Serendipity. In cerca della meraviglia che non cercavo

“La vita è ciò che ti accade mentre fai altri progetti”

John Lennon

Qualche giorno fa, tornando dal lavoro, ero in metropolitana nel solito tratto tra l’ufficio e il parcheggio milanese dove lascio l’auto alla mattina.

Come spesso capita a chi prende quotidianamente mezzi di trasporto, ero presente fisicamente ma non “realmente”: in piedi in mezzo alla folla, con la mente sui pensieri in sospeso — cose da fare, figli, casa, appuntamenti da confermare.

Alla fermata di Duomo sono riuscita a sedermi, non avevo con me nulla da leggere e non mi andava di prendere ancora in mano il cellulare dopo una giornata passata al pc.

A quella stessa fermata è salita una coppia sulla settantina che si è seduta proprio di fronte a me.

Lui e lei. Eleganti ma senza essere fuori luogo, vestiti quasi uguali: entrambi giacca in camoscio e pantaloni color sabbia.

Non ho capito se fossero turisti o no perché da quella distanza e in mezzo al frastuono di centinaia di altre voci non sentivo in che lingua parlassero.

Ma non sarebbero comunque state le loro a colpirmi e restarmi impresse.

Lei, bellissima nel suo tempo non più giovanile, portava i capelli bianchi con una grazia semplice, lunghi fino alle spalle, viso senza un filo di trucco ma meraviglioso in ogni ruga d’espressione o d’età. Lui brizzolato, fisico asciutto.

Per tutto il tempo del viaggio lei ha tenuto la testa sulla spalla di lui, e di tanto in tanto allungava il collo per lasciargli un bacio sulla guancia, con quella leggerezza e intimità che solo chi ama conosce e riconosce negli altri. Ogni tanto sembrava che si avvicinasse al suo collo per annusarne profumo.

Lui di contro l’ha tenuta per mano tutto il tempo. Sempre.

Due ragazzini nel corpo di due adulti fatti e finiti.

Può far sorridere, ma è stato uno dei momenti più belli della mia giornata, sono scesa dalla metropolitana leggera, quasi anche io riempita di quell’amore che due sconosciuti si stavano scambiando nei loro semplici gesti di complicità.

Quella scena, breve e forse per molti anche insignificante, mi ha aperto il cuore perché mi ha ricordato che la vita non si svela sempre nei grandi eventi, ma nei dettagli che sfuggono se siamo troppo concentrati a guardare avanti.

Serendipity.

Serendipità in italiano, è “la capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi d’indagine.

In pratica è trovare qualcosa di bello o utile per caso, mentre si cerca tutt’altro.

Io in metropolitana non stavo cercando nulla a dire la verità, ma mi sono trovata davanti un’immagine che mi ha fatto tornare alla mente il famoso quadro Il bacio di Hayez in versione moderna ma senza tempo.

Viviamo inseguendo mete, orari, obiettivi scritti per noi da altri, in elenchi puntati sempre più lunghi.

Ma la verità è che spesso la vita accade altrove e ci passa accanto. E ogni tanto ci ricorda con prepotenza tutta la bellezza di quel sentimento universale che è l’amore.

Serendipity.

Accade nei margini, nei momenti non previsti, in quello sguardo che incroci per caso e ti resta dentro.

È il dono inatteso di qualcosa che non stavamo cercando — ma che, forse, stava cercando noi, come quei gesti d’amore su un treno affollato di gente troppo occupata a tenere la mente occupata in mille cose inutili.

Serendipity.

Come il titolo del film, è un frammento di bellezza in una giornata qualunque.

E penso che se non possiamo programmare la meraviglia, forse possiamo allenarci a riconoscerla con un cuore più disponibile; vivere lasciando spazio all’inatteso.

E ogni tanto lasciandoci semplicemente sorprendere.

Paola Cavioni, 3 maggio 2025

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Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: voce narrante e focalizzazione nella narrativa

“La voce narrativa riguarda chi parla, mentre la focalizzazione riguarda chi vede: due domande essenziali per comprendere il funzionamento di ogni racconto.”

