Acrobati

Questa settimana Francesco ha partecipato alla sua prima gita scolastica, partendo emozionato e saltellante come suo solito, zainetto in spalla e cappellino degli Yankees in testa.

Destinazione: un parco a meno di un’ora da casa, rientro nel pomeriggio.

Normale amministrazione, niente di epico, non è che dovesse partecipare alla campagna di Russia.

Eppure, nei giorni precedenti, la famigerata chat di classe — nella quale sono mio malgrado inserita (e ho anche altre due figlie!) — è esplosa in uno scambio serrato, quasi surreale, di messaggi tra mamme. Tutte impegnate a organizzare lo zainetto con la stessa concentrazione richiesta per l’allunaggio dell’Apollo 11.

Padri non pervenuti ovviamente.

Per tutta la settimana mi ha accompagnata un vago sentore di ansia da under performance perché, se dovessi ricevere un voto alla mia partecipazione alla chat, non sfiorerei neanche lontanamente la sufficienza.

Anzi, se fosse valutata come una performance lavorativa, non solo non riceverei il bonus: mi toglierebbero anche il badge e il buono pasto.

A me bastava sapere che Francesco sarebbe andato in gita con la maestra per otto ore, e che sarebbe tornato con le ginocchia impolverate e mille storie da raccontare.

Ci rivediamo nel pomeriggio, Fra. Ti amo. Stop.

Forse è per questo che non intervengo mai in quella giungla di vocali (che, lo confesso, non ascolto mai), cuori, punti esclamativi e polemiche velate: referisco l’essenziale, quando si può.

Perché la vita è già abbastanza complicata senza aggiungerci l’ansia in outsourcing.

E proprio questo pensiero mi ha acceso una lampadina, o meglio: una consapevolezza.

Viviamo in equilibrio precario su due pilastri traballanti: la corsa continua, il confronto perenne e l’ansia a fare da collante fra le due cose.
Con il collega che invia messaggi motivazionali alle 6:42 del mattino, con la mamma della classe che cuce etichette personalizzate anche sugli snack, con i figli degli altri che a sei anni parlano tre lingue, suonano il violino, fanno danza acrobatica il mercoledì e il sabato salvano le balene.

Siamo acrobati di resilienza, eroi silenziosi del quotidiano.

E il bello — o il tragico — è che non abbiamo nemmeno un pubblico pronto ad applaudirci quando, miracolosamente, non mandiamo nessuno a quel paese e riusciamo persino a conservare un briciolo di salute mentale dalle 9 alle 17.

Ogni mattina ci alziamo, mediamente maledicendo la sveglia, il nostro lavoro, il nostro capo e tutte le scelte fatte dal 1999 in poi. Poi, con dignitosa rassegnazione, iniziamo la danza: colazione, scuola, lavoro, riunioni, vocali infiniti, chiamate perse, bambini da recuperare, cena da improvvisare con tre ingredienti, un miracolo e una carota rimasta incollata in fondo al frigorifero.

E poi ci sono loro: le agende a incastro, vero sport estremo per chi ha figli, pura follia per chi ne ha più di uno. Ogni figlio con uno sport diverso, ovviamente, in orari diversi, in luoghi diversi.

E i colloqui a scuola? Altro che after-work. Perché regolarmente ti piazzano il colloquio individuale alle 11 del lunedì mattina, proprio il giorno prima della tua scadenza trimestrale più importante.

Non puoi? Tranquilla, c’è il decimo girone dantesco del “Colloquio collettivo”, che sai quando ti metti in fila, ma non sai in che secolo ne uscirai. Tanto che, quando rientri finalmente a casa non sai nemmeno più come ti chiami ma hai timore di trovarti un inviato di Chi l’ha visto sul pianerottolo.

Poi c’è quel giorno della settimana in cui provi a ricordarti di avere anche una vita sociale, magari per bere un caffè con un’amica, e regolarmente tua figlia ti scrive nel momento clou perché non trova le ginocchiere per la pallavolo. E mentre cerchi di tenere viva, almeno nella tua testa, un po’ della tua identità personale, ti ricordi che questo mese scade l’assicurazione della macchina e non hai fatto partire la lavastoviglie!

E la domenica? Che dovrebbe essere sacra. Rilassante. Zen. Inizia con una lavatrice alle 7:30, continua con la caccia alla felpa “quella con il dinosauro, non quella con gli squali!” e culmina in una crisi esistenziale davanti al calendario settimanale, tentando di incastrare karate, inglese, dentista e, se va bene, tre respiri profondi e un “ma chi me l’ha fatto fare” a mezza bocca.

Siamo acrobati, noi genitori del terzo millennio, ma non per scelta. E ogni tanto da funamboli, da quel filo teso sul quale siamo in equilibrio ogni giorno, cadiamo di faccia cercando di tenere tutto insieme, di essere dei genitori discreti, di mantenere un lavoro, di non dimenticarci la telefonata ai nostri genitori, di mangiare sano, fare sport e non usare il cellulare al volante.

Cercando in questo caos quotidiano di prenderci la nostra fettina di felicità, con le occhiaie a farci da medaglia e le agende come campi di battaglia. Sapendo che comunque stiamo facendo del nostro meglio. O almeno ci stiamo provando.

E per dovere di cronaca, quando sono andata a prendere Francesco di ritorno dalla gita, alla domanda: “Allora amore, che avete fatto di bello?”, la sua risposta è stata da manuale:

“Niente, mamma.”

Paola Cavioni, 12 aprile 2025

Se ti è piaciuto il post lascia un commento e un like, ricorda di seguire Righe di Arte con il tuo account di WordPress o inserendo il tuo indirizzo email nella sezione “Segui questo blog”. In questo modo riceverai una notifica ogni volta che pubblicherò nuovi contenuti.
Trovi@righediarte anche su Facebook e Instagram.

Lascia un commento