28 marzo 2020

Apro gli occhi questa mattina e mi chiedo cosa ne è stato di quelle giornate di attese infinte, silenzi, telefonate e ancora attese.

Cosa ne è stato di un marzo insolitamente caldo e surreale che ha fermato il mondo in molti modi, e la nostra famiglia in uno solo, terribile. Tu.

Apro gli occhi questa mattina e mi rendo conto che sono già passati cinque anni da quel sabato sera in cui abbiamo dormito stretti, tutti e quattro insieme nel letto grande, per non sentire il freddo che aveva aperto lo squarcio della tua assenza.

La telefonata prima di cena, come tutte le sere, che noi si aspettava guardando il mondo fermo da un balcone, con un bicchiere di prosecco a scaldarsi in una mano, per provare a rallentare i battiti, per provare a non impazzire.

Quella sera la telefonata era per dirci che non c’eri più.

Niente più speranza, niente più aggiornamenti medici, parole difficili da comprendere, impossibili da associare alla persona che eri.

Terapia intensiva, scambi gassosi, dialisi.

Cose quella fetta di mondo che in quei giorni ha avuto la fortuna di non passarci non sa.

Cose che non si vogliono sentire, perché la vita va avanti, lo sappiamo.

Io raggomitolata sul divano, Alessandro che ha parlato prima con gli occhi e poi con le parole, mentre si chiudeva la porta alle spalle, per non farci sentire dai bambini. Un gesto che ora mi sembra la porta che si chiude per sempre sulle nostre vite di prima.  

Apro gli occhi questa mattina e mi sforzo di non ricordare la tua voce rotta dalla malattia in quell’ultima telefonata che non riesco a cancellare dalla memoria del mio cellulare.

Perché come Guccini, “voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi, voglio pensare che ancora mi ascolti, che come allora sorridi”.

Voglio ricordare la tua voce quando diventava risata, quando parlavi di storia, quando cantavi la melodia di una sinfonia, perfino tutte volte in cui alzavi la voce quando ero bambina.

Apro gli occhi questa mattina e cerco la forza per far sì che la forza dei ricordi belli sia più grande del senso di colpa del non averti tenuto la mano in tutti quei giorni, in quel 28 marzo.

Cerco la forza di non farmi vincere dalla rabbia, da quel giorno per ogni giorno venuto dopo, perché so che tu non lo vorresti. Perché in ogni momento, con ogni cellula del corpo e tutta la forza della mia anima, penso a quello che ci hai lasciato, che mi hai lasciato, papà.

Perché è ancora tutti qui.

Perché quello che ci hai lasciato è immensamente più grande, bello e importante di tutto il dolore venuto dopo.

Cose che nessuna pandemia, nessuna distanza, nessuna assenza, potrà mai cancellare.

Paola Cavioni, 28 marzo 2025

Serve davvero una giornata mondiale per ricordarci di essere felici?

When you want more than you have
You think you need
And when you think more than you want
Your thoughts begin to bleed
I think I need to find a bigger place
‘Cause when you have more than you think
You need more space

(Eddie Vedder, Society)

Dal 2013, il 20 marzo è ufficialmente la Giornata Mondiale della Felicità; l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito questa ricorrenza per sottolineare il ruolo fondamentale della felicità e del benessere come obiettivi universali nella vita degli esseri umani e nelle politiche globali. Uno dei punti della Agenda 2030.

Sebbene questa giornata possa sembrare superflua (e anche un po’ naïf) in occidente, in una parte di mondo in cui si cerca costantemente e ossessivamente la felicità, il suo obiettivo è di farci riflettere sull’importanza di perseguirla anche a livello collettivo.

La risposta alla domanda “abbiamo bisogno di una giornata mondiale per ricordarci di essere felici?” parrebbe dunque essere, se per felicità usciamo dai confini dei nostri individualismi ed egoismi.

Se non parliamo di una felicità che rimane in superfice.

