Righe su Miami Blues di Charles Willeford

Traduzione di Emiliano Bussolo

Ed. Feltrinelli su licenza di Marcos y Marcos (1984)

“Frederick J. Frenger Jr. aveva ventotto anni e preferiva farsi chiamare Junior, piuttosto che Freddy. Sembrava più vecchio, perché la sua vita era stata dura; le rughe ai lati della bocca erano troppo profonde per un uomo della sua età. Aveva gli occhi blu scuro e le folte sopracciglia chiarissime, quasi bianche. Il naso era stato rotto, e riaggiustato malamente, ma certe donne lo consideravano un bell’uomo. La sua pelle liscia era cotta dal sole dei lunghi pomeriggi passati nel cortile a San Quentin.”

 

 

La storia

Primi anni ’80, Florida. Freddy detto Junior atterra a Miami dopo un soggiorno, non certo di piacere, a San Quintino. Con sé ha la sua rabbia, risultato di una vita difficile, la sua furbizia e una collezione di documenti falsi e oggetti rubati qua e là. E nonostante gli anni passati in carcere, ha ancora voglia di fare male a qualcuno. Il malcapitato è un giovane Hare Krishna che serenamente sta chiedendo offerte ai viaggiatori nell’aeroporto.

Junior ha l’aspetto del bravo ragazzo, ma è un pazzo, assassino e psicopatico, che tira a campare giorno dopo giorno, che non ha scrupoli verso il prossimo ma neanche verso sé stesso, quasi che dopo aver visto San Quintino non abbia neanche più paura di nulla, neanche di morire.

Susie Waggoner, detta “Pepper”, è una ragazza di diciannove anni di limitati mezzi sia economici sia intellettivi, che arriva dalla periferia, precisamente da Okeechobee. Studia al Miami Dade e per mantenersi al college fa la prostituta. Vive con suo fratello, Martin Waggoner, dopo che il padre li ha cacciati entrambi di casa. Suo fratello è un Hare Krishna. Suo fratello è appena stato ucciso all’aeroporto di Miami, ma lei ancora non lo sa quando nell’hotel in cui offre le sue “prestazioni professionali”, incontra un bel giovane di nome Freddy.

Quante possibilità ci sono di uccidere impunemente una persona e incontrarne la sorella nello stesso giorno, in una città di oltre trecentomila abitanti? Freddy non sembra preoccuparti della statistica quando inizia una relazione proprio con Susie, che è ovviamente ignara dell’identità e dei trascorsi di quello che spera possa essere il suo principe azzurro.

La vita, nella realtà e in quella che scorre fra le pagine di un romanzo, è fatta di coincidenze e, come si dice, la fortuna è cieca, ma la sfortuna ci vede benissimo.

Dall’incontro di queste due vite sfortunate, quella di Junior e quella di Susie, inizia tutta la storia e iniziano soprattutto le disavventure del protagonista del romanzo: il sergente della omicidi Hoke Moseley assegnato, insieme al collega Bill Henderson, al caso dell’omicidio di Martin Waggoner.

Ma chi è Hoke Moseley? Il poliziotto dal nome improponibile è l’antieroe per antonomasia. È un poliziotto descritto in modo più che realistico, riusciamo infatti ad immaginarcelo in carne a ossa (a volte anche rotte). Non è il belloccio delle serie TV americane anni ’80, stile Miami Vice o Riptide (per spostarci invece sulla costa Ovest degli Stati Uniti). Moseley non è né oggettivamente bello né affascinante.

Tutt’altro.

È divorziato ma non è circondato da belle donne come succede a tanti scapoli quarantenni. Perché lui non è Sonny Crockett. E’ un uomo invecchiato precocemente, economicamente devastato dal divorzio, che vive in un misero appartamento e possiede una macchina scassata che puzza di vomito.

E porta la dentiera come un vecchietto qualsiasi.

Moseley è un antieroe perché sguazza in un mare di poliziotti corrotti senza denunciarli e anche lui si lascia corrompere all’occorrenza da qualche dollaro in più.

Uno sfigato, diremmo oggi. Ma anche un duro.

