Poesia compagna di viaggio

POESIA

La poesia langue ma non muore. Torna all’occorrenza, quando sa di essere cercata.

Se ti prende la porti con te, per sempre.

Poesia,

sei una compagna amata e scomoda.

Passione desiderata e odiata. Senza scampo.

Oh Musa orgogliosa e meschina.

Non sei per tutti, e fai male con la tua presenza.

Quando arrivi improvvisa e cerchi uno sfogo

E il foglio bianco diventa l’unico appiglio.

Unica via di fuga.

E vuota è l’anima come dopo l’amore,

dopo ogni parola fissata per sempre.

Gli amanti – Paolo e Francesca

Oggi voglio condividere un testo che ho scritto ripensando, in chiave “moderna” e senza troppi termini aulici, alla più celebre coppia di amanti della Storia, tanto celebrata da poeti e pittori in tutte le epoche. Paolo e Francesca.

Ho scelto come immagine-simbolo di queste righe il famoso quadro di Mosè Bianchi (1840 – 1904) Paolo e Francesca del 1877.

La tragica storia dei due amanti-cognati si svolge a Rimini nella seconda metà del XIII secolo. Francesca da Polenta viene data in sposa, per motivi politici legati alla rivalità fra le famiglie dei da Polenta e dei Malatesta, a Gianciotto Malatesta, un uomo anziano e zoppo (da cui il soprannome “ciotto”, ovvero storpio) che lei non ama.

Boccaccio ci dice che il matrimonio si svolge però per procura, con il fratello di Gianciotto, Paolo Malatesta. Il resto è noto, soprattutto grazie al magistrale Canto V della Divina Commedia di Dante, scritta negli anni appena successivi alla vicenda degli amanti di Rimini. I due, mentre leggono dell’amore fra Lancillotto e Ginevra (“Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante” ), non resistono alla forza del loro sentimento e, cedendovi, firmano la loro condanna a morte.

I due amanti sono nell’Inferno dantesco, anche se vengono descritti come “animi gentili”, nobili e in qualche modo ancora puri. Un amore pulito, anche se traditore.

Come nel canto dantesco, Mosè Bianchi li ritrae, l’uno che teneramente avvolge il fianco dell’altra, spinti dal vento, su uno sfondo dorato. Più che due amanti condannati all’inferno sembrano quasi due angeli. I protagonisti sono solo loro.

Guardando questo bellissimo quadro e leggendo il canto di Dante, non è difficile immedesimarsi in quel tipo di sentimento, in quel trasporto, in quel tipo di amore che sfida ogni cosa.

Mosè Bianchi Paolo e Francesca (1877) Acquerello e oro su carta Galleria GAM di Milano
Mosè Bianchi
Paolo e Francesca (1877)
Acquerello e oro su carta
Galleria GAM di Milano

 

Ci sono storie d’amore fuori tempo. Che arrivano troppo tardi o troppo presto. Che nascono nel momento sbagliato fra le anime giuste. Storie vere che ardono senza consumarsi mai, perché il solo modo che hanno per fare l’amore è immaginarlo fra i versi di una poesia, di un libro. Storie che si nutrono di scambi di sguardi e di baci fugaci che cercano con voracità di portarsi via un po’ del sapore dell’altro, per poi passare la lingua sulle labbra e ricordarsi una espressione del viso, uno sguardo, un guizzo dell’anima. Storie d’amore che sanno di Paradiso pur essendo destinate all’Inferno.

Ci sono occhi destinati a guardarsi per sempre pur non appartenendosi mai, pur appartenendo ad altre Vite. Pur non potendosi appartenere completamente. Occhi che scavano fino a trovare, e loro soli, quella luce che il mondo non vuole vedere perché raramente si manifesta nell’Uomo. Occhi che nascondono al mondo il filo sottile che li lega come un terribile segreto.

Ci sono vite vissute in parallelo, in bilico tra l’amore comodo dell’abitudine e la passione che porta all’Eternità. Che fa paura per la sua interezza. Che va oltre il bene e il male quando bene e male si fondono e il peccato non esiste ma esiste solo l’innocenza dell’Amore.

