Righe su Furore di John Steinbeck

“The highway is alive tonight
But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes
I’m sitting down here in the campfire light
Searchin’ for the ghost of Tom Joad”

(The Ghoast of Tom Joad, Bruce Springsteen)

La copertina di ‘Furore’ di John Steinbeck, un classico della letteratura americana che affronta temi di resilienza e ingiustizia sociale.

Penso che oggi non si possa leggere Furore senza accompagnarlo con la colonna sonora di Springsteen in “The Ghost of Tom Joad”. Le note così armoniose di questa ballata, il canto quasi sussurrato, creano un contrasto struggente con l’asprezza di un libro che è maestosamente e dolorosamente meraviglioso.

Con le sue quasi 700 pagine, è il primo classico che mi ha accompagnato tra gennaio e febbraio di questo 2025, un anno che sembra appena iniziato, eppure siamo già a marzo.

Quante cose è Furore! Universalmente considerato il capolavoro della maturità di John Steinbeck, l’ho amato profondamente proprio ora, avvicinandomi ai miei quarant’anni. Furore è un romanzo di denuncia sociale, una fiction che si sviluppa davanti agli occhi come in un unico piano sequenza di un film (che è stato poi effettivamente realizzato nel 1940 con un giovane Henry Fonda), è equilibrio perfetto nella costruzione dei personaggi e dialoghi.

Dopo Uomini e topi del 1937 è il capolavoro della maturità di Steinbeck…anche perché chi sono io per dire il contrario di un romanzo che ha vinto pure il Pulitzer e di un autore detentore di un Nobel?

Furore (The Grapes of Wrath in lingua originale, letteralmente “I grappoli dell’ira”) viene pubblicato nel 1939, pochi mesi prima che nei cinema esca il capolavoro di Victor Fleming, Via col vento.

Lo stesso anno, due Americhe a confronto: da una parte, quella nata dalle ceneri dalla Guerra di Secessione del 1861; dall’altra, quella segnata dalla Grande Depressione degli anni ’30.

La protagonista è la famiglia Joad, costretta a lasciare l’Oklahoma a causa della crisi agricola e della grande tempesta di polvere (Dust Bowl) che afflisse Stati Uniti e Canada fra il 1931 e il 1939. In questo contesto drammatico, la famiglia si trova a dover affrontare non solo le difficoltà economiche e la mancanza di lavoro, ma anche la perdita della propria terra e delle proprie radici. Mentre migrano verso l’Occidente, cercano nuove opportunità e una vita migliore, ma si imbattono in sfide inaspettate, come la povertà, la discriminazione e lo sfruttamento.

Il viaggio verso la California, tormentato da fame, lutti e ingiustizie, in cerca di una vita migliore diventa non solo una migrazione geografica, ma anche un’esplorazione della resilienza umana di fronte all’ingiustizia e alla disperazione. Tutta la disperazione e la forza di chi non si arrende al proprio destino.

“Non puoi sradicare l’anima della gente, nemmeno con tutta la forza del mondo.”

Il romanzo affronta numerose tematiche di assoluta attualità, che non possono non risuonare al lettore moderno: lo sfruttamento del lavoro umano, la disumanizzazione imposta dalle grandi corporazioni (ora multinazionali), la perdita di identità culturale, la migrazione e la percezione del “diverso” come una minaccia, colui che viene a rubare il lavoro.

Il messaggio di Steinbeck resta ancora incredibilmente attuale: oggi l’avvento della tecnologia e la globalizzazione hanno trasformato radicalmente le dinamiche del lavoro ma le disparità economiche e sociali persistono e forse sono ancora più evidenti di quanto lo fossero novant’anni fa, ovunque nel mondo.

La storia dei Joad ritorna oggi, in un mondo in cui le crisi economica, i cambiamenti climatici e i conflitti spingono milioni di persone a cercare rifugio e opportunità altrove. Le difficoltà incontrate dai Joad nel loro viaggio verso una terra promessa, che non è mai esistita e che fondamentalmente non li vuole, ricordano le esperienze di molti migranti contemporanei, evidenziando come la lotta per la dignità e la giustizia sia universale e senza tempo.

