Righe su “Canto della pianura” di Kent Haruf

Well, my sense of humanity has gone down the drain

Well, my sense of humanity has gone down the drain

Behind every beautiful thing there’s been some kind of pain

She wrote me a letter and she wrote it so kind

She put down in writin’ what was in her mind

I just don’t see why I should even care

It’s not dark yet but it’s gettin’ there

(Bene, la mia umanità è andata nella fogna

Dietro ogni cosa bella, c’è sempre qualche tipo di dolore

Lei mi ha scritto una lettera ed era così dolce

Nelle parole ha messo tutto quello che aveva in testa

Ma perché tutto questo dovrebbe importarmi?

Non è ancora buio, ma lo sarà fra poco)


Not dark yet, Bob Dylan

Canto della pianura (Plainsong, Enne Enne Editore, 2015. Traduzione di Fabio Cremonesi)

Meno di un mese fa ho condiviso sul blog la recensione di La strada di casa.

Oggi torno a parlarvi nuovamente di Kent Haruf con il secondo romanzo della Trilogia della Pianura (il primo è Benedizione, il terzo Crepuscolo, e lo so che non sto andando in ordine ma come dice Karl Kraus “Ben venga il caos, perché l’ordine non ha mai funzionato”)

Il magnifico Canto della pianura è del 1999 e consacra definitivamente il suo autore nell’olimpo della grande letteratura americana, accanto a nomi come Hemingway, Faulkner, Carver e Chandler, ai quali spesso Haruf viene paragonato.

Un libro che è realmente un canto, un romanzo corale ambientato nella tanto amata Holt, che se seppur non esista sembra di vederla sulla cartina, proprio lì accanto a Denver, nell’America che più rurale di così non si può.

Canto della pianura all’interno della Trilogia è il libro dedicato al tema della nascita: un viaggio lungo nove mesi in cui ci accompagnano Tom Guthrie con i figli Ike e Bobby, Vittoria Roubideaux che si trova a dovere affrontare una gravidanza in età adolescenziale, senza un compagno, o meglio con un ex fidanzato che non si può proprio definire un gentiluomo, e con la madre che la caccia di casa, i due anziani fratelli McPheron che sono chiamati ad un compito molto lontano dalla loro natura solitaria e schiva, e poi ci sono Ella, Maggie Jones e gli altri che si muovono sullo sfondo.  

La trama è tutta qua, uno spaccato di nove mesi o poco più nelle vite di un gruppo di persone di Holt che affrontano i problemi del quotidiano: matrimoni che finiscono e figli da crescere, adolescenti difficili, bambini che scoprono come si nasce e come si muore, ragazzine che diventano donne pur non essendo mai state del tutto amate come figlie.

Kent Haruf è un maestro nella tessitura di trame che si intrecciano solo al momento giusto, non un minuto prima; ci fa scorrere sotto agli occhi le vite dei personaggi che alla fine in un modo o nell’altro si ricongiungono, ognuna con le proprie ferite più o meno rimarginate.

E poi quello stile inconfondibile nei dialoghi, che seppure non sono mai indicati dalle virgolette non affogano nel resto del testo. I protagonisti prendono davvero la parola, la vita e si animano davanti al lettore.

Canto della pianura è un fiume in piena, un film che non si può smettere di guardare, idealmente da leggere senza soluzione di continuità.  

Ho terminato la lettura di questo romanzo con le lacrime agli occhi e l’ammirazione sempre più grande nei confronti di un autore che forse ci ha lasciato orfani troppo presto, a poco più di settant’anni nel 2014, che avrebbe potuto regalarci ancora tanta emozione e tanta vita fra le pagine dei suoi libri.

Chiudo con due parole sul lavoro di traduzione di Fabio Cremonesi, che è la voce italiana di Haruf. Chi leggerà il libro si renderà conto, almeno in un paio di occasioni, di quanto possa essere stato difficile rendere in italiano dei termini tecnici legati alla vita rurale, senza però perdere nulla della potenza di quelle particolari scene (che non vi anticipo perché dovete “godervele” in tutto e per tutto). Quindi chapeau, Fabio Cremonesi.

