Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: l’incipit

“Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza aspettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso errore.”

“Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all’epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro. Quando guarì e gli passarono i timori di dover smettere di giocare a rugby, Jem non ci pensò quasi più. Il braccio sinistro gli era rimasto un po’ più corto del destro; in piedi o camminando, il dorso della mano sinistra faceva un angolo retto con il corpo, e il pollice stava parallelo alla coscia, ma a Jem non importava un bel nulla; gli bastava poter continuare a giocare, poter passare o prendere il pallone al volo.”

“Naturalmente, un manoscritto. Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Don J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato di indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell’ordine benedettino. La dotta trouvaille (mia, terza dunque nel tempo) mi rallegrava mentre mi trovavo a Praga in attesa di una persona cara. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città. Riuscivo fortunosamente a raggiungere la frontiera austriaca a Linz, di lì mi portavo a Vienna dove mi ricongiungevo con la persona attesa, e insieme risalivamo il corso del Danubio.”

“Tutti parlavano del libro. Non potevo più camminare in pace per le strade di New York; non potevo più fare jogging nei vialetti di Central Park senza che qualche passante mi riconoscesse ed esclamasse: “Ehi, è Goldman! Lo scrittore!”. Capitava perfino che alcuni si mettessero a correre per seguirmi e farmi le domande che li assillavano […].”

“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.”

Li avete riconosciuti?

Sono cinque incipit di altrettanti famosi romanzi contemporanei (qualcuno più contemporaneo di altri).

In ordine abbiamo La casa degli spiriti di Isabel Allende, Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Il nome della rosa di Umberto Eco, La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker e Lolita di Vladimir Nabokov.

Partiamo dalla definizione, cos’e un incipit?

Il vocabolario dell’italiano contemporaneo Devoto-Oli lo definisce sinteticamente come “inizio di un’opera letteraria, di uno spettacolo o di un programma televisivo”.

In letteratura per incipit si intende una frase, o più,  di apertura, che può anche non coincidere con l’inizio della storia dal punto di vista cronologico.

“Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione”.

Oscar Wilde

A cosa serve l’incipit?

In un romanzo l’incipit svolge diverse funzioni.

La prima è quella di attirare l’attenzione del fruitore dell’opera, del lettore quindi, come una sorte di esca.

La seconda, fondamentale, è quella d’introduzione all’universo narrativo del racconto.

Dalle prime frasi si può comprendere lo stile dell’autore, l’atmosfera in cui si svolge la storia; viene introdotta la voce narrante (che può anche cambiare nel corso della storia) o elementi che ritorneranno nella narrazione.

Ecco quindi che Isabel Allende introduce uno dei personaggi chiave del suo primo romanzo, Clara, insieme ad una importante anticipazione: Clara prima o poi diventerà muta.

Se vogliamo scoprire perché, dobbiamo proseguire con la lettura.

Harper Lee preferisce presentarci i protagonisti della sua storia: la voce narrante della piccola Scout, che ci parla del fratello Jem, del quale veniamo a sapere che a tredici anni si rompe un braccio, ma non conosciamo ancora il motivo…

Il nome della rosa di Umberto Eco inizia in realtà con tre incipit diversi: una finta introduzione, un prologo e l’inizio vero e proprio della storia nel Primo Giorno. Quello riportato è solo uno dei tre. Una tecnica particolare che in questo caso crea una certa aria di solennità che aleggia attorno alla storia già dalle prime pagine.  

Joël Dicker introduce il leitmotiv che accompagna tutto la storia: il suo libro. Di quale libro stiamo parlando e perché la gente ne sia così incuriosita? Anche in questo caso lo scopriremo solo alla fine. Stiamo abboccando all’amo e ancora non lo sappiamo.  

Nabokov infine con l’incipit di Lolita, famosissimo e citato spesso nei corsi di letteratura, con la sua ripetitività fa comprendere senza ombra di dubbio quando Humbert Humbert sia ossessionato dall’adolescente che da il titolo al romanzo.

L’incipit può anche coincidere con il prologo della storia che si definisce come “un’introduzione che differisce dal resto della storia per tempo, spazio o punto di vista (o tutti e tre assieme) e crea attese e curiosità per gli eventi futuri” (J.P. Morrell).

Esiste una formula per l’incipit perfetto? Ovviamente no.