Chissà a chi si è ispirato Willeford, tra le tante persone incontrate nella sua vita, quando tratteggiava le caratteristiche e la personalità del suo “eroe”.

Non voglio svelare troppo di questo libro, in questi casi bisogna lasciar parlare la storia e il genio. Miami Blues scorre veloce in pochi giorni perché non riesci a smettere di leggerlo, perché ti accorgi subito che è vera la frase scritta dal New Yorker e riportata in quarta di copertina:  “Puro godimento…Willeford non usa mai una parola fuori posto”.

Con la sua scrittura diretta, minimale, asciutta e estremamente realista, Willeford riesce a trasportare il lettore in quegli anni e i quei luoghi, in giro tra Miami Beach e Baia di Biscayne ad ascoltare le storie dei marielitos di Cuba.

Miami Blues è un noir atipico perché viene rivelato fin dalla prima pagina chi sia l’assassino. Non c’è l’effetto sorpresa nel finale. L’assassino non è il maggiordomo ma il ragazzo con la faccia pulita che, a dispetto di quello che possa sembrare, è cattivo veramente.

E’ un romanzo in cui mancano però i “buoni-buoni” perché tutti i protagonisti che animano la varia umanità descritta da Willeford mostrano tanto spesso le loro ombre quanto le loro luci.

Proprio come nella realtà.

 

L’autore

Charles Ray Willeford III nasce a Little Rock, capitale dello stato dell’Arkansas, nel 1919.

Si trasferisce con la madre a Los Angeles in seguito alla morte del padre per tubercolosi nel 1922, ma rimane ben presto orfano. A tredici anni inizia una vita da hobo, un vagabondo che sceglie intenzionalmente uno stile di vita nomade, libero e improntato all’eliminazione del superfluo e al viaggio inteso anche e soprattutto come ricerca della propria identità.

Willeford gira per diversi anni nella nazione colpita Grande Depressione, fino ad arrivare ad arruolarsi, ancora minorenne con falsi documenti, nell’Esercito degli Stati Uniti d’America.

Nell’esercito partecipa, fra le altre cose, alla Seconda Guerra Mondiale in Europa, distinguendosi come comandante della Decima Divisione Corazzata e ottenendo numerose decorazioni e riconoscimenti.

La sua carriera come militare lo porta in giro per il mondo e anche, sul finire degli anni ’40, in Giappone (e forse non a caso Miami Blues inizia proprio con un Haiku, tipico componimento poetico giapponese di diciassette sillabe, scritto dal “brillante psicopatico californiano” protagonista del romanzo). E’ proprio dopo la fine del secondo conflitto mondiale che inizia la sua seconda vita come poeta, novellista e artista.

La sua biografia da sola sembra la trama di un romanzo: si sposa tre volte e nel corso della sua esistenza lavora come pugile professionista, attore, addestratore di cavalli e speaker radiofonico. Non si può certo dire che non abbia vissuto intensamente.

Charles Willeford muore a Miami il 27 marzo 1988 in seguito ad un attacco di cuore e riposa (finalmente, verrebbe da dire vista la sua vita tutto fuorché tranquilla) nel cimitero militare di Arlington.

L’elenco delle opere è lungo, qui voglio solo ricordare la quadrilogia che ha per protagonista il sergente Moseley, che inizia proprio con Miami Blues e continua con i romanzi Tempi d’oro per i morti (New Hope for the dead), Tiro mancino (Sideswipe) e Come si muore oggi (The way we die today).

Alle sue opere si è ispirato anche Quentin Tarantino.

Sembrerebbe che l’ultimo romanzo di Willeford sia uscito proprio il giorno della sua morte. Coincidenze.

 

Paola Cavioni

Righe per il piacere di scoprire nuove stanze … “La stanza dei Libri” di Giampiero Mughini, e i miei pensieri

 

Tutti noi sappiamo che sono mille e più i motivi che ci spingono a scegliere un libro, a comprarlo o prenderlo in prestito: affezione nei confronti di questo o quell’autore, il consiglio di un amico, la voglia di restare aggiornati rispetto ad un determinato tema o alle novità letterarie.