Paola Cavioni

I romanzi di Kent Haruf si possono acquistare anche su Amazon, clicca sul titolo del romanzo per andare direttamente al negozio dal link affiliazione di Righe di Arte:

Leggi la recensione di La strada di casa cliccando QUI.

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Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

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Un commento a La bella di Lodi, di Alberto Arbasino

“Le ragazze di Lodi, grandi, belle, con la loro pelle splendida e un appetito da uomo, quando son dritte possono essere molto più forti di quelle di Milano.”

La bella di Lodi, edizione Adelphi 2002

La bella di Lodi di Alberto Arbasino (Voghera , 22 gennaio 1930 – Milano, 22 marzo 2020) viene pubblicato per la prima volta nel febbraio del 1961 come racconto in due puntate, un rimando ai romanzi d’appendice francesi del XIX secolo, sul settimanale Il Mondo.

Nel 1963 La bella di Lodi diventa un film, alla regia Mario Missiroli e una giovanissima Amanda Sandrelli per protagonista. Il romanzo viene pubblicato, in un’edizione rivista e ampliata, una prima volta nel 1972 da Einaudi, e una seconda nel 2002 da Adelphi, edizione in cui la Sandrelli campeggia in copertina in tutta la sua bellezza tanto provocante quanto raffinata.

L’incipit del romanzo, l’amicizia che lega l’autore con Ennio Flaiano (redattore capo di Il Mondo e sceneggiatore), la sua pubblicazione su un settimanale che era la voce dell’ideologia borghese e laica del secondo dopoguerra e la sua immediata trasposizione cinematografica: questi elementi insieme sono già una dichiarazione d’intenti e un’anticipazione su quello che il romanzo rappresenta a livello stilistico e di messa in scena, con poca mediazione, della società dell’Italia settentrionale negli anni del boom economico, le cui caratteristiche sono disseminate qua e là lungo tutta la trama, con rimandi alla musica, alle automobili, alla cultura dei primi anni ’60.

La bella è Roberta, giovane lodigiana appartenente alla ricca borghesia rurale, orfana di entrambi i genitori, che gestisce l’azienda di famiglia insieme alla nonna e ad un indolente fratello, Sandro, a cui è molto legata e he si atteggia a dandy di provincia.

Una dichiarazione d’intenti nell’incipit, dicevamo, che anticipa quella misoginia latente presente in tutto il romanzo che, a discapito del titolo e nella cornice di una storia che racconta una gestione matrilineare dell’azienda di famiglia, fa capire chiaramente al lettore che ci muoviamo nel contesto di una società ancora maschilista, che non tollera lo scandalo, la società del matrimonio riparatore e del pettegolezzo contenuto dietro i ventagli delle signore in chiesa.

Il titolo e il Capitolo Primo introducono  appunto al contesto sociale e culturale in cui si svolge la vicenda, a partire da Lodi, anche se in realtà la storia scorre su più “set”, la maggior parte dei quali sono spazi aperti: strade, autostrade, autogrill, la spiaggia di Forte dei Marmi dove avviene il primo incontro di Roberta con Franco, l’altro protagonista del romanzo, oggetto di amore e odio da parte della bella.

Franco, uomo dalla dubbia identità: meccanico, proletario, guitto, inetto, furfante e galeotto. E forse non si chiama neanche Franco.

Si possono individuare due momenti, due scintille che fanno partire l’azione della storia, che travolge Roberta come una valanga: il primo momento è l’incontro della donna con Franco. I due giovani, che non sappiamo quale età abbiano, dopo una breve fase di “avvicinamento” fanno sesso e alla mattina dopo Franco scompare, insieme a diversi beni di valore di Roberta che però sceglie di non denunciarlo.

