“Onde tende questo vagar mio breve?” Giacomo Leopardi

La vera felicità esiste?

È possibile fare pace con il proprio essere al mondo?

È possibile esistere senza paura di vivere?

Cos’è la fragilità?

Perché bellezza e fragilità sono così legate fra di loro?

Quanto è importante dare al proprio destino anche una destinazione?

Quanto è importante tendere a quell’infinito che va oltre la brevità della nostra esistenza in questo mondo?

È possibile conservare, in tutta la nostra vita (adolescenza, maturità e fragilità della vecchiaia) quel rapimento, tipico dell’innamoramento, che illumina ogni nostra azione caricandola di significato e bellezza?

È possibile conservare quel rapimento ogni giorno, cercando di difendere e conservare la bellezza del fragile mondo che ci circonda e riconoscendo la nostra stessa fragilità in chi ci vive accanto?

Perché viviamo in un’epoca di passioni tristi?

 

A queste domande, e a molte altre, Alessandro D’Avenia prova a dare una risposta nel suo ultimo romanzo, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, pubblicato da Feltrinelli il 31 ottobre 2016, scritto sotto forma di corrispondenza con Giacomo Leopardi con una chiarezza, una delicatezza e una lucidità che raramente si trovano in un autore così giovane (39 anni al momento della stesura).

Il punto di partenza del romanzo è chiaro: arriva un momento, nella vita di ogni uomo, in cui ci si pone queste domande esistenziali.

Non per tutti il momento coincide con l’età adulta. Spesso ci confronta con adolescenti che sembrano già sconfitti e sopraffatti dal peso della vita, proprio perché non hanno trovato nessun adulto in grado di indirizzarli nel labirinto di questi interrogativi tanto grandi da smuovere le menti di poeti, filosofi e teologi.

Alessandro D’Avenia, che di adolescenti ne ha visti già tanti nella sua carriera di docente di scuola superiore, prova a dare una risposta a queste domande attingendo a piene mani dall’opera completa di Giacomo Leopardi (Recanati 29 giugno 1798 – Napoli 14 giugno 1837), primo autore moderno in un’epoca ancora classica. Un autore che nei suoi solo 39 anni di vita terrena ha saputo descrivere tutta la storia dell’Uomo nelle sue paure più profonde ma anche nelle sue più struggenti passioni.

Lo fa restituendoci un’immagine molto terrena e concreta del famoso poeta di Recanati, ben lontana dalla versione stereotipata delle nostre antologie, che lo descrivono come il poeta storpio e semi cieco, eternamente pervaso da un pessimismo che si fa storico, psicologico e poi cosmico.

Il Leopardi che qui troviamo, tra le pagine di un libro che è un saggio più che romanzo, è un giovane innamorato e non solo delle donne, come Geltrude Cassi Lazzari, lontana cugina, o la nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti alla quale dedica lettere appassionate e le poesie raccolte nel Ciclo di Aspasia. È un uomo curioso, innamorato della natura, che riesce leggere e a restituirci la poesia scritta fra i crateri della luna, che riesce a decifrare l’infinito oltre la famosa siepe che lo ha reso immortale.

Ma è anche un uomo deciso, tanto da sfidare la fragilità della propria condizione e pronto a fuggire dalla casa natia quando pensa che i suoi genitori, ed in particolare suo padre, non riconoscano il giusto valore della sua arte. Un giovane come quelli dei nostri giorni, che pensano di trovare un futuro migliore scappando di casa quando si sentono incompresi dai genitori, dagli amici, dagli insegnanti, da un amore non corrisposto.

La fuga di Leopardi termina ancora prima di nascere, ma di quell’evento ci rimane una toccante lettera scritta al padre Monaldo, interamente riportata nel libro, pagine di pura letteratura mascherata fra le righe di una corrispondenza privata e incredibilmente moderna. Questo a conferma che Giacomo Leopardi non è solo A Silvia e Infinito.

Leopardi, restituitoci magistralmente dagli occhi di D’Avenia, ci insegna che dobbiamo essere in grado di mantenere il miracolo che si compie ogni giorni nella storia di ognuno, cercando realmente di dare compimento alla nostra vita attraverso le nostre passioni, sfruttando i nostri talenti, sfruttando o sfidando la nostra contingente condizione fisica.

Ci insegna che la poesia è una luce che illumina anche quando tutto sembra buio e che ogni età è parte di un disegno più grande: adolescenza come arte di sperare, maturità come arte del morire, morire come arte di rinascere.

Non voglio svelarvi altro per non togliervi il gusto della lettura, ma mi piacerebbe che un libro come questo entrasse nelle nostre scuole superiori, che a tutti i giovani fosse data la possibilità di trovare in Leopardi un amico, un confidente da consultare nei momenti di crisi e a cui confidare, perché no, soprattutto le proprie gioie.

“Dalla lettura di un pezzo di vera poesia, in versi o in prosa, si può dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo di tela brevissima alla nostra vita.”

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1° febbraio 1829

Info:

Alessandro D’Avenia nasce a Palermo il 2 maggio 1977.