È necessario provare e riprovare, andare anche per tentativi, scrivere e riscrivere. Un consiglio da manuale di scrittura creativa è però quello di non avere fretta di svelare troppi particolari, creare curiosità nel lettore senza però raccontare tutto subito.

L’incipit può essere una mano che ci accompagna dolcemente verso un nuovo viaggio oppure uno schiaffo che risveglia la coscienza e la curiosità.

È talmente importante che alcuni autori lo scrivono quando hanno terminato il romanzo.

Se è pur vero che ci sono anche storie che necessitano del tempo per carburare e diventare coinvolgenti, un buon incipit deve avere la caratteristica di non lasciare indifferenti.

Deve essere memorabile.

Se volete scoprire una selezione degli incipit più famosi della letteratura di ogni tempo potete visitare il sito web www.incipitario.com.

Pensate che il sito contiene gli incipit di oltre cinquemila opere di quasi duemila autori italiani e stranieri.

Un bacino davvero infinito di spunti di ispirazione per ogni aspirante autore, per trovare il proprio stile e scrivere un incipit indimenticabile.

Paola Cavioni

Per leggere tutte le Pillole di storytelling del lunedì clicca sul menù alla voce Lune-dì Scrittura e scorri la pagina per leggere tutti i post precedenti.

Bibliografia:

  • Isabel Allende, La casa degli spiriti (Feltrinelli Editore, 1982)
  • Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani, 2013)
  • Umberto Eco, Il nome della rosa (Bompiani/RCS, 1980)
  • Il buio oltre la siepe, Harper Lee (Feltrinelli editore, 1962)
  • Lolita, Vladimir Nabokov (1955)
  • Nuovo Devoto – Oli, Vocabolario dell’italiano contemporaneo
  • Jessica Page Morrell, Master in scrittura creativa (Dino Audino Editore, 2007)

Ciao e benvenuto/a!

Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

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Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling e il principio dell’iceberg di Ernest Hemingway

“Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg. I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno. Prima di tutto eliminare tutte le parti superflue e trasmettere al lettore un’esperienza che potesse entrare a far parte della sua, come quelle reali. È un’impresa difficilissima, e ho dovuto lavorare sodo.”

Queste sono le parole di Ernest Hemingway in un’intervista a George Plimpton del 1954.

Lo stesso anno in cui Hemingway riceve il Nobel per la Letteratura per Il vecchio e il mare, romanzo breve pubblicato due anni prima e che è considerato l’ultimo capolavoro dello scrittore statunitense.

Molti anni prima che la metafora dell’iceberg venisse sfruttata in qualsiasi contesto lavorativo (basta aprire LinkedIn per capire di cosa sto parlando), Hemingway in poche righe riassume il senso del suo narrare: un procedimento per sottrazione che dice moltissimo del rapporto fra letteratura e vita, fra scrittura ed esperienza.

È sufficiente leggere l’incipit de Il vecchio e il mare:

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che ormai non prendeva un pesce.”

Un inizio semplice ma potentissimo, che catapulta il lettore nel cuore della storia in una sola frase.

Per spiegare meglio il principio dell’iceberg si possono fare due premesse: la prima è l’antica massima “conosci te stesso”, l’iscrizione presente nel tempio di Apollo a Delfi, declinata in questo caso in conosci i tuoi personaggi.

Sì perché ogni storia per forza di cose ruota attorno a uno o più personaggi, a meno che non vogliate romanzare la storia del Big Bang o stiate scrivendo un’epopea sulle eruzioni vulcaniche.

Conosci i tuoi personaggi.

Sembra più facile a dirsi che a farsi, perché perdere il controllo è davvero un attimo.  

Per raccontare una storia che sia credibile e indimenticabile i personaggi devono agire, muoversi, parlare. Le loro azioni, movimenti e dialoghi sono il frutto del loro vissuto, delle loro vicissitudini personali, anche di quelle che non sono inserita all’interno di quel momento, breve o lungo, che si sta narrando.

La seconda premessa è invece il caposaldo con cui si aprono quasi tutti i corsi di scrittura creativa: show don’t tell (mostrare, non dire). Questo perché, se i personaggi sono costruiti in modo solido, anche se quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg sarà sufficiente farli agire in maniera coerente con la loro personalità, con le loro esperienze, senza che siano necessarie troppe spiegazioni. Le azioni parleranno da sé.