Gérard Genette


I giorni che precedono il Natale e il mese di dicembre rappresentano solitamente il periodo delle tradizioni ritrovate. Non mi riferisco in questo caso all’albero di Natale, che almeno a casa mia si fa rigorosamente l’8 dicembre, ma ai miei amati Lune-dì scrittura: quello spazio di Righe di arte dedicato al piacere di esplorare i meccanismi della narrazione. Piacere che per  un po’ (un bel po’) ho lasciato nel cassetto, ma che oggi riprendo con ritrovato entusiasmo.

Ti ricordi la professoressa di letteratura delle medie che con voce squillante e una dizione impeccabile, assegna il compito: “Brano a pagina 54: indica la voce narrante e specifica se è in prima persona o onnisciente”? Ecco, in questo lunedì affronto un aspetto che, ai tempi delle scuole medie, sembrava soltanto un esercizio noioso: individuare la voce narrante in una storia, e il concetto di focalizzazione in una storia. Spero in modo meno odioso della prof delle medie però.

Questi due concetti, insieme a quelli di fabula e intreccio e ai meccanismi narrativi di analessi (flashback) e prolessi (flashforward), costituiscono la base della teoria elaborata da Gérard Genette, teorico della narratologia, nel suo famoso saggio Discorso del racconto (Figure III, 1972).

Partiamo dalla voce narrante, elemento cruciale per comprendere a fondo un’opera letteraria, e anche elemento caratterizzante di molti capolavori della narrativa mondiale.

Ti immagi Il giovane Holden scritto in terza persona? Non suona per niente, vero?

Oppure Moby Dick che comincia con “Lo chiamano Ismaele” (sembra la parodia di “Lo chiamavano Trinità”)

Suonerebbero come delle forzature, un po’ come chiedere al buon Tolkien di tagliare qualche descrizione o a King di essere più sintetico.

Il punto di vista e la focalizzazione sono strumenti narrativi essenziali, veri e propri riflettori che l’autore punta su personaggi ed eventi per guidarci attraverso l’intreccio, creare suspense, dare tridimensionalità alla storia stessa. Una scelta che non è mai frutto del caso, lo sa bene chi ha frequentato coesi di scrittura creativa. È la chiave che plasma il racconto, anche se la maggior parte delle volte non ce ne rendiamo conto, rapiti dal meccanismo basico della sospensione dell’incredulità, dal suono delle parole, dalla bellezza o dalla forza dei personaggi.

Ma quanti sono i punti di vista nella narrativa? Le categorie principali sono tre, vediamole.

Narrazione in prima persona

O narrazione interna, dal punto di vista del protagonista o di un personaggio.

Serve ovviamente ad avvicina il lettore alla soggettività dell’esperienza. Romanzi appunto come Il giovane Holden di Salinger utilizzano questa tecnica per immergere il lettore nei pensieri più intimi dei protagonisti, amplificando emozioni e conflitti interiori. È la forma utilizzata nel diario, nell’autobiografia e nel romanzo epistolare. Memorie di Adriano, capolavoro della letteratura del Novecento, frutto di un lavoro quasi ventennale di Marguerite Yourcenar, è costruito come una riflessione intima e personale dell’imperatore romano e si presenta appunto come una narrazione in prima persona, in cui la voce narrante è uno degli elementi più affascinanti e significativi, in cui il protagonista, ormai prossimo alla morte, ripercorre la sua vita e le sue scelte politiche, filosofiche e spirituali.

Narrazione in seconda persona

Molto rara, ma esiste. Il caso più famoso è opera di un autore a me molto caro: Italo Calvino con il suo Se una notte d’inverno un viaggiatore. Devo ammettere che, proprio per la complessità legata al punto di vista narrativo, questo romanzo non rientra tra le mie opere preferite di Calvino (Italo perdonami). Tuttavia, resta affascinante per come coinvolge il lettore stesso, rendendolo protagonista della storia, rompendo la quarta parete e giocando abilmente con la metafiction.