Ogni tanto capita, come nei rapporti umani, che il titolo di un libro inneschi un vero e proprio colpo di fulmine. In alcuni fortunati casi, il colpo di fulmine non risulta sprecato.

Molto onestamente, a rischio anche di passare da ignorante, ammetto che fino a domenica scorsa conoscevo Giampiero Mughini (classe 1941) solo come personaggio pubblico, opinionista dai modi diretti e sopra le righe, giornalista dal fare incazzoso (mi si conceda il francesismo).

Per quale strana forma di preconcetto rispetto ai suoi modi, non avevo mai avuto occasione di leggere un suo libro.

Questo, appunto, fino a domenica scorsa, quando in uno dei miei frequenti giri in libreria non mi sono imbattuta, quasi per caso (stavo già andando verso le casse con altri volumi in mano ma ho dovuto aggiungerlo all’elenco) nel suo ultimo libro, edito da Bompiani Overlook nel settembre 2016: La stanza dei libri – Come vivere felici senza Facebook Instagram e followers.

Un titolo che da una parte evoca, nella mia testa, un’immagine assolutamente poetica e ideale (una stanza PIENA di libri! What else?), messa in contrapposizione con la più triste rappresentazione dell’epoca moderna: i social network.

Mughini ci parla, con gli occhi di oggi, da uomo di cultura che ha già superato la settantina, della sua vita attraverso l’amore, se non quasi l’ossessione, per la carta stampata. Un amore che nasce già durante la sua infanzia in una famiglia siciliana non certo abbiente e che quindi non facilmente poteva permettersi il lusso dei libri. Ma si sa, i veri amori nascono anche nelle situazioni più avverse.

L’autore ripercorre la sua esistenza attraverso i suoi ricordi e parlandoci della sua raccolta che aumenta all’aumentare dei suoi anni e dei suoi mezzi, della sua collezione di prime edizioni e ti volumi di pregio, di tutti i suoi memorabilia e libri d’artista.

Una raccolta di immagini che si compone pian piano e che sembra un insieme di fotografie, di titoli, di fatti storici e autori, che va riempire una sorta di moderna wunderkammer che profuma di carta stampata.

In questo volume di poco più di 150 pagine c’è tanto, forse troppo per un lettore della mia generazione. Ci sono gli ultimi 50 anni di storia d’Italia, una visione documentale e cruda degli anni di piombo, c’è la rivoluzione femminile e quella dei costumi sessuali, c’è la storia della letteratura ma anche quella dell’arte, della fotografia.

Termino oggi la lettura di questo libro con diversi pensieri e sensazioni.

Prima fra tutte la consapevolezza della pochezza della cultura che stiamo costruendo e che consegneremo alle nuove generazioni, quella fatua dei social network intendo. Una cultura fondata sull’apparenza che vince sul contenuto, sulla velocità che vince sull’approfondimento, rispetto a quello che è stato in passato, dove il libro ma più in generale l’amore per la cultura e la conoscenza sono stati davvero una spinta al miglioramento personale, un ideale di vita cui ispirarsi. Per essere per portatori di contenuti, noi dei contenitori vuoti.

Poi il pensiero a quante cose devo ancora conoscere e scoprire prima di comprendere fino in fondo un libro come questo, che ripercorre mille volti e vicende della storia italiana e non solo. A quanta parte di questa storia mi sia ancora sconosciuta.

Connesso a quanto sopra, la sensazione di ammirazione per l’uomo di cultura dietro il “personaggio Mughini”, che tanto ha ancora da insegnare a tutti, soprattutto per quanto riguarda la libertà di esprimere il proprio pensiero liberi da ogni tipo di condizionamento e ideologia.

E poi, in ultimo, la certezza di trovarsi di fronte ad un uomo che comunque il suo personale senso della vita lo ha trovato, risolto e perseguito fino in fono, a costo anche di risultare un personaggio scomodo e poco tollerante sopratutto nei confronti dell’ignoranza che vuole salire in cattedra invece di stare, come è giusto che sia, nella schiera dei discenti.

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