La seconda scintilla si può collocare poco prima dei festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario di matrimonio dei nonni di Roberta, quando Sandro intercetta una lettera che Franco ha spedito alla sorella e la convince a incontrarlo ancora, ma per farlo arrestare.

Se la voce narrante lungo tutto il romanzo è quella di un narratore esterno, a volte onnisciente a volte invece che si sovrappone al punto di vista di uno dei personaggi, c’è un Intervallo in cui è Sandro che parla, che racconta la sua versione dei fatti e chiarisce alcuni punti oscuri della vicenda, oltre a rovesciare addosso tutto il disprezzo che prova nei confronti di Franco, tanto da sperare che muoia in un incidente automobilistico.

Dalle parole di Sandro sappiamo che Franco ha in realtà una compagna e che torna da Roberta solo quando ha finito di spendere tutti i soldi che le aveva rubato alla fine del loro primo incontro.  

Ma i piani non vanno esattamente come Sandro spera perché la sorella, dopo avere fatto arrestare Franco, lo cerca ancora e, una volta uscito di prigione, si unisce al suo gruppo di guitti e inizia a recitare per l’Italia. Qui abbiamo l’unico riferimento temporale sicuro di tutto il romanzo: l’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, che fissa con sicurezza lo svolgimento dei fatti nel 1961.

Roberta, Sandro, Franco. Ma quali sono gli altri protagonisti di questo romanzo? Si possono distinguere due tipologie di personaggi: ci sono personaggi principali, il trio formato da Roberta, Sandro e Franco, attorno ai quali la storia è costruita. Ma c’è anche tutta una serie di personaggi secondari che si muovono sullo sfondo (le vere “ombre vivaci sullo sfondo”) che rappresentano una sorta di coro come nel teatro greco: i nonni di Roberta e Sandro, i genitori di cui non sappiamo nulla se non che sono morti (e chissà cosa direbbero davanti ai comportamenti della figlia), gli amici,  i genitori di Franco, la coppia che aiuta Roberta quando Franco la aggredisce, la zia Giuseppina e lo zio Cesare, i guitti della compagnia teatrale cui Roberta si unisce per un periodo.

Tutti questi personaggi secondari parlano con le loro azioni, senza alcuna caratterizzazione psicologica, anche la nonna che è il vero deus ex machina della vicenda, colei che ne decide di fatto la conclusione.

Nel gruppo di amici, Giorgio merita qualche parola a parte. Forse antagonista di Franco, il giovane, sicuramente di buona famiglia, ha un rapporto così intimo e speciale con Sandro da fare quasi pensare che i due siano una coppia di amanti, più che amici, e che la vicinanza a Roberta non sia altro che un pretesto per i due giovani per stare insieme in un momento storico in cui sicuramente l’omosessualità non era ancora socialmente accettata, così come la libertà sessuale per le donne.

Dal punto di vista della lingua e dello stile, La bella di Lodi sembra pensato per diventare sceneggiatura, con una scrittura che suggerisce immagini, periodi studiati come partiture musicali che puntano a rendere azioni e descrivere ambientazioni come fossero scenografie, e dialoghi che più che esplorare la condizione psicologica dei protagonisti o dare informazioni aggiuntive, come vorrebbero i manuali di scrittura creativa, sono pura e semplice trasposizione del parlato, anche sotto forma di discorso indiretto libero. 

Dai dialoghi emerge con forza la cadenza settentrionale dei protagonisti (quei arda o ciavete per esempio, disseminati qua e là) tranne Franco che forse tradisce una provenienza meridionale, non confermata dall’autore.

Uno stile diretto, neorealistico, senza filtro alcuno, con la descrizione di scene di sesso che sono a volte disturbanti anche per lo smaliziato lettore contemporaneo, quindi si può solo immaginare l’effetto sul pubblico degli anni ’60 o ’70.

Quello che rimane terminata la lettura di La bella di Lodi è una sensazione di stordimento, di storia senza lieto fine, che vede in Roberta e Franco due moderni Romeo e Giulietta la cui fine non coincide con la morte ma, per assurdo, con il matrimonio.