Narrazione in terza persona

Qua le cose si fanno più articolate: il narratore può sapere tutto, vedere tutto e rivelare i pensieri e le azioni di qualsiasi personaggio. Questa scelta offre una visione globale della storia, permettendo una comprensione approfondita degli eventi e delle dinamiche tra i personaggi. Tuttavia, rischia di creare una certa distanza emotiva, poiché il lettore non si immedesima direttamente in un solo punto di vista, e potrebbe ridurre il gusto per i colpi di scena se gestita in modo troppo esplicito.

Una narrazione onnisciente può essere alternata a momenti di focalizzazione interna su singoli personaggi, bilanciando la prospettiva globale con un’immersione emotiva più profonda.

Un aspetto interessante della narrazione in terza persona è la possibilità di modulare il grado di focalizzazione, il secondo concetto di oggi e di cui parlerò nella seconda parte del post.

Narrazione con punto di vista multiplo

La narrazione con punto di vista multiplo è una tecnica che permette di raccontare la storia attraverso le prospettive di diversi personaggi, offrendo una visione sfaccettata della realtà. Autori come Virginia Woolf utilizzano questa tecnica per passare fluidamente da un personaggio all’altro, svelando prospettive diverse su uno stesso evento. Questo approccio riflette la complessità della percezione umana e sottolinea come ogni individuo interpreti la realtà in modo unico.

Ovviamente ogni scelta narrativa comporta vantaggi e rischi. Il punto di vista multiplo consente di arricchire la narrazione, aggiungendo profondità psicologica ai personaggi e offrendo una comprensione più completa della trama. Tuttavia, se non gestito con attenzione, può causare confusione nel lettore o frammentare il ritmo del racconto.

Uno degli aspetti più delicati di questa tecnica è decidere se ogni personaggio rappresenti un narratore attendibile o inattendibile. Un narratore attendibile offre una visione coerente e credibile degli eventi, mentre un narratore inattendibile, spesso influenzato da pregiudizi o limiti di comprensione, genera dubbi e suspense, costringendo il lettore a interrogarsi su ciò che è reale e cosa invece non lo è.

Focalizzazione: cosa vediamo?

La focalizzazione è una vera e propria regia narrativa: decide cosa mettere a fuoco e cosa lasciare nell’ombra, influenzando così la percezione del lettore. È un po’ come camminare in una galleria d’arte con una torcia: puoi vedere solo ciò che la luce illumina, e ogni dettaglio nascosto crea curiosità o tensione. Questa selettività non è solo uno strumento tecnico, ma un mezzo per costruire suspense, generare empatia o offrire una visione parziale che invita a indagare oltre.

Se la voce narrante risponde alla domanda chi racconta la storia, la focalizzazione si occupa di cosa viene raccontato. Gérard Genette, individua tre tipi principali di focalizzazione:

  1. Focalizzazione zero:
    Il narratore sa tutto, è una mente onnisciente, in grado di esplorare i pensieri, i sentimenti e i segreti di tutti i personaggi, così come di rivelare dettagli sull’ambientazione o anticipare eventi futuri, come accadeva nella maggior parte dei romanzi ottocenteschi dove l’autore ha un controllo assoluto sul mondo narrativo. Si tratta di un approccio che, se non gestito sapientemente può risultare pesante e togliere effetto sorpresa e immediatezza dell’esperienza.
  2. Focalizzazione interna:
    Con questa tecnica, il narratore vede e sa solo ciò che conosce un determinato personaggio. È il caso di La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano dove il mondo viene filtrato attraverso gli occhi dei due protagonisti Alice e Mattia. Questo tipo di focalizzazione crea un forte senso di immedesimazione, ma limita il lettore a una prospettiva parziale.
  3. Focalizzazione esterna:
    In questo caso, il narratore è un osservatore esterno e si limita a descrivere ciò che può essere visto o sentito dall’esterno, senza accedere ai pensieri o alle emozioni dei personaggi. Questo stile, tipico del minimalismo di autori come Kent Haruf, somiglia al punto di vista di una telecamera: registra azioni e dialoghi senza spiegare troppo, lasciando al lettore il compito di interpretare.

