perché finalmente puoi smettere di indossare la canottiera della salute e fare il cambio di stagione.

Poi aprile arriva. E tu, povero lombardo che non abiti né mare né montagna, attendi con ansia il fine settimana per poter fare almeno un giro in bicicletta. E ti basta questo pensiero per essere felice, per affrontare la settimana senza la voglia costante di buttarti sotto un treno.

Alla fine è primavera, tutto ricomincia, fino a venerdì mettono sole, cosa mai potrà andare storto?

E poi arriva lei.

La pioggia.

Ogni anno.

In primavera.

A rompere i coglioni.

E non è pioggia, è proprio Il Diluvio Universale Parte Seconda La Vendetta. Solo che tu non sei Mosè e per muoverti hai solo una misera Yaris, e volevi anche fare il cambio delle gomme visto che ormai è primavera.

Con una precisione chirurgica la pioggia arriva a Pasquetta. Poi torni a lavorare e lei se ne va.

Ma tanto lo sai che torna. Al primo di maggio. Perché la pioggia è vegana e non vuole che tu, stronzo carnivoro, faccia la grigliata con gli amici.

No, alla pioggia e al freddo bastardo in primavera non mi abituo.

Non mi abituo alla collega che dal mese di aprile in poi si ostina a venire in ufficio con la scarpa aperta o con la gonna senza calze. Non mi capacito del perché lei riesca a saltellare fra una goccia e l’altra mentre a me basta fare il tragitto dalla casa al parcheggio per essere ridotta ad uno swiffer bagnato, ma con la colite e il naso gocciolante.

Non mi abituo alla vista di tutte le povere ballerine affogate in litri e litri di pozzanghere perché “quando sono uscita di casa stamattina c’era il sole, poi..”

No, non riesco ad abituarmi a questa strana primavera lombarda.

Perché poi non solo piove e fa freddo, ma ci sono sempre le zanzare rincoglionite che non capiscono più che stagione è, e come dargli torto?

 “Ma come, fino a due giorni fa c’era il sole? Sono arrivata apposta dall’Africa. Vabbè, nel dubbio io rimango”.

E rimangono davvero, e sono solo una antipasto di quelle che arrivano poi a giugno.

Perché anche le zanzare ogni anno festeggiano la Festa dell’Unità, e non serve che ti guardi troppo attorno. Tu fai parte della loro grigliata mista, perché loro no, non sono vegane.

 

Paola Cavioni

 

 

 

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