Se Furore era una denuncia delle ingiustizie sociali negli anni ’30, oggi il libro può essere letto a posteriori come una profezia del mondo moderno, quasi come è stato per 1984 per altri motivi. La narrazione di John Steinbeck non solo mette in luce le difficoltà e le sofferenze delle classi lavoratrici, ma esplora anche i temi universali della dignità umana e della lotta per la giustizia. La lotta dei Joad, protagonisti del romanzo, rappresenta una condizione che continua a risuonare nella nostra società contemporanea, dove le disuguaglianze economiche e sociali sono ancora pervasive. La forza e la resilienza degli individui di fronte all’oppressione ci ricordano che, nonostante le sfide, c’è sempre la possibilità di ribellione e di cambiamento. Inoltre, le dinamiche familiari e l’unità dei personaggi ci forniscono una particolare prospettiva sul valore della comunità in tempi di crisi, rendendo il messaggio di Steinbeck non solo rilevante, ma anche profondamente emozionante per le generazioni attuali.

I migranti di oggi non sono tanto diversi dai Joad: cercano un luogo in cui poter lavorare e vivere dignitosamente, ma spesso incontrano ostilità, sfruttamento e pregiudizi. L’America di Steinbeck è una terra di sogni infranti, proprio come oggi molte nazioni che si presentano come promesse di futuro finiscono per diventare campi di battaglia burocratici e sociali per chi cerca una seconda possibilità.

La capacità di Steinbeck di descrivere con realismo e profondità le sofferenze e le speranze dei suoi personaggi rende Furore un’opera senza tempo, non solo un documento che vale come testimonianza di un preciso momento storico che ha cambiato per sempre le sorti di una nazione, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana, invitando i lettori a confrontarsi con le ingiustizie del passato e del presente.

Ingiustizia.

È questo il sentimento più profondo che in ultimo accompagna ogni azione compiuta e ogni parola pronunciata dal vero protagonista della storia, Tom.

“Ed ecco che cosa puoi sapere per certo: terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché questa è l’unica qualità fondamentale dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo.”

Con il suo lavoro, e Furore in particolare, John Steinbeck ha influenzato profondamente molti autori moderni e contemporanei, per il suo stile narrativo diretto e realistico, per la predilezione verso temi legati alla lotta della classe lavoratrice, e per l’esplorazione del rapporto tra uomo e natura.

Cormac McCarthy, Jonathan Franzen e Kent Haruf, solo per citarne alcuni, possono essere considerati in qualche modo eredi del suo stile e della sua poetica.

Furore è più di un romanzo. È un manifesto di lotta, di resistenza e di speranza, che si chiude con un’immagine potentissima (che non anticipo per non togliere nulla al futuro lettore).

La sua attualità e immortalità ci impongono di non dimenticare mai che la storia può ripetersi e che l’unico antidoto alle ingiustizie è la solidarietà. La memoria storica è il nostro strumento più potente per evitare che le cicatrici del passato vengano riaperte, e solo attraverso l’unione possiamo sperare di costruire un futuro più giusto per tutti.

“Io sarò sempre ovunque ci sia gente che soffre, lotta e spera.”

L’autore

John Steinbeck (1902 – 1968) nasce a Salinas in California e cresce in una regione agricola, cosa che influenza profondamente la sua scrittura. Dopo aver abbandonato gli studi universitari, svolge diversi lavori manuali, acquisendo una conoscenza diretta delle difficoltà dei lavoratori agricoli, tema centrale del suo stile narrativo. Vincitore del Nobel per la letteratura nel 1962, nel 1964 il Presidente Lyndon B. Johnson gli conferisce la Medaglia presidenziale della libertà, uno dei più alti riconoscimenti civili conferiti dal presidente degli Stati Uniti, che viene assegnata a individui che abbiano compiuto atti straordinari a favore della libertà, della sicurezza nazionale, della cultura, della scienza, dell’educazione, della salute pubblica, dei diritti civili o di altre cause meritevoli.

Ha lasciato un’eredità letteraria straordinaria, raccontando con empatia e realismo le sfide dei più deboli nella società americana.

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Paola Cavioni, marzo 2025

Righe su “Il conformista” di Alberto Moravia

“Ogni scrittore è una chiave per aprire la porta della realtà”

(da un’intervista di Alberto Moravia)

Alberto Pincherle Moravia nasce a Roma il 28 novembre 1907 e muore nel 1990 dopo una vita iniziata in salita con i frequenti ricoveri nei sanatori sulle Alpi per curare una grave forma di tubercolosi ossea, ma vissuta intensamente fino all’ultimo giorno: una produzione letteraria sconfinata, tre grandissime donne al suo fianco, viaggi intorno al mondo, la fama che il cinema neorealista regala alle sue storie e l’amicizia con molti personaggi di primo piano della cultura italiana come Pier Paolo Pasolini.

Oggi voglio celebrare la vita di questo straordinario narratore testimone del novecento parlandovi del suo romanzo meno amato dalla critica, tanto che spesso non viene nemmeno inserito nelle antologie scolastiche.  