La scelta della focalizzazione non è mai neutrale: ha un impatto diretto sulle emozioni del lettore. La focalizzazione interna, ad esempio, può generare empatia e coinvolgimento, immergendo il lettore nei conflitti interiori di un personaggio. Al contrario, la focalizzazione esterna spesso crea un effetto di distacco, ma può anche accrescere il mistero o la tensione, poiché lascia in sospeso ciò che i personaggi pensano davvero. La focalizzazione zero, infine, trasmette un senso di controllo e chiarezza, ideale per storie epiche o corali, ma può risultare meno intensa dal punto di vista emotivo (e forse anche troppo scontata, bisogna sempre nascondere qualcosa al lettore…).

In definitiva, la focalizzazione è un ingrediente cruciale della narrazione, una lente che definisce non solo cosa il lettore vede, ma come lo vede. Saperla gestire significa avere il controllo dell’attenzione e delle emozioni del lettore, guidandolo attraverso la storia come un regista guida la sua telecamera in un film. E, come ogni grande regista che sapientemente muove una telecamera, un buon narratore sa che a volte è soprattutto ciò che non si mostra a fare la differenza.

In conclusione, chi vuole approcciarsi alla narrativa deve sapere che la scelta della voce narrante e la focalizzazione sono le prime e cruciali decisioni per affrontare la narrazione di un racconto o di un romanzo. È attraverso di loro che la storia prende forma, trasformandosi da semplice trama in un’esperienza complessa, stratificata, plurisensoriale. La vera magia della letteratura risiede qui, nel modo in cui ogni autore, con la sua “luna” di scrittura, ci mostra mondi nuovi attraverso occhi diversi, rendendoci partecipi del suo viaggio.

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Paola Cavioni, 2 dicembre 2024

Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: l’incipit

“Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza aspettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso errore.”

“Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all’epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro. Quando guarì e gli passarono i timori di dover smettere di giocare a rugby, Jem non ci pensò quasi più. Il braccio sinistro gli era rimasto un po’ più corto del destro; in piedi o camminando, il dorso della mano sinistra faceva un angolo retto con il corpo, e il pollice stava parallelo alla coscia, ma a Jem non importava un bel nulla; gli bastava poter continuare a giocare, poter passare o prendere il pallone al volo.”

“Naturalmente, un manoscritto. Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Don J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato di indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell’ordine benedettino. La dotta trouvaille (mia, terza dunque nel tempo) mi rallegrava mentre mi trovavo a Praga in attesa di una persona cara. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città. Riuscivo fortunosamente a raggiungere la frontiera austriaca a Linz, di lì mi portavo a Vienna dove mi ricongiungevo con la persona attesa, e insieme risalivamo il corso del Danubio.”

“Tutti parlavano del libro. Non potevo più camminare in pace per le strade di New York; non potevo più fare jogging nei vialetti di Central Park senza che qualche passante mi riconoscesse ed esclamasse: “Ehi, è Goldman! Lo scrittore!”. Capitava perfino che alcuni si mettessero a correre per seguirmi e farmi le domande che li assillavano […].”

“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.”

Li avete riconosciuti?

Sono cinque incipit di altrettanti famosi romanzi contemporanei (qualcuno più contemporaneo di altri).

In ordine abbiamo La casa degli spiriti di Isabel Allende, Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Il nome della rosa di Umberto Eco, La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker e Lolita di Vladimir Nabokov.

Partiamo dalla definizione, cos’e un incipit?

Il vocabolario dell’italiano contemporaneo Devoto-Oli lo definisce sinteticamente come “inizio di un’opera letteraria, di uno spettacolo o di un programma televisivo”.

In letteratura per incipit si intende una frase, o più,  di apertura, che può anche non coincidere con l’inizio della storia dal punto di vista cronologico.

“Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione”.

Oscar Wilde

A cosa serve l’incipit?

In un romanzo l’incipit svolge diverse funzioni.

La prima è quella di attirare l’attenzione del fruitore dell’opera, del lettore quindi, come una sorte di esca.