Alcuni autori prima della stesura vera e propria del romanzo, dopo una ovvia fase di documentazione, scrivono delle schede biografiche dei loro personaggi, in modo da riassumere nero su bianco tutti i punti salienti della loro vita per poterne attingere in fase di stesura del romanzo.
Altri invece preferiscono utilizzare il metodo delle interviste, scrivendo una serie di domande ipotetiche e rispondendo calandosi nei panni del loro protagonista.

Queste domande servono a costruire la personalità e a fare emergere i bisogni più profondi delle voci che porteranno avanti la narrazione.

Tutte queste analisi preliminari servono a creare la famosa base dell’iceberg di cui ci parla Hemingway. Facile vero? Sicuramente, se fossimo tutti come Hemingway…

Ti è mai capitato di leggere un libro in cui invece l’autore, in maniera più o meno consapevole, non segue questo principio? Una storia in cui i personaggi appaiono come vuoti, senza sostanza?

Paola Cavioni

Per leggere le pillole di storytelling precedenti, clicca sui link seguenti:

La regola delle 25 parole, Il grande libro della scrittura di Marco Franzoso

Scrivere e un’abitudine, non un’arte

Il viaggio dell’eroe di Chrisfopher Vogler e Midnight in Paris di Woody Allen

La sospensione dell’incredulità e The Truman Show

Bibliografia:

  • Lezioni di scrittura creativa, Gotham Writer’s Workshop (Dino Audino Editore, 2005)
  • Master di scrittura creativa, Jessica Page Morrell (Dino Audino Editore, 2007)
  • Il grande libro della scrittura, Marco Franzoso (Il Saggiatore, 2020)
  • On writing, Stephen King (Pickwick, 2000)
  • Il vecchio e il mare, Ernest Hemingway (Mondadori)
  • Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare, Ernest Hemingway (Il Nuovo Melangolo, 1996)

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Lune-dì Scrittura, la sospensione dell’incredulità e The Truman Show (1998)

“Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta, è molto semplice”

The Truman Show (Christof)

Qualche giorno fa ho rivisto The Truman Show insieme a mia figlia Gaia, che ha quasi dieci anni e lo ha visto per la prima volta.

Per chi non lo conoscesse, The Truman Show, caso cinematografico della fine degli anni ’90, è la storia di Truman Burbank. Truman, interpretato da un indimenticabile Jim Carrey, vive a Seaheaven, cittadina balneare che incarna il sogno americano con le sue casette tutte in fila e i prati all’inglese. Burbank è sposato con Meryl, fa l’assicuratore, ha degli amici ma soprattutto è inconsapevole del fatto che tutta la sua vita si stia svolgendo in un grandissimo set cinematografico e che ogni avvenimento della sua esistenza è stato deciso a tavolino dal regista Christof (Ed Harris).

Tutta la sua vita di fatto, pur essendo perfetta, è quello che oggi chiameremmo un fake.

Una serie di “intoppi nella sceneggiatura” (come un faro – il finto Sirio della volta celeste – che quasi gli cade in testa mentre è sulla via di casa) iniziano a fare capire a Truman che c’è qualcosa che non torna in questa perfezione, e lo spingono a indagare per capire cosa stia succedendo, realizzando qualcosa che forse aveva intuito da tempo.

Il regista del film è Peter Weir, che lavora sul soggetto scritto da Andrew Niccol (per gli amici cinefili, è lo stesso sceneggiatore del distopico In Time).

Tornando all’origine di questo post e la connessione con le pillole di storytelling del lunedì, devo ringraziare mia figlia.

Mi ha fatto emozionare e riflettere infatti la sua reazione davanti alla pellicola, dato che inizia ora vedere film da adulti e non più solo cartoni animati o film di animazione.

Mentre sullo schermo scorrevano le vicende dei protagonisti, lei continuava a farmi domande sulle sorti del povero Truman.

Ma suo padre è morto realmente?

Perché Truman ha sposato una donna se ama un’altra?

Ma Christof è cattivo?

Perché non vogliono che lui se ne vada dallo show?

Era completamente immersa nel film.