Ci sono mani che si osservano da lontano, che hanno paura di stringersi per non dover trovare il coraggio di lasciarsi.

E poi ci siamo noi, che ancora siamo spinti e trascinati dal vento di questo amore senza ritorno.

Tina Modotti: sguardi di modernità all’inizio del ventesimo secolo

Oaxaca, Messico 1929, argento su gelatina, cm 22,6 x 15,3 (Fototeca INAH, Pachuca)
Oaxaca, Messico 1929, argento su gelatina, cm 22,6 x 15,3 (Fototeca INAH, Pachuca)

“Tina vita fragile sogno sensuale, amore in bianco e nero che non può più invecchiare”

Con questa delicatezza Cisco Belotti (ex frontman del gruppo folk Modena City Rambles) nell’ omonima canzone Tina, descrive una delle mie fotografe predilette: Tina Modotti.

In tanti hanno scritto e parlato di questa grande artista dall’animo sensibile del ‘900, che non ha avuto la fortuna di avere la stessa fama postuma della Kahlo o di Rivera, ma che tanta parte del suo cuore e della sua arte ha lasciato nel Messico degli anni ’20 e ’30 del Novecento. Uno sguardo di modernità all’inizio del ventesimo secolo, compagna nella vita e nell’arte del grande Edward Weston.

Nel 1926, parlando proprio della sua amica Assuntina “Tina”, Diego Rivera scrive: “Tina Modotti trae linfa dalle radici del suo temperamento italiano. La sua opera artistica è fiorita però in Messico, raggiungendo una rara armonia con le nostre stesse passioni” (tratto dal testi di R.Toffoletti, Tina Modotti. Perché non muore il fuoco, Edizioni Arti Grafiche Fiulane, Udine 1992).

La vita di Tina Modotti si intreccia in quattro grandi temi della storia del Novecento. Il primo è quello della grande immigrazione italiana, in particolare verso gli Stati Uniti e l’America Latina, che caratterizza soprattutto il Friuli Venezia Giulia, regione di provenienza della Modotti (nasce a Udine il 16 agosto 1896). C’è poi la storia dell’arte e della fotografia, entrambi che risentono dei grandi sconvolgimenti portati dalle due guerre mondiali.

Il terzo tema è quello legato alla storia delle donne e del movimento per l’affermazione del ruolo femminile in campo sociale e artistico. Ultimo, ma non certo per importanza, è il tema politico, in particolare la serie di eventi storici legati allo sviluppo del comunismo internazionale negli anni che vanno dalla rivoluzione russa alla seconda guerra mondiale.

L’arte della Modotti è una meteora, un fuoco che nasce con la forza dell’autocombustione e che brucia violentemente, anche se solo per pochi anni, come la stessa vita di Tina, che muore a soli 46 anni. La sua produzione fotografica è stimata in circa 160 fotografie (1923-30) delle quali circa un terzo possono rientrare in quel genere che può essere definito di costume, folkloristico, che vuole illustrare, con l’occhio di una italiana trapiantata in sud America, luoghi esotici, gruppi etnici o marginali, nelle forme dell’arte occidentale. Ma non solo: la dignità che il lavoro manuale conferisce all’uomo, la gioia insita nel produrre con le proprie mani e la propria fatica, la bellezza fisica e la forza espressiva che si percepisce dai corpi e dai volti dei lavoratori. Uno “sguardo sociale” assolutamente moderno, che restituisce dignità ad ogni soggetto che ritrae.

Tina è tante cose nel corso della sua vita: modella, attrice, fotografa, attivista politica ma, pur non essendo mai diventata madre, riesce a immortalare i suoi soggetti con lo stesso occhio amorevole di una madre che guarda la propria creature, che se ne prende cura e la protegge. Amore e forza, passione e dedizione, questa è tutta la sua vita.