La seconda, fondamentale, è quella d’introduzione all’universo narrativo del racconto.

Dalle prime frasi si può comprendere lo stile dell’autore, l’atmosfera in cui si svolge la storia; viene introdotta la voce narrante (che può anche cambiare nel corso della storia) o elementi che ritorneranno nella narrazione.

Ecco quindi che Isabel Allende introduce uno dei personaggi chiave del suo primo romanzo, Clara, insieme ad una importante anticipazione: Clara prima o poi diventerà muta.

Se vogliamo scoprire perché, dobbiamo proseguire con la lettura.

Harper Lee preferisce presentarci i protagonisti della sua storia: la voce narrante della piccola Scout, che ci parla del fratello Jem, del quale veniamo a sapere che a tredici anni si rompe un braccio, ma non conosciamo ancora il motivo…

Il nome della rosa di Umberto Eco inizia in realtà con tre incipit diversi: una finta introduzione, un prologo e l’inizio vero e proprio della storia nel Primo Giorno. Quello riportato è solo uno dei tre. Una tecnica particolare che in questo caso crea una certa aria di solennità che aleggia attorno alla storia già dalle prime pagine.  

Joël Dicker introduce il leitmotiv che accompagna tutto la storia: il suo libro. Di quale libro stiamo parlando e perché la gente ne sia così incuriosita? Anche in questo caso lo scopriremo solo alla fine. Stiamo abboccando all’amo e ancora non lo sappiamo.  

Nabokov infine con l’incipit di Lolita, famosissimo e citato spesso nei corsi di letteratura, con la sua ripetitività fa comprendere senza ombra di dubbio quando Humbert Humbert sia ossessionato dall’adolescente che da il titolo al romanzo.

L’incipit può anche coincidere con il prologo della storia che si definisce come “un’introduzione che differisce dal resto della storia per tempo, spazio o punto di vista (o tutti e tre assieme) e crea attese e curiosità per gli eventi futuri” (J.P. Morrell).

Esiste una formula per l’incipit perfetto? Ovviamente no.

È necessario provare e riprovare, andare anche per tentativi, scrivere e riscrivere. Un consiglio da manuale di scrittura creativa è però quello di non avere fretta di svelare troppi particolari, creare curiosità nel lettore senza però raccontare tutto subito.

L’incipit può essere una mano che ci accompagna dolcemente verso un nuovo viaggio oppure uno schiaffo che risveglia la coscienza e la curiosità.

È talmente importante che alcuni autori lo scrivono quando hanno terminato il romanzo.

Se è pur vero che ci sono anche storie che necessitano del tempo per carburare e diventare coinvolgenti, un buon incipit deve avere la caratteristica di non lasciare indifferenti.

Deve essere memorabile.

Se volete scoprire una selezione degli incipit più famosi della letteratura di ogni tempo potete visitare il sito web www.incipitario.com.

Pensate che il sito contiene gli incipit di oltre cinquemila opere di quasi duemila autori italiani e stranieri.

Un bacino davvero infinito di spunti di ispirazione per ogni aspirante autore, per trovare il proprio stile e scrivere un incipit indimenticabile.

Paola Cavioni

Per leggere tutte le Pillole di storytelling del lunedì clicca sul menù alla voce Lune-dì Scrittura e scorri la pagina per leggere tutti i post precedenti.

Bibliografia:

  • Isabel Allende, La casa degli spiriti (Feltrinelli Editore, 1982)
  • Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani, 2013)
  • Umberto Eco, Il nome della rosa (Bompiani/RCS, 1980)
  • Il buio oltre la siepe, Harper Lee (Feltrinelli editore, 1962)
  • Lolita, Vladimir Nabokov (1955)
  • Nuovo Devoto – Oli, Vocabolario dell’italiano contemporaneo
  • Jessica Page Morrell, Master in scrittura creativa (Dino Audino Editore, 2007)

Ciao e benvenuto/a!

Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

L’altra mia più grande passione? Che domanda, i libri! Su Righediarte trovi tante recensioni di libri, senza un ordine preciso perché amo spaziare in ogni ambito della narrativa.