Questo momento quasi di trance, di astrazione dalla realtà e completa immersione in una storia mi porta a parlarvi della sospensione volontaria dell’incredulità, o più semplicemente sospensione dell’incredulità, che è un principio valido sia quando si scrive narrativa (e di conseguenza quando si legge) che quando si guarda un’opera rappresentata.

Leggere un libro, andare a teatro o vedere un film, a meno che non lo si faccia per professione, sono degli atti volontari cui ci si approccia con uno stato d’animo di apertura nei confronti della storia che stiamo per vedere scorrere sotto i nostri occhi. Andiamo al cinema perché siamo disposti a credere a ciò che vediamo, leggiamo un libro perché vogliamo lasciarci trasportare dalle vite dei personaggi e dal loro mondo.

La sospensione dell’incredulità è quel sentimento, di cui non siamo completamente consci, di annullamento del nostro naturale scetticismo per metterci nella condizione di credere a quanto stiamo guardando, emozionarci e, soprattutto, provare empatia per i personaggi e le loro sorti.

È un meccanismo innato che accompagna l’uomo dalla notte dei tempi, da quando le storie venivano raccontate intorno al fuoco. Un filo sottile che lega le narrazioni di tutte le epoche: da Omero alla Bibbia, a Dumas a Hemingway.

Certo l’arte cinematografica dal punto di vista della creazione di mondi verosimili è avvantaggiata, poiché ha a disposizione, oltre alla forza della storia e del soggetto, la recitazione degli attori e la scenografia (come può esserci nel teatro) ma anche gli effetti speciali, l’utilizzo della colonna sonora, le inquadrature, il montaggio ecc…

La sospensione dell’incredulità viene teorizzata all’inizio del diciannovesimo secolo dal poeta e critico letterario Samuel Taylor Coleridge, uno dei fondatori del romanticismo inglese.

La cosa più bella è che nei bambini questo meccanismo non esiste perché per loro non c’è distinzione fra quello che vedono sullo schermo e ciò che succede nella vita reale.

Senza questa sospensione non riusciremmo a vedere un film intero come The Truman Show senza sentirci presi in giro da una storia che, di fatto, è fantastica.  

Senza la sospensione dell’incredulità non potremmo mai fare il tifo per Truman quando cerca di scappare dal destino che Christof ha stabilito per lui.

In The Truman Show inoltre c’è un sottile gioco metacinematografico: noi siamo spettatori anche della vita degli spettatori dello show di Truman, che piangono, ridono o si arrabbiano insieme a lui. La sospensione quindi è al quadrato.

Ovviamente ogni opera per essere credibile deve essere verosimile ed avere una coerenza interna.

Se ad esempio, nel mezzo di The Truman Show fossero arrivati anche gli alieni a complicare le cose, ecco forse avremmo davvero alzato le mani in segno di arresa, e ci saremmo anche alzati dalle poltrone del cinema.

Ma per fortuna, almeno in questo caso, l’immersione nel mondo creato da Christof è completa e niente è lasciato al caso.

Ora che sapete che cosa vuol dire sospensione dell’incredulità però, vi invito a dimenticarvene ogni volta che andrete al cinema. Lì dovete solo rilassarvi, spegnere il telefono, e lasciarvi trasportare dalla storia davanti a un sacchetto di pop corn.

Per la lettura di un buon libro, valgono le stesse prescrizioni.

Paola Cavioni

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Lune-dì Scrittura. Il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler e Midnight in Paris di Woody Allen

“Il viaggio dell’Eroe non è un’invenzione, ma un’osservazione. È il riconoscimento di un modello eccellente, un insieme di principi che governano il modo di vivere e il mondo della narrazione così come la fisica e la chimica regolano il mondo fisico.”

Il viaggio dell’eroe, che ha ormai quasi trent’anni di vita ed è la base per molti testi di scrittura creativa, è un manuale classico per approcciarsi allo studio delle tecniche di scrittura della fiction (romanzo e cinema). Il suo autore è Christopher Vogler, analista di sceneggiature per Warner Bros e 20th Century Fox, nonché docente nella prestigiosa università UCLA di Los Angeles.

Con la sua opera, Vogler porta alla luce, come fosse uno scultore che dalla pietra cava la sua statua, le strutture archetipiche, i modelli che danno corpo e struttura alla narrazione, che fanno scaturire nel pubblico quel meccanismo di riconoscimento ed empatia determinante per il successo della storia stessa.