A maggior ragione se penso che proprio nel mese di marzo di cinque anni fa il mondo intero era travolto da una pandemia che ha messo in discussione molte delle nostre certezze, inclusa la nostra stessa idea di felicità, quando tutti ci siamo trovati chiusi in casa insieme ai nostri pensieri.

E forse, come capita spesso dopo un evento che ti sconvolge la vita, molti di noi hanno scoperto che la felicità non dipende affatto dall’accumulo di cose, ma dalla capacità di adattarsi e trovare serenità profonda e interiore anche nelle difficoltà. E molti proprio dopo la pandemia hanno attivamente cercato la loro personale strada per la felicità (penso anche al fenomeno delle “grandi dimissioni”, che ha avuto un’accelerata proprio nel post pandemia)

Viviamo in un’epoca in cui la felicità sembra essere diventata un traguardo da raggiungere obbligatoriamente, un prodotto che si può acquistare e mettere in mostra, o una metrica da social media. La felicità è troppo spesso scambiata per un simbolo di status o di apparente realizzazione, un obbligo, qualcosa che deve sempre arrivare da fuori.

“Questa è un’epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra, per occultare il vuoto della stanza.”

(Dalail Lama)

Eppure, la felicità è una condizione ben più complessa e meno definibile, che per alcuni certo può coincidere con il successo o l’acquisizione di beni materiali, mentre per altri, e io rientro sicuramente in questa seconda categoria, è più legata a uno stato interiore di pace e di realizzazione personale, di rapporto con sé stessi e che si riflette poi nel rapporto con gli altri.

Da diversi anni si parla del “caso Bhutan”, piccola nazione incastonato fra Cina e India con una popolazione a maggioranza buddhista, un paese che ha adottato il parametro della Felicità Nazionale Lorda al posto del Prodotto Nazionale Lordo, riconoscendo che il benessere di una nazione non si misura solo attraverso i dati economici, ma anche dalla qualità della vita e dal livello di serenità dei suoi cittadini. Un approccio che invita a pensare alla felicità come un valore collettivo da promuovere, come un motore della società, come responsabilità diffusa e obiettivo comune.

E non si può non pensare che questo sia anche legato al fatto che il buddhismo, in Buthan, è religione di stato (immagino già i nasi che si stortano al pensiero di accostare la parola Stato a quella di Religione, ma forse qualche mosca bianca esiste…).

Da qualche anno anche io mi sono avvicinata alla filosofia buddhista, che offre un punto di vista molto diverso rispetto alla concezione occidentale del benessere e della felicità.

Secondo il Buddhismo, la felicità non è il piacere momentaneo, ma è assenza di sofferenza.

La sofferenza (dukkha) è considerata parte della vita, ma può essere superata grazie alla saggezza e alla consapevolezza. In questa visione, la felicità non dipende da fattori esterni, come denaro, successo o relazioni, ma dalla nostra capacità di raggiungere l’equilibrio interiore. Solo attraverso una profonda comprensione della nostra mente e dei nostri desideri possiamo imparare a liberarci dalle illusioni che alimentano la sofferenza, coltivando la pace interiore e l’accettazione del presente così com’è.

Il Buddhismo promuove il non-attaccamento, cioè l’idea che la sofferenza nasce dall’attaccamento a ciò che è impermanente. Imparare ad accettare il cambiamento ci permette di vivere con maggiore leggerezza e in ultima analisi con maggior serenità.

Perché tutto passa.

Cose, persone, lavori, problemi, giornate storte.

La nostra stessa vita è destinata a finire; il non attaccamento è un continuo esercizio di felicità perché la capacità di non essere legati a ciò che è effimero ci permette di vivere con maggiore serenità e gratitudine.

Non aggrapparsi alle cose, alle persone o alle situazioni ci aiuta a rimanere centrati nel momento presente, accettando l’ineluttabile flusso della vita senza paura o rimpianto. In questo modo, possiamo sperimentare una felicità che non dipende dalle circostanze, ma dalla nostra capacità di essere in pace con il cambiamento e l’impermanenza.

Consapevolezza, compassione e gratitudine, sono elementi essenziali per il benessere duraturo, sicuramente più che fama, denaro e beni materiali.