Bibliografia:

Come ombre vivaci sullo sfondo, di Federico Della Corte (Libreria Universitaria Edizioni, 2014)

Paola Cavioni

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“Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare” (F. De Andrè) righe su Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro

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Quel che resta del giorno (Einaudi, 1989) di Kazuo Ishiguro

Traduzione di Maria Antonietta Saracino

Il viaggio.

Un viaggio può diventare occasione di profonda riflessione sulla propria esistenza, sul senso del proprio presente e su come influenzare gli avvenimenti futuri, per quanto sia umanamente possibile. Il viaggio può diventare un momento di intimo confronto con i propri valori, ideali e aspirazioni. Lo sa bene chi ha fatto almeno una volta nella vita un lungo viaggio, soprattutto se da solo.

Un cammino che può assumere un significato catartico, dove per catarsi si intende un momento di purificazione, di abbandono di tutti i rancori e di distacco da tutti gli eventi traumatici subiti nella vita.

Per questo un famoso proverbio cinese dice che chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita. Anche se, come vedremo, il protagonista del romanzo di Ishiguro fa di tutto per opporsi a questo cambiamento, che è insito nella natura umana e che consente la sopravvivenza di tutti gli esseri viventi.

Il viaggio è proprio il leitmotiv del romanzo Quel che resta del giorno.

Viaggio che non è altro che una lunga metafora della vita, con particolare riflessione sulla sera della propria esistenza, per chi ha il privilegio di poter invecchiare.

Ma di cosa parla Quel che resta del giorno?

La storia.

L’idea centrale del romanzo di per sé è molto semplice: siamo in Inghilterra nel 1956 e Mr Stevens, maggiordomo di mezza età in servizio presso la dimora signorile Darlington Hall, passata dopo la guerra all’americano Mr Farraday, si prende una settimana di ferie per fare un viaggio ad ovest del paese. Più che un viaggio, una “spedizione” come lui stesso la definisce.

La sua destinazione è Weymouth nel Dorset, contea situata a sudovest del paese, sia per visitare alcuni dei luoghi contenuti nella guida Le meraviglie dell’Inghilterra di Mrs Symons, sia per raggiungere una sua vecchia conoscenza, miss Kenton, che vent’anni prima era stata la governante di Lord Darlington e quindi collega di Stevens.

In realtà il viaggio e il romanzo stesso ruotano attorno alla preparazione a questo incontro dato che, si scoprirà dai dettagli disseminati qua e là nella narrazione, la relazione fra il rigido maggiordomo e la governante non è solo di tipo professionale. Ma non voglio sminuire il rapporto fra i due liquidandolo solo come la classica storia d’amore fra colleghi che passando le giornate spalla a spalla finiscono con l’innamorarsi, perché in realtà è molto di più.

L’affinità fra Stevens e miss Kenton è l’attrazione dei poli opposti. Lui così ligio al dovere, rigido, conservatore e difensore di un mondo classista che sta per distruggersi a seguito delle bombe della seconda guerra mondiale. Lei così coraggiosa e dirompente, pur nella compostezza prevista dal suo ruolo. Così viva.

E’ con questo suo carattere così deciso che Mis Kenton riesce piano piano a scalfire la corazza di Stevens, anche se lui non ammette mai neanche a sé stesso di provare un sentimento per la giovane donna e, anzi, sublimando questo affetto trattenuto con la lettura solitaria di romanzi d’amore.

Non solo di viaggio quindi parla questo romanzo, ma anche del sentimento che più di tutti muove le esistenze: l’amore.

Quel che resta del giorno è la storia di un amore che riesce a durare oltre vent’anni senza consumarsi mai e quindi senza spegnersi con l’usura dell’abitudine.

C’è poi un altro tema ricorrente nel romanzo, ovvero quello della dignità, concetto sul quale Stevens si sofferma più volte nel corso dei suoi pensieri e nei discorsi con colleghi e conoscenti.