Questa ovviamente è una sintesi del lavoro di Vogler, che moltissimo deve a Joseph Campbell e al suo L’eroe dai mille volti, che a sua volta attinge a piene mani dalla psicologia di Jung e dal mito.

Ma cosa dice di originale Vogler?

Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (Dino Audino Editore)

Dice che in ogni “storia”, intesa come narrazione con un inizio e una fine, ha una struttura in tre atti (ma questo già ce lo aveva detto Aristotele). Ogni atto è suddiviso in momenti che rappresentano le tappe di un Viaggio, che può essere fisico o metaforico, e che portano l’Eroe protagonista da una condizione di “ordinarietà” all’avventura in un mondo nuovo, straordinario, che lo porta a cambiare la propria visione del mondo e anche lati della propria esistenza che non lo facevano vivere nella piena soddisfazione (si parla in questo caso di need, un bisogno profondo).

I passaggi sono riassumibili come di seguito:

Primo atto:

  • Mondo ordinario: l’Eroe si trova all’interno del suo Mondo Ordinario, può amarlo o sentirselo andare stretto, ma è comunque all’interno di quella che potremmo definire la sua zona di comfort;
  • Chiamata all’avventura e rifiuto della chiamata: l’Eroe si trova di fronte ad un problema che lo catapulta fuori dal mondo delle sue certezze e, come ogni cambiamento, lo fa andare in crisi fino a rifiutare questa chiamata alle armi.
  • Incontro con il Mentore: il Mentore, colui che funge da guida, può manifestarsi sotto varie sembianze, può anche non essere umano in alcuni casi, ma ha sempre comunque il compito di preparare l’eroe ad andare verso l’ignoto, fornendo le armi per affrontare l’avventura.
  • Superamento della prima soglia: a questo punto l’Eroe è pronto a varcare la soglia ed entrare nel Mondo straordinario.

Secondo atto:

  • Prove, alleati e nemici: oltrepassata la prima soglia, l’Eroe incontra delle prove sul suo cammino, e ad aiutarlo o a ostacolarlo ci sono dei personaggi “archetipici”: Alleati o Nemici
  • Avvicinamento alla caverna più profonda: l’Eroe giunge finalmente ai confini del luogo più pericoloso, dove si nasconde il reale oggetto della sua ricerca.
  • Prova centrale: qui l’Eroe si scontra con la sua paura più grande, affronta la morte (anche sotto forma di metafora) e la guarda in faccia. È il momento in cui tipicamente il pubblico resta con il fiato sospeso. Il nostro eroe se la caverà? Ci sarà il lieto fine?
  • Ricompensa: l’Eroe sopravvive ed entra finalmente in possesso della ricompensa tanto desiderata, che fuor di metafora rappresenta la consapevolezza, la conoscenza e una maggior comprensione della propria esistenza.

Terzo atto:

  • Via del ritorno: l’Eroe non è ancora fuori pericolo perché si trova ancora fuori dal suo Mondo Ordinario e in questa fase deve decidere se intende tornarci oppure se vuole seguire per sempre il Bianconiglio e rimanere nel Mondo Straordinario.
  • Resurrezione: l’Eroe viene messo nuovamente alla prova, quella definitiva, ed è l’esame conclusivo per verificare se ha realmente imparato la lezione appresa nella Prova Centrale.
  • Ritorno con l’elisir: l’Eroe ha finalmente compreso il senso profondo del suo viaggio e non è più la stessa persona che è partita per l’avventura, spesso è anche cambiata fisicamente ed esteriormente oltre che interiormente.

La straordinarietà del modello di Vogler e la sua universalità è facilmente riconoscibile: basta pensare a qualsiasi film che abbiate visto di recente e incastrare i passaggi nello schema appena illustrato. Non importa che i momenti ci siano tutti, e a volte non sono neanche nello stesso ordine, ma l’ossatura profonda rimane, sempre.

E per fare un esempio concreto, in questa quarta pillola di storytelling, vediamo come la struttura del viaggio dell’eroe può essere applicata al film Midnight in Paris, scritto e diretto da Woody Allen con Owen Wilson e Rachel McAdams.

Midnigth in Paris (2011): trama e analisi

Il protagonista è Gilbert Pender, Gil per tutti, interpretato da Owen Wilson e dal suo caratteristico taglio di capelli.  