Il tema della felicità, che forse ha anche molto a che fare con l’accettazione della nostra condizione di esseri limitati, da sempre ha affascinato filosofi, scrittori e anche uomini e donne di scienza. Credo sia un tema tanto affascinante come diffuso, esattamente come l’amore, soprattutto nella scrittura.

Di tutti i libri che ho letto sul tema ce ne sono 5 che più di tutti mi hanno colpito:

  • L’arte della felicità del Dalai Lama. In questo libro, il Dalai Lama esplora la felicità come un’arte da coltivare attraverso la consapevolezza, la compassione e l’equilibrio interiore. Un’opera che invita a riflettere sul vero significato della felicità, andando oltre il consumismo e le illusioni esterne, per scoprire la pace dentro di sé.
  • Il monaco che vendette la sua Ferrari di Robin Sharma. Spoiler, io adoro Sharma, questo libro in particolare è stato il suo primo best seller. Il monaco, è un racconto ispiratore che unisce saggezza orientale e dinamiche occidentali. Attraverso la storia di Julian Mantle, un avvocato di successo che ad un certo punto della vita sente crollare ogni sua certezza, il libro offre lezioni su come vivere una vita più equilibrata, trovando il vero significato al di là dei beni materiali e della carriera.
  • La via della leggerezza di Franco Berrino e Daniel Percorso in cui la leggerezza diventa una metafora per affrontare le difficoltà quotidiane con consapevolezza, senza essere schiavi delle proprie abitudini distruttive, portando anche molti studi scientifici a supporto del fatto che la gentilezza, e la felicità interiore, realmente allungano la vita.
  • Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert. Famosissimo romanzo da cui è stato tratto anche l’omonimo film. Una storia di viaggio e di ricerca interiore che racconta come l’autore si ritrovi in un percorso di auto-scoperta. Attraverso tre esperienze diverse in Italia, India e Indonesia, Gilbert esplora il significato della felicità, dell’amore e della spiritualità, trovando l’armonia tra mente e corpo.
  • Flow: Psicologia dell’esperienza ottimale di Mihály Csíkszentmihályi. Csíkszentmihályi è uno dei pionieri della psicologia positiva, quel ramo della disciplina che si concentra sullo studio e sullo sviluppo degli aspetti positivi dell’esperienza umana, esponendo qui il concetto di flow. Il flow (flusso) uno stato di totale immersione e soddisfazione in un’attività, che porta all’autorealizzazione. Un libro che offre una nuova prospettiva sulla felicità, legandola alla concentrazione profonda e al piacere che deriva dall’impegno totale in ciò che si fa. Lettura consigliata soprattutto a chi cerca la serenità anche facendo attività sportiva.

Ognuno di questi autori porta una visione personale, ma il messaggio comune è che la felicità non è un obiettivo esterno da perseguire, ma un processo interiore che dipende dalle nostre scelte, dalle nostre azioni e dalla nostra capacità di vivere nel presente.

Forse la Giornata Mondiale della Felicità non è tanto un’occasione per “ricordarci” di essere felici, quanto piuttosto un invito a riflettere su cosa significhi davvero la felicità.

In un mondo in cui siamo costantemente proiettati verso il futuro, desiderando sempre qualcosa in più, dovremmo imparare a godere di ciò che abbiamo nel presente, portando la felicità in ogni piccola azione quotidiana.

Qui ed ora.

Come quella felicità, calda, improvvisa e avvolgente, che c’è nell’abbraccio di un amico o nella risata di un bambino. È in questi momenti di semplicità che si nasconde forse la vera gioia.

La felicità è sempre lì, pronta a farsi trovare in ogni gesto di amore, spontaneità e connessione che ci regala la vita. Se siamo disposti ad accoglierla.

Paola Cavioni, 20 marzo 2025

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Righe su Furore di John Steinbeck

“The highway is alive tonight
But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes
I’m sitting down here in the campfire light
Searchin’ for the ghost of Tom Joad”

(The Ghoast of Tom Joad, Bruce Springsteen)

La copertina di ‘Furore’ di John Steinbeck, un classico della letteratura americana che affronta temi di resilienza e ingiustizia sociale.

