Davide Tonelli Galliera e Pablo Trincia. Quando le cicatrici diventano parole.

Milano, 26 maggio 2025

“Niente di quello che è stato scritto in questo libro è stato in alcun modo romanzato dall’autore”
(Nota all’inizio di “Veleno”, di Pablo Trincia)

È tardo pomeriggio, Feltrinelli di Piazzale Gae Aulenti. Luogo “da fighetti”, solitamente.
L’occasione è di quelle ghiotte, almeno per me: Pablo Trincia introduce il libro Io, bambino zero di Davide Tonelli Galliera.
Il caso è quello raccontato in Veleno.

C’è un bel gruppo di persone, di ogni età e tipo, anche se i miei occhi vedono molte più donne presenti in quella platea da orario aperitivo, nella piazza con vista grattacieli.
Seduti, in piedi, appoggiati ovunque ci sia uno spiraglio: ascoltano. O forse, più che ascoltare, trattengono il fiato quando parla prima Pablo e poi Davide, in un botta e risposta che chiede rispetto e silenzio.

Io sono tra loro, con Maura, la mia compagna di “avventure” urbane improvvisate.
Mentre il sole, piano piano, inizia a calare su una Milano che io vedo sempre in corsa e di corsa, noi qua ci fermiamo per tutto il tempo della presentazione. Raccolti, in silenzio, mentre un vento insolito inizia a fare mulinelli tutto intorno a noi.

Pablo Trincia non ha bisogno di grandi effetti per tenere la scena. Gli basta un microfono e qualche sorso d’acqua ogni tanto. La sua voce è solida, con la sicurezza di chi sa di cosa sta parlando, di chi è abituato ad avere davanti una platea; di chi ha vissuto per mesi immerso nei documenti, nelle testimonianze, nei processi della complessa vicenda giudiziaria che, fra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, esplose come un uragano nei comuni di Mirandola e Massa Finalese, nella Bassa Modenese.

Ma oggi non è Pablo il protagonista. Lo è Davide. Il bambino zero. Dario, in Veleno.
Il primo.
Il cuore di una storia che ha fatto male. Troppo, e a troppi. E che ancora oggi divide, spacca, mette a disagio.

Davide ha il volto scavato di chi ha avuto bisogno di anni — forse una vita intera — per trovare il coraggio di raccontare, per tornare a vivere e non semplicemente sopravvivere, per rimettere insieme i pezzi di un’esistenza messa alla prova fin dal suo concepimento.
Risponde alle domande di Pablo, oppure va a braccio. Racconta frammenti della sua infanzia violata — non da un mostro nascosto sotto il letto, ma da un meccanismo ben più pericoloso: quello della suggestione, del sospetto, dell’errore giudiziario che diventa orrore e tragedia, che divide le famiglie e ne uccide i componenti (e non solo in senso metaforico).

Racconta di come si diventa “prova vivente” in un’indagine, di come ti si metta addosso un’etichetta che ti deforma. Di come sia facile, quando sei bambino, confondere il vero con la menzogna.
Nel suo racconto non si sente volontà di vendetta, né autocommiserazione.
Solo una potentissima voglia di giustizia. Di far capire che i mostri, in questa storia, ci sono. Hanno nomi e cognomi. E non sono quelli dei genitori dei sedici bambini coinvolti nella vicenda.

Nel pubblico, più di una persona si lascia andare al pianto.
Io, che non amo farmi vedere piangere — soprattutto davanti a sconosciuti — mi nascondo dietro gli occhiali da sole, ma la gola brucia per quel groppo che non va giù.
Questo libro, questa voce, hanno colpito nel profondo. Perché non è solo la storia di Veleno.
È la storia di ciò che può accadere quando si rompe il patto tra adulti e bambini. Quando il bisogno di “trovare il colpevole” supera quello di proteggere chi davvero è vittima.

Fra la folla di astanti, piano piano, si fa avanti una delle prime mamme coinvolte nel caso, che ancora non sa che fine abbiano fatto quattro dei suoi cinque figli.
Ogni parola è una coltellata. Soprattutto per chi ha figli.