Gil è un brillante sceneggiatore che sta per sposarsi con la bellissima fidanzata Inez, dovrebbe essere un momento felice eppure Gil soffre di attacchi di panico, è depresso ed è insoddisfatto del suo lavoro che non trova più stimolante.

La coppia è a Parigi insieme ai genitori di lei, che non vedono di buon occhio Gilbert e preferiscono di gran lunga Paul, intellettuale borioso vecchia conoscenza di Inez, che a sua volta nutre un debole per l’uomo e non fa neanche troppa fatica per nasconderlo.

Gil vorrebbe trasferirsi a Parigi, città che ama, anche perché spera che l’atmosfera magica della città lo aiuti a terminare il suo primo vero romanzo, per poter dire addio definitivamente alla carriera di sceneggiatore e diventare un “vero” scrittore.

Gil però, spinto da Inez, molto attaccata alla apparenze e con i piedi bel piantati a terra, è reticente a fare il grande passo a buttarsi nella nuova avventura fino a quando… Fino a quando una notte, a mezzanotte precisa, è l’avventura che arriva da lui, nelle sembianze di una vecchia automobile che lo trasporta indietro direttamente in quella che per lui è la sola età dell’oro: gli anni ’20.

Qui, fra fumosi café parigini e lo studio di Gertrude Stein, Gil conosce i suoi più grandi idoli: Zelda e Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Luis Buñuel, Salvador Dalì, Cole Porter, Man Ray e soprattutto Adriana. Quest’ultima gli fa capire che non ha senso continuare a guardare ad un passato ideologizzato per nascondersi e non affrontare le frustrazioni, ma anche le gioie, della vita quotidiana.

Senza entrare troppo nel dettaglio della trama per non anticipare nulla a chi ancora non lo abbia visto, in Midnight in Paris troviamo tutte le strutture del Viaggio dell’eroe vogleriano.

Abbiamo un eroe inconsapevole, Gil, che non sembra proprio il prototipo di eroe senza paura, anzi. È pieno di incertezze e ansie, ha scelto la strada che apparentemente sembra la più giusta per lui: il matrimonio con una ragazza bella e ricca. Ma è quello che vuole? Capiamo subito che il Mondo Ordinario di Gil gli va stretto, lo manifesta nelle sue ansie e dal suo continuo “guardare indietro”, al mito dei ruggenti anni ’20 parigini.

La sua Chiamata all’avventura inizia nel momento in cui mette piede sull’auto che lo trasporta magicamente indietro di novant’anni e gli fa incontrare personaggi che, in un modo o nell’altro, fungono da Mentore nel cammino di cambiamento da sceneggiatore frustrato a scrittore: Hemingway e la Stein per primi.

Da quando mette piede negli anni ’20 inizia il cammino di avvicinamento alla caverna più profonda, il confronto con le sue paure: la paura della morte ma in sostanza la paura di scegliere di non vivere, seguendo una strada che non sente sua.

Ma Gil prova a rimanere aggrappato alla sua vecchia vita, vorrebbe condividerla con la sua fidanzata, ma lei non può capire. E in agguato c’è Paul, il nemico, contro cui Gil vince con l’astuzia, anche se in apparenza può sembrare il contrario…

Gil deve cercare da solo la sua ricompensa, dopo averla individuata, per poi tornare dal viaggio con un elisir unico: la consapevolezza di chi è e di cosa vuole diventare.

Gli elementi del Viaggio dell’eroe ci sono tutti, anche se apparentemente la storia di Midnight in Paris possa sembrare lontanissima dal Mito. Ma è scavando sotto la superficie che si trova la struttura di base.

Midnight in Paris a mio parere è assolutamente imperdibile per capire come costruire un soggetto che abbia corpo, una palestra per aspiranti autori, un film universale e bellissimo non solo per la brillante sceneggiatura ma per il messaggio che lascia nello spettatore: quale è la tua età dell’oro?

Non deve essere un tempo o un luogo fisico, ma uno condizione mentale.

Una volta che l’hai individuata, seguila anche a costo di camminare da solo sotto la pioggia.

Seguila senza rimpianti, perché la paura è il solo reale limite che ci autodistrugge e ci impedisce di vivere.