Penso che oggi non si possa leggere Furore senza accompagnarlo con la colonna sonora di Springsteen in “The Ghost of Tom Joad”. Le note così armoniose di questa ballata, il canto quasi sussurrato, creano un contrasto struggente con l’asprezza di un libro che è maestosamente e dolorosamente meraviglioso.

Con le sue quasi 700 pagine, è il primo classico che mi ha accompagnato tra gennaio e febbraio di questo 2025, un anno che sembra appena iniziato, eppure siamo già a marzo.

Quante cose è Furore! Universalmente considerato il capolavoro della maturità di John Steinbeck, l’ho amato profondamente proprio ora, avvicinandomi ai miei quarant’anni. Furore è un romanzo di denuncia sociale, una fiction che si sviluppa davanti agli occhi come in un unico piano sequenza di un film (che è stato poi effettivamente realizzato nel 1940 con un giovane Henry Fonda), è equilibrio perfetto nella costruzione dei personaggi e dialoghi.

Dopo Uomini e topi del 1937 è il capolavoro della maturità di Steinbeck…anche perché chi sono io per dire il contrario di un romanzo che ha vinto pure il Pulitzer e di un autore detentore di un Nobel?

Furore (The Grapes of Wrath in lingua originale, letteralmente “I grappoli dell’ira”) viene pubblicato nel 1939, pochi mesi prima che nei cinema esca il capolavoro di Victor Fleming, Via col vento.

Lo stesso anno, due Americhe a confronto: da una parte, quella nata dalle ceneri dalla Guerra di Secessione del 1861; dall’altra, quella segnata dalla Grande Depressione degli anni ’30.

La protagonista è la famiglia Joad, costretta a lasciare l’Oklahoma a causa della crisi agricola e della grande tempesta di polvere (Dust Bowl) che afflisse Stati Uniti e Canada fra il 1931 e il 1939. In questo contesto drammatico, la famiglia si trova a dover affrontare non solo le difficoltà economiche e la mancanza di lavoro, ma anche la perdita della propria terra e delle proprie radici. Mentre migrano verso l’Occidente, cercano nuove opportunità e una vita migliore, ma si imbattono in sfide inaspettate, come la povertà, la discriminazione e lo sfruttamento.

Il viaggio verso la California, tormentato da fame, lutti e ingiustizie, in cerca di una vita migliore diventa non solo una migrazione geografica, ma anche un’esplorazione della resilienza umana di fronte all’ingiustizia e alla disperazione. Tutta la disperazione e la forza di chi non si arrende al proprio destino.

“Non puoi sradicare l’anima della gente, nemmeno con tutta la forza del mondo.”

Il romanzo affronta numerose tematiche di assoluta attualità, che non possono non risuonare al lettore moderno: lo sfruttamento del lavoro umano, la disumanizzazione imposta dalle grandi corporazioni (ora multinazionali), la perdita di identità culturale, la migrazione e la percezione del “diverso” come una minaccia, colui che viene a rubare il lavoro.

Il messaggio di Steinbeck resta ancora incredibilmente attuale: oggi l’avvento della tecnologia e la globalizzazione hanno trasformato radicalmente le dinamiche del lavoro ma le disparità economiche e sociali persistono e forse sono ancora più evidenti di quanto lo fossero novant’anni fa, ovunque nel mondo.

La storia dei Joad ritorna oggi, in un mondo in cui le crisi economica, i cambiamenti climatici e i conflitti spingono milioni di persone a cercare rifugio e opportunità altrove. Le difficoltà incontrate dai Joad nel loro viaggio verso una terra promessa, che non è mai esistita e che fondamentalmente non li vuole, ricordano le esperienze di molti migranti contemporanei, evidenziando come la lotta per la dignità e la giustizia sia universale e senza tempo.