Se infatti, è nota la fortuna, di pubblico e di critica, de Gli indifferenti, de La ciociara o La noia, altrettanto non si può dire de Il conformista.

A soli 44 anni, Il conformista è l’ottavo romanzo, escluse le raccolte di racconti, dello scrittore romano.

Un romanzo che parte da una domanda drammatica: può un evento traumatico nell’infanzia condizionare tutta la vita, la lettura e l’interpretazione di tutti gli avvenimenti che avvengono prima e dopo quel fatto?

Pubblicato da Bompiani nel 1951, quando l’Italia sta ricostruendo quanto distrutto dalle bombe, Il conformista riprende molti temi già presenti nelle opere precedenti (ma anche successive) dell’autore: la decadenza della società borghese votata inconsciamente all’apparenza e ai rapporti stereotipati, il giudizio complessivo di fallimento della società occidentale durante la seconda guerra mondiale e nel periodo appena successivo, con l’inizio della Guerra Fredda, la tensione sessuale che guida i pensieri e le azioni dei suoi personaggi, ma anche la frustrazione per una sessualità mai apertamente vissuta, o peggio, subita, il tradimento come norma nei rapporti umani.

Mors tua, vita mea, una narrativa che non prevede eroi, come nella più pessimistica visione dell’esistenza umana.  

Il conformista è un romanzo in tre atti che ripercorre la vita del protagonista Marcello Clerici.

Il titolo, come spesso accade in Moravia, è un manifesto: programmatico e predittivo rispetto al contenuto della storia.

La narrazione è in terza persona, con uno stile discorsivo che somiglia quasi alla voce fuori campo di un film.  

Nel Prologo del libro, che è il primo atto, troviamo Marcello adolescente. L’adolescenza, età molto indagata dalla penna di Moravia: periodo della vita che può essere pieno di tormenti ma anche curiosità nei confronti dell’esistenza e del mondo, di ricerca di identità certezze e conferme.

Nella vita di questo adolescente ad un certo punto compare un personaggio ambiguo, Lino, che con il suo agire determina in modo definitivo la rotta che la vita di Marcello dovrà prendere per sempre: il ragazzo non vuole più, da quel momento in poi, sentirsi diverso dagli altri, avere pensieri differenti (o che crede erroneamente che siano differenti) da quelli degli altri, dei suoi coetanei.

Nell’età adulta, questa ricerca ossessiva verso il volersi sentire uguale agli altri, spinge il protagonista ad aderire al movimento fascista (nel secondo atto siamo nel momento appena precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale) nel modo forse più facile: diventare una spia alla ricerca dei nemici del duce. Poco importa se questi “traditori della patria” sono persone che lui conosce molto bene, come un suo vecchio professore stabilitosi in Francia.

Marcello parte alla volta di Parigi, mascherando la sua missione con il viaggio di nozze insieme alla moglie Giulia, per trovare il professore e consegnarlo nelle mani dei suoi sicari.

Da quel momento inizia inesorabilmente il suo viaggio di non ritorno verso il punto più basso verso la morale umana, una a-moralità, con una visione del tutto distorta di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un vortice discendente da cui sembra salvarsi, ma non del tutto, solo la moglie Giulia, personaggio che ha comunque dei lati oscuri e nascosti.

Si arriva così al terzo e ultimo atto, che chiude il cerchio e le fila di una vita che ricorda quella di certi inetti così cari alla letteratura italiana a cavallo fra otto e novecento.

Leggendo le pagine di questo romanzo fa impressione pensare che molti dei fatti narrati sono tratti dalla biografia del suo autore, a partire dall’anno di nascita del protagonista Marcello che viene fatto nascere 1907 esattamente come Moravia.

C’è poi il tema dell’adesione al fascismo, che Alberto conosce molto bene essendo stato tacciato di pornografia dal regime, costretto a pubblicare dietro pseudonimo e poi alla fuga dopo l’8 settembre, e il tema dell’omicidio politico.

Nel 1937, infatti, Carlo e Nello Rosselli, cugini di Moravia, vengono assassinati in Normandia per mano di un’organizzazione filofascista francese.

Non mi soffermo a elencare i motivi per i quali quest’opera è così poco amata dalla critica; personalmente credo che sia assolutamente da scoprire e comprendere, soprattutto visto che il tema del conformismo, che può portare anche agli esiti catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti sotto forma di violenza di branco e bullismo, è sempre presente all’interno della società.

Il conformista è  un romanzo di segreti e rivelazioni, di calma sulla superficie a nascondere la tormenta e il terremoto che da sempre scuote l’animo umano.

Paola Cavioni

28 novembre 2021

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