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Il tema delle medie

“Su una curva lungo il viaggio dei tuoi giorni
Capirai che la versione dei ricordi
È polvere sul cuore da soffiare via”

(La mia versione dei ricordi, Francesco Gabbani)

Frugando fra le carte a casa dei miei genitori ho trovato un tesoro.

Una cartelletta un po’ sciupata che gelosamente conservava le brutte copie di una quindicina di miei temi.

Compiti in classe che portano la data del 1998, quando ero alle scuole medie e avevo la professoressa Daniela per letteratura e storia. Daniela era la classica professoressa che incuteva timore e riverenza. Perché lei non si accontentava della mediocrità: spingeva sempre i suoi studenti a dare il massimo delle loro possibilità. E aveva ragione.

È la professoressa che ora vorrei per i miei figli, anche se all’epoca non lo avrei detto neanche sotto tortura.

In alcuni di questi fogli la calligrafia è curata e precisa, in altri frettolosa e disordinata. I contrasti tipici dell’adolescenza, di chi ha ancora un piede nell’infanzia e un altro nella vita adulta.

A ripensarci ora, gli anni migliori della mia vita, anche se alle medie ero una ragazzina timida, introversa, con l’insicurezza di chi non riesce ancora a convivere con il proprio corpo e la testa proiettata in avanti.  

Ho riletto tutti i temi con un misto d’imbarazzo e nostalgia, come se stessi parlando con la me di oltre vent’anni fa, con le pagine di un diario senza logica, dato che nelle brutte copie non ho riportato la consegna del compito.

E penso, come sarà rileggere queste righe fra altri vent’anni?

A tredici anni scrivevo: “io mi auguro che valori quali l’amore per la vita, l’impegno e il sapersi proporre come modelli positivi siano ancora condivisibili da tutti. La società non potrebbe andare avanti se alcuni non credessero fermamente in questi principi. Personalmente ritengo che la vita sia un dono e come tale vada rispettata.”

A quasi trentasei anni, per fortuna non ho cambiato idea, almeno su questo.

Sfoglio queste pagine e leggo che in alcuni temi ci veniva chiesto di parlare di cosa avremmo voluto fare “da grandi”, quali erano i nostri progetti per il futuro. E lì uscivano i desideri più assurdi, ma anche più veri.

Alcuni di questi temo che ormai rimarranno solo desideri (volevo diventare la più grande fumettista del mondo. Non lo diventerò mai, ma almeno non ho perso la voglia di disegnare). Altri mi hanno fatto tornare alla mente progetti che non devo assolutamente abbandonare, come visitare il Canada, non appena il mio portafoglio me lo permetterà.

E poi ho ricordato anche l’ansia che provavo ogni volta prima dell’inizio del compito in classe, quella paura dell’incertezza. Quale sarebbe stata la consegna? Sarei stata capace di scrivere come volevo?

Avrei trovato le parole?

Ora invece provo solo tanta tenerezza per queste pagine così piene di vita e di desideri.

Chissà, forse un giorno da uno di questi temi che sono sbucati come tanti regali inaspettati riuscirò a tirare fuori un racconto che dedicherò alla professoressa Daniela, come quella storia che mi aveva fatto leggere ad alta voce in classe perché le era tanto piaciuta.  

Da queste righe scritte a mano però, oggi, ho capito una cosa.

Che il tempo che passa e i pensieri dell’età adulta non devono mai spegnere la voglia di esplorare e di esplorarsi, di volare con la fantasia lasciando, se occorre, la coerenza da parte.

Voi ve li ricordate i temi della scuola?

Paola Cavioni

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“Trilogia di New York” di Paul Auster e la scrittura perfetta

“I libri vanno letti con la stessa cura e la stessa riservatezza con cui sono stati scritti.”

Paul Auster

Paul Auster, La trilogia di New York, edito da Einaudi

Scrivere della Trilogia di New York mi ha messo in difficoltà. Più che altro, mi ci è voluto parecchio tempo per mettere insieme le parole  più adatte in uno scritto degno dello stile di Paul Auster (o almeno ci provo)  per parlare di un libro che ho scoperto lo scorso settembre e che ho letto in un paio di giorni.