Paola Cavioni

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Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: scrivere è un’abitudine, non un’arte, con Ann Handley

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Questo libro fa al caso tuo.

Le nuove regole della scrittura. Strategie e strumenti per creare contenuti di successo, di Ann Handley.

Un libro in cui tecniche di web marketing e storytelling vanno a braccetto, che contiene principi generali e tecniche applicabili a ogni tipo di lavoro inerente la scrittura.

Il consiglio che riporto in questo secondo appuntamento con i Lune-dì Scrittura è una frase provocatoria che dà titolo al secondo capitolo: scrivere è un’abitudine, non un arte.

Ann Hardley riassume così la spinosa questione ispirazioneVSmetodo:

  1. Ritagliati del tempo ogni giorno, quando sei più fresco.

2. Non scrivere tanto, scrivi spesso.

Questo vuol dire che, a prescindere dal fatto che tu ti senta o meno “ispirato”, devi sederti e scrivere, scrivere, scrivere. L’ispirazione arriverà.

Vuol dire anche che momento di maggiore produttività di ogni creatore di contenuti è assolutamente variabile durante la giornata e dipende da molti fattori individuali.

C’è chi scrive meglio appena sveglio alle cinque del mattino dopo una buona dose di caffè, chi invece preferisce fermare i pensieri sulla carta nel silenzio della notte, quando la famiglia già sta dormendo.

L’importante, dopo avere individuato questo momento, è procedere con una pianificazione puntuale e con un piano d’azione.

Perché la scrittura è metodo, dedizione e costanza. Solo in questo modo si può superare l’ansia della pagina bianca.

Perché se pensi che l’ispirazione ti cada in testa da un momento all’altro, forse non sei sulla buona strada…

Ann Handley è Chief Content Officier di MarketingProfs, azienda di formazione è ricerca seguita dalla più grande comunità mondiale di esperti di marketing.

Il libro, edito da Hoepli, è acquistabile anche su Amazon, per andare direttamente allo shop dal link affiliazione di Righediarte clicca QUI.

Paola Cavioni

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Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling. Il grande libro della scrittura di Marco Franzoso

“La scrittura non è mai stata un lavoro oneroso per me ma qualcosa che essenzialmente mi dava piacere (soprattutto se accompagnato dall’ascolto di tanta buona musica piacevole e qualche sorso di prosecco altrettanto gradevole). Scrivo sempre ascoltando tanta musica che influisce abbastanza sul taglio e sul tono e sul ritmo della mia scrittura che vorrebbe assomigliarli il più possibile.”

Alberto Arbasino, 2004

Caro lettore di Righediarte, inauguro oggi una nuova rubrica del lunedì dedicata all’arte della scrittura con Lune-dì Scrittura, sperando di poter essere utile a chiunque senta di avere una storia da raccontare ma non sa da quale parte iniziare.

Lo storytelling è un argomento che mi appassiona tantissimo sia come lettrice che come bookblogger, perché conoscere e comprendere le tecniche e le macrostrutture che sono alla base di ogni produzione letteraria (ma anche cinematografica) fornisce gli strumenti per apprezzare il reale valore di un’opera.

Ogni lunedì darò una “pillola” di storytelling partendo da un testo specifico.

Il mondo dei manuali di scrittura è davvero infinito, quello che voglio fare è provare ad indicare un possibile percorso di lettura che passi attraverso la manualistica classica (per chi già più esperto, Il viaggio dell’eroe di Vogler per esempio, pietra miliare per chiunque si approcci alla scrittura e di cui parlerò nei prossimi post della rubrica) ma anche, come nel caso di oggi, testi più recenti e, a mio avviso, molto completi, precisi e di facile lettura.

Inizio con Il grande libro della scrittura. Manuale pratico, avventuroso, e filosofico per scrivere qualsiasi storia, edizione il Saggiatore (2020), di Marco Franzoso perché davvero rappresenta un perfetto lavoro di sintesi, rielaborazione e innovazione rispetto al tema della costruzione di una storia e di un romanzo.

Dalle prime pagine di questo bellissimo testo prendo il primo consiglio di scrittura che trovo molto utile per chi aspiri a diventare un autore.

La prima pillola è la Regola delle 25 parole.

Per quanto possa suonare insolito un buon romanzo si può riassumere tranquillamente in 25 parole, non di più.