Riferimenti bibliografici:

P. Albers, Fuoco, neve e ombre. Vita di Tina Modotti, Postmedia Books, Milano, 2003

L. Argenteri, Tina Modotti. Fra Arte e rivoluzione, edizione Franco Angeli, Milano, 2005

P. Cacucci, Tina, Feltrinelli, Milano 2005

T. Modotti, Vita arte e rivoluzione. Lettere ad Edward Weston 1922-31, volume a cura di V. Agostinis, Feltrinelli, Milano 1994

E. Paltrinieri, Tina Modotti fotografa irregolare, Selene Edizioni, Milano, 2004

Abbazia di Chiaravalle: viaggio nel tempo a pochi passi da Milano

Questo blog nasce dall’unione di due grandi passioni: la scrittura e l’arte. L’Italia, il nostro Paese, il paese più bello del mondo: questo blog vuole celebrare tutte le sue bellezze. Città, monumenti, opere conosciute e sconosciute, mostre ed esposizioni. Tutto questo visto attraverso gli occhi di una “non addetta ai lavori” ma di chi, semplicemente, ama e celebra l’arte così come è.

Apro il blog con un articolo che ho scritto qualche tempo fa e che si trova pubblicato nel sito MilanoFree:

Visitare l’abbazia cistercense di Chiaravalle in un fresco pomeriggio di fine dicembre è un’esperienza a metà fra il mistico e il viaggio nel tempo. Solo percorrendo, nel silenzio della campagna e con lo sguardo rivolto al grande parco agricolo che fronteggia l’abbazia, il breve tragitto che dal parcheggio porta all’ingresso del complesso, sembra quasi impossibile pensare che solo pochi chilometri più in là ci sia la città simbolo dell’economia italiana, Milano, con il suo traffico, i suoi grattacieli e i suoi rumori.

Milano è costellata di tante realtà monumentali, più o meno grandi, nelle quali si respira la Grande Storia, quella vera, quella dei libri. Chiaravalle (Clairvaux, per dirla poeticamente alla francese) però ha un’aura tutta particolare, quasi magica. Non mi stupirei per niente se vedessi comparire, fra il fumo delle candele nella navata centrale della chiesa, il cavaliere del XIII secolo Etienne Navarre, del film Ladyhawke, oppure il frate Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”. Perché in quest’abbazia, nonostante siano visibili anche a un occhio poco esperto i vari interventi e le ristrutturazioni che si sono susseguite nei secoli (la prima fondazione viene fatta risalire al 1135 circa mentre gli ultimi interventi rilevanti sono del 1600), il tempo si è fermato al medioevo, quando anche nell’Italia settentrionale esplodeva quel grande movimento di riforma della spiritualità cristiana che prende il nome di monachesimo.
Percorrendo il viale di ghiaia che dall’ingresso del complesso conduce alla chiesa abbaziale non si può non notare il contrasto, in facciata, tra il porticato inferiore secentesco e poco più indietro la struttura in laterizio con bifora e oculo di epoca sicuramente precedente. Ed è proprio il rosso mattone il colore predominante in tutta la struttura, splendido esempio di architettura gotica italiana.
Al suo interno l’edificio presenta la consueta pianta a croce latina, con volte a crociera costolonate che poggiano su pilastroni cilindrici in laterizio privi di capitello. Questi pilastri, come maestosi alberi secolari, sorreggono la chiesa da così tanti secoli e fanno riflettere sulle grandi capacità ingegneristiche dell’uomo del medioevo, periodo storico tutt’altro che “buio” dal punto di vista artistico.
Come di un film non si rivela mai la fine, non mi voglio soffermare sulla bellezza degli affreschi che la chiesa ancora conserva, seppur in parte danneggiati dal tempo, per non svelare nulla di più al visitatore che vorrà addentrarsi in questa meraviglia dell’architettura.
Vi posso solo consigliare la “colonna sonora” di questa visita: il silenzio della campagna milanese, una buona compagnia e il rumore delle foglie secche che si sbriciolano sotto le scarpe in una giornata d’inverno.