Per chi ama scrivere, come me, ogni lettura è fonte di miglioramento per affinare il proprio stile, ogni nuovo autore scoperto rappresenta un maestro da cui carpire tecniche e segreti. Leggere la Trilogia è un’illuminazione.

Perché la scrittura di Paul Auster è essenziale, asciutta, senza fronzoli. Niente di più, niente di meno. Perfetta.

Auster è un architetto delle parole, che costruisce periodi, psicologia dei personaggi, capitoli e intrecci, con la stessa pulizia ed eleganza delle architetture moderniste di Mies Van Der Rohe. Questo per quanto riguarda lo stile, perché il contenuto è un’altra storia… La Trilogia  infatti è una discesa negli inferi della vita frenetica e alienante della New York degli anni ’80, un’esplorazione dell’animo umano nelle sue tante sfaccettature fra nevrosi e follie.

Una scrittura diretta, ipnotica e allo stesso tempo ruvida, che ricorda molto lo stile di Charles Willeford. C’è infatti più di un’analogia fra i due autori. Una fra tutte è il richiamo al Walden di Henry David Thoreau, ma lascerò scoprire a voi tutti gli indizi e le somiglianze disseminati qua e là nelle opere e nelle biografie dei due scrittori americani.

Se non avete ancora letto Willeford, vi invito a farlo; so che invece Thoreau mette in difficoltà anche le menti più allenate alla lettura, ma conviene comunque provare a conoscerlo.

La Trilogia si compone di tre romanzi brevi: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa. La sua pubblicazione nella metà degli anni ‘80 consacra lo scrittore nell’olimpo della letteratura americana contemporanea, destinandolo all’immortalità.

Nella Trilogia ci sono più storie che si rincorrono e si chiudono una nell’altra come una matrioska, un libro nel libro, con i personaggi che sembrano richiamarsi gli uni con gli altri e moltiplicarsi. 

Tre romanzi che hanno protagonisti dall’identità confusa, che cambiano nome o che non lo hanno (Città di Vetro), che sono giochi di colori (Fantasmi), che scambiano la loro vita con quella di amici scomparsi (La stanza chiusa).

E ci sono anche altri elementi comuni in tutte e tre i racconti: la follia, i pedinamenti, il taccuino, la descrizione della vita dello scrittore spiantato. Nella Trilogia infatti c’è anche tanto della biografia dell’autore, come se avesse rotto in mille pezzi le sue esperienze personali come scrittore in cerca di fama, e le avesse disseminate qua e là nella trama.

I temi presenti nell’opera di Auster sono ricorrenti: la solitudine dell’uomo di città e la volontà di ritorno a una vita più ascetica e a contatto con la natura, la follia dovuta all’alienazione dal lavoro e dallo stile di vita contemporaneo. E ancora la ricerca del senso dell’esistenza, il bisogno di certezze insito dell’uomo, il fato, il destino che tiene in mano le vite di tutti, lo studio del linguaggio e del legame fra linguaggio ed esistenza.

Un libro, attualissimo anche se scritto ormai quasi quarant’anni fa, adatto a chi non ha paura di guardare in faccia le molte contraddizioni dell’Occidente, che lascia il lettore alla fine con una lieve ma persistente sensazione di amaro in bocca e la certezza che la società occidentale non è fatta a misura d’uomo.

L’autore

Immagine di Paul Auster

Paul Benjamin Auster (conosciuto anche con lo pseudonimo di Paul Quinn) nasce a Newark, città del New Jersey a pochi chilometri da New York, nel 1947.

Il suo talento per la scrittura si manifesta molto precocemente, tanto che compone le prime poesie attorno ai dodici anni.

La sua carriera come scrittore inizia alla fine degli anni ’70, dopo avere svolto per qualche tempo lavori saltuari. La consacrazione avviene fra il 1985 e il 1987 con la pubblicazione dei libri della Trilogia.

Auster è anche saggista, produttore, attore e sceneggiatore.

Paola Cavioni

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