“E non c’è rimedio al mio disordine d’aprile, mi scuoto e mi rovescio per lavare via l’idea che troppe cose siano nate con la data di scadenza.”
(Max Gazzè, Disordine d’aprile)
Ieri pomeriggio ero in giro con mio figlio Francesco, sette anni. Io lo seguivo a piedi, lui in bicicletta, mentre spumeggiante come suo solito mi faceva mille domande, perfettamente coerente con la sua età.
Ad un certo punto siamo messi a ridere perché per le strade del paese si sentiva chiaramente l’aria frizzante della primavera in arrivo, ma anche l’odore dei camini, insieme ancora al profumo di carne sulla griglia che arrivava da qualche cortile.
Tutto questo sotto un cielo che stava diventando insolitamente grigio a chiusura invece di una giornata di sole, e proprio quando iniziavamo ad illuderci che la primavera fosse arrivata veramente, perché la pioggia degli ultimi giorni di marzo ha finalmente ceduto il passo al primo tepore d’aprile.
Ma aprile non si smentisce mai, resta un mese bellissimo e incoerente, esattamente come lo sono tutte le persone interessanti. Perché non sai mai cosa aspettarti.
Cielo limpido un attimo, poi nuvole, pioggia improvvisa, e di nuovo sole, ricordo addirittura un anno anche la neve. Aprile ti mette alla prova, non ti concede certezze. Ti fa credere nella stabilità della luce e poi ti costringe a cercare riparo dalla pioggia.
Amo profondamente questo periodo, per me è il mese dei desideri avverati, dato che sono diventata mamma per la prima volta proprio ad aprile. Eppure, l’ho sempre osservato come si guarda un quadro astratto: cercando di dargli un senso, senza mai riuscire davvero ad afferrarlo.
Prendendo in prestito le parole di Max Gazzè, non c’è rimedio al mio disordine d’aprile. Come ti capisco caro Max.
E nel mio personale disordine di aprile ci sono libri iniziati e lasciati a metà, pensieri e poesie scritti di getto e poi dimenticati, riletti e cancellati. Ci sono pensieri che si affollano senza ordine, parole che vorrebbero diventare qualcosa ma restano sospese. C’è tutta la forza e l’energia che mi regala il sole quando poi esce, e toglie dalle ossa il freddo dell’inverno.
E allora lascio che aprile mi porti dove vuole, accolgo le giornate con tutta la loro imperfezione.
Leggo senza seguire un ordine, scrivo senza sapere dove mi condurranno le parole. Guardo il cielo, ascolto la pioggia, scrivo elenchi di desideri, consapevole che molti non si realizzeranno mai mai sono proprio quelli che mi tengono viva. Respiro la luce e, nel caos di questo mese, trovo una forma di bellezza che, forse, proprio perché è bellezza, non ha bisogno di essere compresa o spiegata.
Forse il senso di aprile è proprio questo: imparare ad accogliere il disordine, a lasciare che le cose si mescolino senza opporre resistenza.
Smettere di cercare risposte.
Paola Cavioni, 2 aprile 2025
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When you want more than you have You think you need And when you think more than you want Your thoughts begin to bleed I think I need to find a bigger place ‘Cause when you have more than you think You need more space
(Eddie Vedder, Society)
Dal 2013, il 20 marzo è ufficialmente la Giornata Mondiale della Felicità; l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito questa ricorrenza per sottolineare il ruolo fondamentale della felicità e del benessere come obiettivi universali nella vita degli esseri umani e nelle politiche globali. Uno dei punti della Agenda 2030.
Sebbene questa giornata possa sembrare superflua (e anche un po’ naïf) in occidente, in una parte di mondo in cui si cerca costantemente e ossessivamente la felicità, il suo obiettivo è di farci riflettere sull’importanza di perseguirla anche a livello collettivo.
La risposta alla domanda “abbiamo bisogno di una giornata mondiale per ricordarci di essere felici?” parrebbe dunque essere sì, se per felicità usciamo dai confini dei nostri individualismi ed egoismi.
Se non parliamo di una felicità che rimane in superfice.
A maggior ragione se penso che proprio nel mese di marzo di cinque anni fa il mondo intero era travolto da una pandemia che ha messo in discussione molte delle nostre certezze, inclusa la nostra stessa idea di felicità, quando tutti ci siamo trovati chiusi in casa insieme ai nostri pensieri.
