Io ci sarò.
Per sostenerti nelle letture piacevoli e davanti ai mattoni.
Con la pioggia e con il sole.
In salute e in malattia (la tua).
Finché copridivano ci terrà unite.
Amen
Tutti noi sappiamo che sono mille e più i motivi che ci spingono a scegliere un libro, a comprarlo o prenderlo in prestito: affezione nei confronti di questo o quell’autore, il consiglio di un amico, la voglia di restare aggiornati rispetto ad un determinato tema o alle novità letterarie.
Ogni tanto capita, come nei rapporti umani, che il titolo di un libro inneschi un vero e proprio colpo di fulmine. In alcuni fortunati casi, il colpo di fulmine non risulta sprecato.
Molto onestamente, a rischio anche di passare da ignorante, ammetto che fino a domenica scorsa conoscevo Giampiero Mughini (classe 1941) solo come personaggio pubblico, opinionista dai modi diretti e sopra le righe, giornalista dal fare incazzoso (mi si conceda il francesismo).
Per quale strana forma di preconcetto rispetto ai suoi modi, non avevo mai avuto occasione di leggere un suo libro.
Questo, appunto, fino a domenica scorsa, quando in uno dei miei frequenti giri in libreria non mi sono imbattuta, quasi per caso (stavo già andando verso le casse con altri volumi in mano ma ho dovuto aggiungerlo all’elenco) nel suo ultimo libro, edito da Bompiani Overlook nel settembre 2016: La stanza dei libri – Come vivere felici senza Facebook Instagram e followers.
Un titolo che da una parte evoca, nella mia testa, un’immagine assolutamente poetica e ideale (una stanza PIENA di libri! What else?), messa in contrapposizione con la più triste rappresentazione dell’epoca moderna: i social network.
Mughini ci parla, con gli occhi di oggi, da uomo di cultura che ha già superato la settantina, della sua vita attraverso l’amore, se non quasi l’ossessione, per la carta stampata. Un amore che nasce già durante la sua infanzia in una famiglia siciliana non certo abbiente e che quindi non facilmente poteva permettersi il lusso dei libri. Ma si sa, i veri amori nascono anche nelle situazioni più avverse.
L’autore ripercorre la sua esistenza attraverso i suoi ricordi e parlandoci della sua raccolta che aumenta all’aumentare dei suoi anni e dei suoi mezzi, della sua collezione di prime edizioni e ti volumi di pregio, di tutti i suoi memorabilia e libri d’artista.
Una raccolta di immagini che si compone pian piano e che sembra un insieme di fotografie, di titoli, di fatti storici e autori, che va riempire una sorta di moderna wunderkammer che profuma di carta stampata.
In questo volume di poco più di 150 pagine c’è tanto, forse troppo per un lettore della mia generazione. Ci sono gli ultimi 50 anni di storia d’Italia, una visione documentale e cruda degli anni di piombo, c’è la rivoluzione femminile e quella dei costumi sessuali, c’è la storia della letteratura ma anche quella dell’arte, della fotografia.
Termino oggi la lettura di questo libro con diversi pensieri e sensazioni.
Prima fra tutte la consapevolezza della pochezza della cultura che stiamo costruendo e che consegneremo alle nuove generazioni, quella fatua dei social network intendo. Una cultura fondata sull’apparenza che vince sul contenuto, sulla velocità che vince sull’approfondimento, rispetto a quello che è stato in passato, dove il libro ma più in generale l’amore per la cultura e la conoscenza sono stati davvero una spinta al miglioramento personale, un ideale di vita cui ispirarsi. Per essere per portatori di contenuti, noi dei contenitori vuoti.
Poi il pensiero a quante cose devo ancora conoscere e scoprire prima di comprendere fino in fondo un libro come questo, che ripercorre mille volti e vicende della storia italiana e non solo. A quanta parte di questa storia mi sia ancora sconosciuta.
Connesso a quanto sopra, la sensazione di ammirazione per l’uomo di cultura dietro il “personaggio Mughini”, che tanto ha ancora da insegnare a tutti, soprattutto per quanto riguarda la libertà di esprimere il proprio pensiero liberi da ogni tipo di condizionamento e ideologia.
E poi, in ultimo, la certezza di trovarsi di fronte ad un uomo che comunque il suo personale senso della vita lo ha trovato, risolto e perseguito fino in fono, a costo anche di risultare un personaggio scomodo e poco tollerante sopratutto nei confronti dell’ignoranza che vuole salire in cattedra invece di stare, come è giusto che sia, nella schiera dei discenti.

Ogni volta che mi capita di visitare una città d’arte italiana non posso fare a meno di pensare a quanto io sia fortunata, da amante profana dell’arte quale sono, a vivere proprio in Italia, nonostante i ben noti problemi che il bel paese ha, soprattutto di questi tempi.
In questa domenica, che finalmente porta con sé un po’ di autunno, ho potuto visitare la “Capitale italiana della cultura 2016”: Mantova, una città crocevia di ben tre regioni: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto.
Certo, visitare in poche ore una città così ricca di opere d’arte con una bambina di cinque anni che, nella sua innocente esuberanza, finge di fare la caccia al tesoro nelle stanze di Palazzo Ducale, è una esperienza impegnativa paragonabile a una mezza maratona.
Ma, nonostante questo, torno a casa con una piacevole sensazione di pienezza (e non parlo solo di quella “fisica” dovuta ad un ottimo pranzo domenicale a base di cucina tipica mantovana). E’ la pienezza di chi si è riempito gli occhi e l’anima di tanta immensa bellezza, la stessa che si prova dopo aver visto una qualsiasi opera di Giotto o Michelangelo.
Oggi per me Mantova ha il viso dolce di una ragazza con i capelli scuri e la treccia che, seduta in un angolo della maestosa basilica rinascimentale di Sant’Andrea, ne copia le magnifiche architetture interne, disegnandole a penna su un blocco da disegno.
Mantova ha i colore azzurro del cielo nella Camera picta nel Castello di San Giorgio, regalo dei Gonzaga e del Mantegna a tutta l’umanità (e quindi anche a me).
Mantova ha il profumo del vento che accompagna lo scorrere del Mincio che protegge e culla la città.
Mantova ti porta nelle orecchie il suono delle battaglie che l’hanno resa non solo grande, ma anche capitale rinascimentale, che ancora brilla per la magnificenze del Palazzo Ducale, città nella città seconda per dimensione, in Italia, solo al Vaticano.
Mantova ha il rispettoso silenzio dovuto ai Martiri di Belfiore, primi patrioti italiani.
Mantova ha il sapore dolce del lambrusco, ma è forte come i sassi delle sue strade.
Mantova ha il nome di Virgilio, dei Gonzaga, dell’Alberti e di Mantegna, di Pisanello e di Giulio Romano, di Matilde di Canossa.
Insomma, Mantova in queste poche ore mi ha mostrato mille volti, mi ha affascinato e incuriosito. Già so che ci dovrò tornare.