La dignità è quella che Stevens riesce a dimostrare ogni giorno affrontando il suo lavoro con abnegazione, rifacendosi ad un modello astratto e quasi irrealistico di “maggiordomo ideale”. Il fedele servitore che rimane sullo sfondo mentre il suo signore prende parte alle decisioni che causeranno i grandi svolgimenti in Europa fra gli anni ’20 e la fine della seconda guerra mondiale, schierandosi purtroppo dalla parte dei perdenti. La sua è la dignità di chi ha scelto una strada ed è disposto a difenderla fino alla fine, che è poi lo stesso sentimento che anima il samurai che strenuamente difende il padrone anche a costo della propria vita. Da questo punto di vista Quel che resta del giorno ci mostra tutto il retaggio di cultura giapponese di Kazuo Ishiguro, nato a Nagasaki nel 1954 ma che ha da sempre scritto in inglese dato che vive in Inghilterra dall’età di sei anni.

“Non si fa altro che semplicemente accettare un’inevitabile verità: e cioè che persone come voi ed io non saremo mai in condizione di capire i grandi problemi del mondo di oggi, e pertanto la nostra migliore linea di condotta sarà sempre quella di riporre la nostra fiducia in un padrone che giudichiamo saggio e degno di stima, e dedicare le nostre energie al compito di servirlo al meglio delle nostre capacità.”

C’è anche la dignità di Miss Kenton, che si manifesta in tutta la sua forza quando ferocemente si oppone al licenziamento di due cameriere ebree nel momento in cui Lord Darlington, avvicinatosi al pensiero nazista, vuole adeguarsi alle leggi razziali per è compiacere i suoi ospiti, ambasciatori della Germania di Hitler. Ed è sempre la dignità e il suo amor proprio che la spingono poi ad abbandonare Darlington Hall, sposando un pretendente, quando capisce che il maggiordomo non cederà mai al suo sentimento in favore di un ideale che ritiene al di sopra di tutto: quello del servizio al proprio padrone. Un padrone però dalla morale discutibile.

Rimane il fatto che la dignità è semplicemente il rispetto che l’uomo deve a sé stesso, e che gli è dovuto, semplicemente in quanto essere umano, a prescindere dalla propria condizione sociale.

“La dignità non è cosa riservata ai signori.”

Lo stile.

La cosa che più colpisce, a mio parere, nella scrittura di Ishiguroè l’utilizzo così perfetto, all’interno della narrazione, dei flashback, che formano un puzzle di informazioni che nel suo insieme ci restituisce tutta la storia, che solo alla fine ci scorre davanti agli occhi. Questi accorgimenti narrativi sono stati riprodotti quasi fedelmente anche nella sceneggiatura del film diretto da James Ivory nel 1993 e tratto proprio da Quel che resta del giorno. Non posso che invitare tutti coloro che hanno apprezzato e che apprezzeranno il romanzo a vederne anche la trasposizione cinematografica con un immenso Anthony Hopkins, che sembra nato per vestire i panni del inflessibile Mr Stevens.

C’è ancora una caratteristica dello stile di questo romanzo che mi ha molto colpita. Ishiguro, premio nobel per la letteratura nel 2017, discostandosi da una delle regole base della scrittura, ovvero “show don’t tell” (mostra, non raccontare), riesce a catturare il lettore per interi paragrafi descrivendo solo ed esclusivamente i pensieri del maggiordomo, senza risultare mai incomprensibile o pesante.

Alla fine del romanzo quel che resta, questa volta al lettore, della figura di Stevens e come riflessione in generale sulla vita, è l’immagine di un uomo che vive la sua esistenza quasi come uno spettatore e mai da protagonista, forse per paura di soffrire. Ma in questo modo non vivendo mai fino in fondo.

Un uomo che prova a non cambiare mai barricandosi nelle sue abitudini e convinzioni, anche se all’esterno di lui e nel mondo tutto inesorabilmente cambia.

Paola Cavioni