E forse, come capita spesso dopo un evento che ti sconvolge la vita, molti di noi hanno scoperto che la felicità non dipende affatto dall’accumulo di cose, ma dalla capacità di adattarsi e trovare serenità profonda e interiore anche nelle difficoltà. E molti proprio dopo la pandemia hanno attivamente cercato la loro personale strada per la felicità (penso anche al fenomeno delle “grandi dimissioni”, che ha avuto un’accelerata proprio nel post pandemia)
Viviamo in un’epoca in cui la felicità sembra essere diventata un traguardo da raggiungere obbligatoriamente, un prodotto che si può acquistare e mettere in mostra, o una metrica da social media. La felicità è troppo spesso scambiata per un simbolo di status o di apparente realizzazione, un obbligo, qualcosa che deve sempre arrivare da fuori.
“Questa è un’epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra, per occultare il vuoto della stanza.”
(Dalail Lama)
Eppure, la felicità è una condizione ben più complessa e meno definibile, che per alcuni certo può coincidere con il successo o l’acquisizione di beni materiali, mentre per altri, e io rientro sicuramente in questa seconda categoria, è più legata a uno stato interiore di pace e di realizzazione personale, di rapporto con sé stessi e che si riflette poi nel rapporto con gli altri.
Da diversi anni si parla del “caso Bhutan”, piccola nazione incastonato fra Cina e India con una popolazione a maggioranza buddhista, un paese che ha adottato il parametro della Felicità Nazionale Lorda al posto del Prodotto Nazionale Lordo, riconoscendo che il benessere di una nazione non si misura solo attraverso i dati economici, ma anche dalla qualità della vita e dal livello di serenità dei suoi cittadini. Un approccio che invita a pensare alla felicità come un valore collettivo da promuovere, come un motore della società, come responsabilità diffusa e obiettivo comune.
E non si può non pensare che questo sia anche legato al fatto che il buddhismo, in Buthan, è religione di stato (immagino già i nasi che si stortano al pensiero di accostare la parola Stato a quella di Religione, ma forse qualche mosca bianca esiste…).
Da qualche anno anche io mi sono avvicinata alla filosofia buddhista, che offre un punto di vista molto diverso rispetto alla concezione occidentale del benessere e della felicità.
Secondo il Buddhismo, la felicità non è il piacere momentaneo, ma è assenza di sofferenza.
La sofferenza (dukkha) è considerata parte della vita, ma può essere superata grazie alla saggezza e alla consapevolezza. In questa visione, la felicità non dipende da fattori esterni, come denaro, successo o relazioni, ma dalla nostra capacità di raggiungere l’equilibrio interiore. Solo attraverso una profonda comprensione della nostra mente e dei nostri desideri possiamo imparare a liberarci dalle illusioni che alimentano la sofferenza, coltivando la pace interiore e l’accettazione del presente così com’è.
Il Buddhismo promuove il non-attaccamento, cioè l’idea che la sofferenza nasce dall’attaccamento a ciò che è impermanente. Imparare ad accettare il cambiamento ci permette di vivere con maggiore leggerezza e in ultima analisi con maggior serenità.
Perché tutto passa.
Cose, persone, lavori, problemi, giornate storte.
La nostra stessa vita è destinata a finire; il non attaccamento è un continuo esercizio di felicità perché la capacità di non essere legati a ciò che è effimero ci permette di vivere con maggiore serenità e gratitudine.
Non aggrapparsi alle cose, alle persone o alle situazioni ci aiuta a rimanere centrati nel momento presente, accettando l’ineluttabile flusso della vita senza paura o rimpianto. In questo modo, possiamo sperimentare una felicità che non dipende dalle circostanze, ma dalla nostra capacità di essere in pace con il cambiamento e l’impermanenza.
Consapevolezza, compassione e gratitudine, sono elementi essenziali per il benessere duraturo, sicuramente più che fama, denaro e beni materiali.
Il tema della felicità, che forse ha anche molto a che fare con l’accettazione della nostra condizione di esseri limitati, da sempre ha affascinato filosofi, scrittori e anche uomini e donne di scienza. Credo sia un tema tanto affascinante come diffuso, esattamente come l’amore, soprattutto nella scrittura.
Di tutti i libri che ho letto sul tema ce ne sono 5 che più di tutti mi hanno colpito:
L’arte della felicità del Dalai Lama. In questo libro, il Dalai Lama esplora la felicità come un’arte da coltivare attraverso la consapevolezza, la compassione e l’equilibrio interiore. Un’opera che invita a riflettere sul vero significato della felicità, andando oltre il consumismo e le illusioni esterne, per scoprire la pace dentro di sé.