Alla fine dell’evento siamo tutti in fila, per raccogliere la firma sul libro e un abbraccio da Pablo, che mai si nega al pubblico dei suoi eventi, e Davide, per ovvi motivi meno a suo agio. È un momento quasi solenne, con la consapevolezza che Davide, oggi adulto, ha deciso di non essere più solo una vittima.
Ha preso la parola.

E chi c’era, ieri sera, alla Feltrinelli di Gae Aulenti, ha avuto il privilegio di assistere a un atto di restituzione.
Di dignità.
Di verità.

Credo che non dimenticherò la sua voce e il suo volto. Ma soprattutto, non dimenticherò mai quello che ha detto.
Perché certe parole non passano. Restano.
Come cicatrici che smettono di fare male solo quando qualcuno, finalmente, ha il coraggio di mostrarle.

Paola Cavioni

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Serendipity. In cerca della meraviglia che non cercavo

“La vita è ciò che ti accade mentre fai altri progetti”

John Lennon

Qualche giorno fa, tornando dal lavoro, ero in metropolitana nel solito tratto tra l’ufficio e il parcheggio milanese dove lascio l’auto alla mattina.

Come spesso capita a chi prende quotidianamente mezzi di trasporto, ero presente fisicamente ma non “realmente”: in piedi in mezzo alla folla, con la mente sui pensieri in sospeso — cose da fare, figli, casa, appuntamenti da confermare.

Alla fermata di Duomo sono riuscita a sedermi, non avevo con me nulla da leggere e non mi andava di prendere ancora in mano il cellulare dopo una giornata passata al pc.

A quella stessa fermata è salita una coppia sulla settantina che si è seduta proprio di fronte a me.

Lui e lei. Eleganti ma senza essere fuori luogo, vestiti quasi uguali: entrambi giacca in camoscio e pantaloni color sabbia.

Non ho capito se fossero turisti o no perché da quella distanza e in mezzo al frastuono di centinaia di altre voci non sentivo in che lingua parlassero.

Ma non sarebbero comunque state le loro a colpirmi e restarmi impresse.

Lei, bellissima nel suo tempo non più giovanile, portava i capelli bianchi con una grazia semplice, lunghi fino alle spalle, viso senza un filo di trucco ma meraviglioso in ogni ruga d’espressione o d’età. Lui brizzolato, fisico asciutto.

Per tutto il tempo del viaggio lei ha tenuto la testa sulla spalla di lui, e di tanto in tanto allungava il collo per lasciargli un bacio sulla guancia, con quella leggerezza e intimità che solo chi ama conosce e riconosce negli altri. Ogni tanto sembrava che si avvicinasse al suo collo per annusarne profumo.

Lui di contro l’ha tenuta per mano tutto il tempo. Sempre.

Due ragazzini nel corpo di due adulti fatti e finiti.

Può far sorridere, ma è stato uno dei momenti più belli della mia giornata, sono scesa dalla metropolitana leggera, quasi anche io riempita di quell’amore che due sconosciuti si stavano scambiando nei loro semplici gesti di complicità.

Quella scena, breve e forse per molti anche insignificante, mi ha aperto il cuore perché mi ha ricordato che la vita non si svela sempre nei grandi eventi, ma nei dettagli che sfuggono se siamo troppo concentrati a guardare avanti.

Serendipity.

Serendipità in italiano, è “la capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi d’indagine.

In pratica è trovare qualcosa di bello o utile per caso, mentre si cerca tutt’altro.

Io in metropolitana non stavo cercando nulla a dire la verità, ma mi sono trovata davanti un’immagine che mi ha fatto tornare alla mente il famoso quadro Il bacio di Hayez in versione moderna ma senza tempo.

Viviamo inseguendo mete, orari, obiettivi scritti per noi da altri, in elenchi puntati sempre più lunghi.

Ma la verità è che spesso la vita accade altrove e ci passa accanto. E ogni tanto ci ricorda con prepotenza tutta la bellezza di quel sentimento universale che è l’amore.

Serendipity.