Per esempio “la giornata di un uomo normale è rivivere nel quotidiano le tappe di un’Odissea contemporanea.”

Lo hai riconosciuto? È l’Ulisse di James Joyce!

Qualsiasi storia tu abbia in mente, dopo averne scritto una breve sinossi (parleremo anche di questo più avanti) prima ancora di pensare all’intreccio, al carattere dei singoli personaggi o alle scene, prova a riassumere la trama rimanendo entro le 25 parole.

Se ci riesci, significa che la storia sta in piedi! Altrimenti non hai bene in mente il punto di partenza e quello di arrivo della tua narrazione.

Prova e riprova fino a quando la frase fila senza intoppi, quando sarai soddisfatto puoi iniziare a scrivere tutto il resto. Facile no? Diciamo che è più facile a dirsi che a farsi, ma è solo iniziando a scrivere che capirai quello che sto dicendo.

Il grande libro della scrittura è un manuale completo, che tratta del processo di scrittura dalla fase iniziale di individuazione dell’idea che fa da traino alla storia, fino all’editing del romanzo e alla vita dello scrittore, in bilico fra il sacro fuoco e le frustrazioni del quotidiano.

Un libro che pulsa di vita e di amore per la scrittura, non semplice elencazione di tecniche e autori, con moltissimi esempi presi dalla grande narrativa mondiale.

Un testo essenziale per chi voglia iniziare a esplorare il mondo della scrittura, ma anche per l’autore esperto che sente di dovere approfondire e affinare la propria tecnica.

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Paola Cavioni

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Panoramiche di marzo

Aspettando la primavera:

  • Una vita per l’arte, di Peggy Guggenheim, Rizzoli Editore (1979)
  • Revolutionary Road, di Richard Yates, Minimum Fax (1961)
  • Il terzo uomo sulla luna, di Francesco Gazzè, Dalai Editore (2002)
  • Quando l’amore nasce in libreria, di Veronica Henry, Garzanti Editore (2017)
  • Ciò che inferno non è, di Alessandro D’Avenia, Mondadori (2014)

marzo

Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare – P.Coelho

C’è una piccola libreria dove si respira profumo di favole e di sogni che si realizzano.

C’è un piccolo angolo di pace dove i piccoli adulti di domani possono imparare ad amare il mondo dei libri, delle storie antiche e moderne, sperimentare esperienze nuove e coinvolgenti.

C’è un’oasi di tranquillità dove ad accoglierti c’è il sorriso di una giovane e coraggiosa libraia, Mariangela, che da sola ha saputo realizzare il suo sogno, con la S maiuscola, in un mondo che ha sempre meno tempo di leggere e ancora meno tempo per apprezzare la vera bellezza e l’emozione di perdersi nelle pagine di un libro.

Il sogno è quello di aprire una libreria indipendente e questo posto magico si chiama Favole a Merenda.

Siamo a Mirabello di Pavia, piccolo comune sorto all’interno di quel vastissimo parco che, negli anni fra il 1300 e il 1500, dal Castello di Pavia arrivava fino alla Certosa, parco di caccia di proprietà della famiglia Visconti prima e degli Sforza poi.

Favole a Merenda è una libreria nata nel 2011, interamente dedicata al mondo dei bambini, dai 3 ai 13 anni e a tutti quelli che bambini lo sono rimasti dentro.

Tutto è a misura di bambino, dalla selezione dei libri alle proposte educative. L’emozione che si prova ad entrare in un posto così però è per tutti. E non ci sono solo i libri. Si organizzano anche pomeriggi creativi e percorsi a tema: sull’arte, sui colori, sulle feste.

Dai classici a Geronimo Stilton, dai manuali creativi alle storie di Harry Potter, non manca niente.

Voglio credere che ci siano ancora tanti bambini e tanti genitori che apprezzino di più i viaggi di Ulisse, la storia di Jo March e delle sue sorelle, le follie del Cappellaio Matto piuttosto che i giochi della playstation che ti obbligano a non pensare.

Grazie Mariangela per il lavoro che fai. Grazie per il tuo sogno.

Grazie perchè ci permetti  di non abbandonare mai il mondo delle favole.

 

Per info: Favole a merenda, di Mariangela Ferrari, via Mirabello 338 (Pavia).

Tel. 0382 468958; favoleamerenda@virgilio.it

 

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