Il monaco che vendette la sua Ferrari di Robin Sharma. Spoiler, io adoro Sharma, questo libro in particolare è stato il suo primo best seller. Il monaco, è un racconto ispiratore che unisce saggezza orientale e dinamiche occidentali. Attraverso la storia di Julian Mantle, un avvocato di successo che ad un certo punto della vita sente crollare ogni sua certezza, il libro offre lezioni su come vivere una vita più equilibrata, trovando il vero significato al di là dei beni materiali e della carriera.
La via della leggerezza di Franco Berrino e Daniel Percorso in cui la leggerezza diventa una metafora per affrontare le difficoltà quotidiane con consapevolezza, senza essere schiavi delle proprie abitudini distruttive, portando anche molti studi scientifici a supporto del fatto che la gentilezza, e la felicità interiore, realmente allungano la vita.
Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert. Famosissimo romanzo da cui è stato tratto anche l’omonimo film. Una storia di viaggio e di ricerca interiore che racconta come l’autore si ritrovi in un percorso di auto-scoperta. Attraverso tre esperienze diverse in Italia, India e Indonesia, Gilbert esplora il significato della felicità, dell’amore e della spiritualità, trovando l’armonia tra mente e corpo.
Flow: Psicologia dell’esperienza ottimale di Mihály Csíkszentmihályi. Csíkszentmihályi è uno dei pionieri della psicologia positiva, quel ramo della disciplina che si concentra sullo studio e sullo sviluppo degli aspetti positivi dell’esperienza umana, esponendo qui il concetto di flow. Il flow (flusso) uno stato di totale immersione e soddisfazione in un’attività, che porta all’autorealizzazione. Un libro che offre una nuova prospettiva sulla felicità, legandola alla concentrazione profonda e al piacere che deriva dall’impegno totale in ciò che si fa. Lettura consigliata soprattutto a chi cerca la serenità anche facendo attività sportiva.
Ognuno di questi autori porta una visione personale, ma il messaggio comune è che la felicità non è un obiettivo esterno da perseguire, ma un processo interiore che dipende dalle nostre scelte, dalle nostre azioni e dalla nostra capacità di vivere nel presente.
Forse la Giornata Mondiale della Felicità non è tanto un’occasione per “ricordarci” di essere felici, quanto piuttosto un invito a riflettere su cosa significhi davvero la felicità.
In un mondo in cui siamo costantemente proiettati verso il futuro, desiderando sempre qualcosa in più, dovremmo imparare a godere di ciò che abbiamo nel presente, portando la felicità in ogni piccola azione quotidiana.
Qui ed ora.
Come quella felicità, calda, improvvisa e avvolgente, che c’è nell’abbraccio di un amico o nella risata di un bambino. È in questi momenti di semplicità che si nasconde forse la vera gioia.
La felicità è sempre lì, pronta a farsi trovare in ogni gesto di amore, spontaneità e connessione che ci regala la vita. Se siamo disposti ad accoglierla.
Paola Cavioni, 20 marzo 2025
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Arriva la primavera e si assiste al rinascere della vita.
In questo lunedì vi consiglio un libro per rinascere ogni giorno dell’anno: Piccoli esperimenti di felicità, di Hendrik Groen (edizioni Longanesi). Caso letterario del 2015, è rimasto per diverse settimane in testa alle classifiche di vendita dopo la sua uscita in Olanda ed è stato tradotto in diverse lingue.
Un libro che fa riflettere sulla condizione degli anziani nelle case di cura, sull’eutanasia, sul concetto del tutto personale di vita meritevole di essere vissuta.
“Martedì, 1° gennaio 2013
Anche quest’anno i vecchi continueranno a non piacermi. Il ciabattare dietro i girelli, l’impazienza fuori luogo, le lagne interminabili, i biscottini con il tè, i sospiri e i mugolii.
Ho ottantatrè anni e un quarto”
La vecchiaia è la fine di tutto? Si può vivere senza un progetto, uno scopo?
Prima di arrendersi e concedersi la dolce morte, Hendrik, un arzillo vecchietto olandese ospite di una casa di cura e narratore della storia, fonda il piccolo club dei “Vecchi ma non ancora morti”.
Perché? Per visitare un casinò, partecipare ad un workshop di cucina e ad un corso di tai chi. Insomma, vuole vivere al massimo quello che potrebbe essere il suo ultimo anno su questa terra.
Piccoli esperimenti di felicità è la cronaca diretta e senza filtri di un anno di vita, per ricordarci che si può sfidare la sola attesa della morte, destino cui spesso sono costretti gli anziani ospedalizzati, semplicemente vivendo.
Un libro sulla vita, per apprezzarla dall’inizio alla fine.