Accade nei margini, nei momenti non previsti, in quello sguardo che incroci per caso e ti resta dentro.

È il dono inatteso di qualcosa che non stavamo cercando — ma che, forse, stava cercando noi, come quei gesti d’amore su un treno affollato di gente troppo occupata a tenere la mente occupata in mille cose inutili.

Serendipity.

Come il titolo del film, è un frammento di bellezza in una giornata qualunque.

E penso che se non possiamo programmare la meraviglia, forse possiamo allenarci a riconoscerla con un cuore più disponibile; vivere lasciando spazio all’inatteso.

E ogni tanto lasciandoci semplicemente sorprendere.

Paola Cavioni, 3 maggio 2025

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Abbazia di Chiaravalle: viaggio nel tempo a pochi passi da Milano

Questo blog nasce dall’unione di due grandi passioni: la scrittura e l’arte. L’Italia, il nostro Paese, il paese più bello del mondo: questo blog vuole celebrare tutte le sue bellezze. Città, monumenti, opere conosciute e sconosciute, mostre ed esposizioni. Tutto questo visto attraverso gli occhi di una “non addetta ai lavori” ma di chi, semplicemente, ama e celebra l’arte così come è.

Apro il blog con un articolo che ho scritto qualche tempo fa e che si trova pubblicato nel sito MilanoFree:

Visitare l’abbazia cistercense di Chiaravalle in un fresco pomeriggio di fine dicembre è un’esperienza a metà fra il mistico e il viaggio nel tempo. Solo percorrendo, nel silenzio della campagna e con lo sguardo rivolto al grande parco agricolo che fronteggia l’abbazia, il breve tragitto che dal parcheggio porta all’ingresso del complesso, sembra quasi impossibile pensare che solo pochi chilometri più in là ci sia la città simbolo dell’economia italiana, Milano, con il suo traffico, i suoi grattacieli e i suoi rumori.

Milano è costellata di tante realtà monumentali, più o meno grandi, nelle quali si respira la Grande Storia, quella vera, quella dei libri. Chiaravalle (Clairvaux, per dirla poeticamente alla francese) però ha un’aura tutta particolare, quasi magica. Non mi stupirei per niente se vedessi comparire, fra il fumo delle candele nella navata centrale della chiesa, il cavaliere del XIII secolo Etienne Navarre, del film Ladyhawke, oppure il frate Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”. Perché in quest’abbazia, nonostante siano visibili anche a un occhio poco esperto i vari interventi e le ristrutturazioni che si sono susseguite nei secoli (la prima fondazione viene fatta risalire al 1135 circa mentre gli ultimi interventi rilevanti sono del 1600), il tempo si è fermato al medioevo, quando anche nell’Italia settentrionale esplodeva quel grande movimento di riforma della spiritualità cristiana che prende il nome di monachesimo.
Percorrendo il viale di ghiaia che dall’ingresso del complesso conduce alla chiesa abbaziale non si può non notare il contrasto, in facciata, tra il porticato inferiore secentesco e poco più indietro la struttura in laterizio con bifora e oculo di epoca sicuramente precedente. Ed è proprio il rosso mattone il colore predominante in tutta la struttura, splendido esempio di architettura gotica italiana.
Al suo interno l’edificio presenta la consueta pianta a croce latina, con volte a crociera costolonate che poggiano su pilastroni cilindrici in laterizio privi di capitello. Questi pilastri, come maestosi alberi secolari, sorreggono la chiesa da così tanti secoli e fanno riflettere sulle grandi capacità ingegneristiche dell’uomo del medioevo, periodo storico tutt’altro che “buio” dal punto di vista artistico.
Come di un film non si rivela mai la fine, non mi voglio soffermare sulla bellezza degli affreschi che la chiesa ancora conserva, seppur in parte danneggiati dal tempo, per non svelare nulla di più al visitatore che vorrà addentrarsi in questa meraviglia dell’architettura.
Vi posso solo consigliare la “colonna sonora” di questa visita: il silenzio della campagna milanese, una buona compagnia e il rumore delle foglie secche che si sbriciolano sotto le scarpe in una giornata d’inverno.