Se Furore era una denuncia delle ingiustizie sociali negli anni ’30, oggi il libro può essere letto a posteriori come una profezia del mondo moderno, quasi come è stato per 1984 per altri motivi. La narrazione di John Steinbeck non solo mette in luce le difficoltà e le sofferenze delle classi lavoratrici, ma esplora anche i temi universali della dignità umana e della lotta per la giustizia. La lotta dei Joad, protagonisti del romanzo, rappresenta una condizione che continua a risuonare nella nostra società contemporanea, dove le disuguaglianze economiche e sociali sono ancora pervasive. La forza e la resilienza degli individui di fronte all’oppressione ci ricordano che, nonostante le sfide, c’è sempre la possibilità di ribellione e di cambiamento. Inoltre, le dinamiche familiari e l’unità dei personaggi ci forniscono una particolare prospettiva sul valore della comunità in tempi di crisi, rendendo il messaggio di Steinbeck non solo rilevante, ma anche profondamente emozionante per le generazioni attuali.

I migranti di oggi non sono tanto diversi dai Joad: cercano un luogo in cui poter lavorare e vivere dignitosamente, ma spesso incontrano ostilità, sfruttamento e pregiudizi. L’America di Steinbeck è una terra di sogni infranti, proprio come oggi molte nazioni che si presentano come promesse di futuro finiscono per diventare campi di battaglia burocratici e sociali per chi cerca una seconda possibilità.

La capacità di Steinbeck di descrivere con realismo e profondità le sofferenze e le speranze dei suoi personaggi rende Furore un’opera senza tempo, non solo un documento che vale come testimonianza di un preciso momento storico che ha cambiato per sempre le sorti di una nazione, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana, invitando i lettori a confrontarsi con le ingiustizie del passato e del presente.

Ingiustizia.

È questo il sentimento più profondo che in ultimo accompagna ogni azione compiuta e ogni parola pronunciata dal vero protagonista della storia, Tom.

“Ed ecco che cosa puoi sapere per certo: terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché questa è l’unica qualità fondamentale dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo.”

Con il suo lavoro, e Furore in particolare, John Steinbeck ha influenzato profondamente molti autori moderni e contemporanei, per il suo stile narrativo diretto e realistico, per la predilezione verso temi legati alla lotta della classe lavoratrice, e per l’esplorazione del rapporto tra uomo e natura.

Cormac McCarthy, Jonathan Franzen e Kent Haruf, solo per citarne alcuni, possono essere considerati in qualche modo eredi del suo stile e della sua poetica.

Furore è più di un romanzo. È un manifesto di lotta, di resistenza e di speranza, che si chiude con un’immagine potentissima (che non anticipo per non togliere nulla al futuro lettore).

La sua attualità e immortalità ci impongono di non dimenticare mai che la storia può ripetersi e che l’unico antidoto alle ingiustizie è la solidarietà. La memoria storica è il nostro strumento più potente per evitare che le cicatrici del passato vengano riaperte, e solo attraverso l’unione possiamo sperare di costruire un futuro più giusto per tutti.

“Io sarò sempre ovunque ci sia gente che soffre, lotta e spera.”

L’autore

John Steinbeck (1902 – 1968) nasce a Salinas in California e cresce in una regione agricola, cosa che influenza profondamente la sua scrittura. Dopo aver abbandonato gli studi universitari, svolge diversi lavori manuali, acquisendo una conoscenza diretta delle difficoltà dei lavoratori agricoli, tema centrale del suo stile narrativo. Vincitore del Nobel per la letteratura nel 1962, nel 1964 il Presidente Lyndon B. Johnson gli conferisce la Medaglia presidenziale della libertà, uno dei più alti riconoscimenti civili conferiti dal presidente degli Stati Uniti, che viene assegnata a individui che abbiano compiuto atti straordinari a favore della libertà, della sicurezza nazionale, della cultura, della scienza, dell’educazione, della salute pubblica, dei diritti civili o di altre cause meritevoli.

Ha lasciato un’eredità letteraria straordinaria, raccontando con empatia e realismo le sfide dei più deboli nella società americana.

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Paola Cavioni, marzo 2025