Frequenta il liceo classico. Fra i suoi docenti, padre Pino Puglisi, ucciso da Cosa Nostra nel settembre 1993.

Studia lettere classiche a Roma e consegue anche un dottorato di ricerca presso l’Università di Siena, con una tesi  su “Le Sirene omeriche e il loro rapporto con le Muse nel mondo antico”.

Nel 2006 si trasferisce a Milano dove si divide fra l’attività di insegnante, scrittore e sceneggiatore.

Il suo romanzo d’esordio, Bianca come il latte, rossa come il sangue, supera il milione di copie e viene pubblicato in 23 paesi stanieri.

Alessandro Dv’Avenia ha anche un blog personale: http://www.profduepuntozero.it

 

Dello stesso autore:

Bianca come il latte, rossa come il sangue, Milano, Mondadori, 2010.

Cose che nessuno sa, Milano, Mondadori, 2011.

Ciò che inferno non è, Milano, Mondadori, 2014

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“Quando si legge non si impara qualcosa, ci si trasforma in qualcosa”

La mente ha degli strani meccanismi di associazione degli eventi.

Nella mia memoria il Cile ha il volto sorridente di un esiliato conosciuto durante una vacanza in Croazia con la mia famiglia nel 1999. Non ricordo il suo nome, ma ricordo mio padre che mi racconta la sua storia: si era dovuto trasferire in Europa perché, giovane studente di sinistra, non poteva rischiare la vita nel suo paese d’origine.

A quattordici anni però ancora non conoscevo la travagliata storia contemporanea del Cile e di tanti altri paesi dell’America Latina. Non conoscevo ancora Perón, Batista e Fidel Casto, Allende e Pinochet.

La storia del golpe di Pinochet, in particolare, l’avrei conosciuta qualche anno più tardi, attraverso gli studi superiori e soprattutto dai libri di Isabel Allende (1942). Avrei letto ne La casa degli Spiriti la descrizione del primo tragico 11 settembre della storia contemporanea, quello del 1973, del Palacio de La Moneda che brucia sotto i bombardamenti dell’esercito, della repressione, delle sevizie ai dissidenti, dei desaparecidos. La dittatura ha a disposizione un intero vocabolario.

Diversi autori hanno trattato il tema del golpe in Cile, anche Luis Sepulveda (1949) ne Il Generale e il Giudice, ma Isabel Allende è indubbiamente la voce più nota, anche data la sua parentela con il presidente Salvador Allende, caduto proprio durante il golpe, forse suicidatosi proprio durante l’attacco al palazzo presidenziale.

Oggi, dopo il libro di Marcela Serrano  (1951)  Il giardino di Amelia (La Novena), conosco anche un’altra triste realtà che era all’ordine del giorno durante gli anni della dittatura cilena. Il confino.

Una storia che abbraccia , attraverso gli occhi dei protagonisti, gli ultimi trent’anni la storia del Cile.

Il libro si apre con il protagonista, il giovane Miguel Flores, che, sospettato di svolgere attività contro il regime, viene mandato al confino in una piccolo paese ad un’ora e mezza da Santiago, senza mezzi di comunicazione con il resto del mondo.

In questa sua nuova condizione di esiliato, Miguel trova protezione ed amicizia in una ricca vedova, Amelia, proprietaria della tenuta La Novena. Una donna dai modi diretti, anticonvenzionali che lo protegge, si prende cura di lui, lo fa riflettere sul mondo, sul potere della memoria, sulla vita e soprattutto lo avvicina al mondo dei libri.

“Mi piace tirar tardi, ma soprattutto con i miei libri […] Sapessi quante vite vivo! Se non leggessi, dovrei farmi bastare la mia vita e per quanto divertente possa essere, è sempre e soltanto una. Troppo poco per me.”

Tra i due nasce una forte complicità che sfocia in un’intimità che si intuisce, benché non mai esplicitamente descritta. Un rapporto che sembra sincero, fino a quando Amelia viene arrestata e torturata con l’accusa di aver favorito un dissidente. Miquel non è lì con lei per difenderla e renderle il favore: fugge in Inghilterra e riesce a rifarsi una vita, ancorché divorato dal senso di colpa. Devono passare vent’anni prima che l’uomo riesca a tornare nel suo paese, per cercare quello che è rimasto della Novena e di Amelia. Ma vent’anni non sono forse troppi?

In tutto il romanzo, la dittatura fa da sfondo alle vicende dei protagonisti, e raramente viene descritta nelle sue peggiori manifestazioni, in questo Marcela Serrano si conferma un’autrice delicata e accessibile a tutti.  Il giardino di Amelia guida il lettore in un percorso a ritroso, dal 2005 al 1985, compiuto dal protagonista per fare pace con il suo passato, per affrontare il senso di colpa dell’aver abbandonato la donna che lo aveva salvato, nel corpo e nello spirito.

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Paola Cavioni

Ancora da “Cecità”

“… Nessuno potrà salvarsi, la cecità é anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più la speranza.” 

Scriveva 20 anni fa José Saramago, quanto mai profetico. 

Cecità 

Oggi si inizia un nuovo viaggio nel buio. 

Primo libro della mia vita della letteratura portoghese.

Sarà l’inizio di un nuovo amore?

Follia in gennaio

“Per quanto mi riguarda, gennaio e febbraio non sono che un aperitivo al piatto forte del calendario, da marzo in poi, quando puoi finalmente portare il cane a passeggio con addosso soltanto un gilet imbottito. E’ allora che formulo i miei buoni propositi per l’anno nuovo…”

Elisabeth Egan, La felicità è una pagina bianca

Per me la felicità non è una pagina bianca. E’ una pagina piena di lettere, è così da sempre.

La felicità è il profumo di un libro nuovo. E’ accarezzare le pagine di un romanzo appartenuto ai tuoi nonni. E’ vedere tutte in fila le copertine del tuo autore preferito, in ordine nello scaffale della tua camera da letto. E’ scoprire un nuovo scrittore e pensare “come ho fatto a vivere fino ad ora senza di lui???”.

Il Natale appena passato è stato diverso dai soliti. Per la prima volta dopo tanti anni nessuno ha pensato di regalarmi un libro. Ci sono rimasta male come una bambina cui tolgono la testa alla sua Barbie del cuore, come quando ti cade l’ultimo pezzo di ghiacciolo, come quando cancellano la tua serie preferita prima che tu veda come va a finire.

Nonostante questo non mi sono persa d’animo e, dopo una sana scappatella in libreria, l’anno è iniziato insieme a tutti i suoi buoni propositi.

Per questo 2017 raccolgo la provocazione di una blogger che seguo con molto interesse (e ammirazione!), Beatrice Borini de L’angolo dei libri.

La provocazione? Leggere 60 libri in un anno. Per quanto io ci capisca ben poco di matematica, questo vuol dire 5 al mese, quindi almeno uno a settimana. Scary.

La sfida è ardua, direi quasi epocale (o da folli) per chi, come me, ha un marito, una figlia, un cane e soprattutto un lavoro a tempo pieno. E una giornata che, per quando io mi sforzi, continua a rimanere sempre di 24 ore. Ma se non siamo matti non ci piacciamo, quindi ci proviamo. E se non dovessi riuscirci, soccomberò combattendo (smile).

Per il mese di gennaio sono al libro numero 3 di questo elenco:

  • I baci non sono mai troppi di Raquel Martos;
  • Il Giovane Holden di J.D. Salinger
  • La felicità è una pagina bianca di Elisabeth Egan
  • Le dee dentro la donna di Jean S. Bolen
  • Cecità di José Saramago

Ammetto che c’è un pò di tutto, in linea con i miei gusti onnivori in fatto di letteratura. Dalla narrativa “leggera” contemporanea, ai classici moderni, alla psicologia femminile (ho di recente scoperto che l’archetipo femminile cui tendo è quello di Atena, ve ne parlerò. Nel frattempo, grazie Jean Bolen per il momento di autoconsapevolezza).

Grazie anche alla compagnia di questi libri, è stato un inizio di anno interessante, spero solo di riuscire a mantenere il ritmo, eliminando tutto ciò che è per me superfluo e che alla fine non mi fa stare bene.

E voi?

Avete già letto qualcuno di questi libri?

Avete qualche proposito interessante per questo anno nuovo?

A parte quello, si sa, di non fare buoni propositi.

5-di-gennaio

 

 

 

Sei arrivato, 2017

Ultimamente ho poco tempo per scrivere, o forse manca solo l’ispirazione giusta.

In compenso il tempo per leggere, quello non deve mancare mai per stare davvero bene. 

I medici dovrebbero aggiornare i loro protocolli: per la salute e’ necessario mangiare bene, fare sport, dormire 8 ore per notte e leggere tanti romanzi!

Prima settimana del nuovo anno, meritate ferie, chiusa in casa perché mia figlia e’ influenzata, sono al secondo libro del 2017 (il primo è un romanzo della spagnola Raquel Martos, I baci non sono mai troppi).

Per la serie “chi ben comincia”.. 

Buon anno!!!!

Nuove uscite

Uscito ieri.

Oggi mio.

Righe per il piacere di scoprire nuove stanze … “La stanza dei Libri” di Giampiero Mughini, e i miei pensieri

 

Tutti noi sappiamo che sono mille e più i motivi che ci spingono a scegliere un libro, a comprarlo o prenderlo in prestito: affezione nei confronti di questo o quell’autore, il consiglio di un amico, la voglia di restare aggiornati rispetto ad un determinato tema o alle novità letterarie.

Ogni tanto capita, come nei rapporti umani, che il titolo di un libro inneschi un vero e proprio colpo di fulmine. In alcuni fortunati casi, il colpo di fulmine non risulta sprecato.

Molto onestamente, a rischio anche di passare da ignorante, ammetto che fino a domenica scorsa conoscevo Giampiero Mughini (classe 1941) solo come personaggio pubblico, opinionista dai modi diretti e sopra le righe, giornalista dal fare incazzoso (mi si conceda il francesismo).

Per quale strana forma di preconcetto rispetto ai suoi modi, non avevo mai avuto occasione di leggere un suo libro.

Questo, appunto, fino a domenica scorsa, quando in uno dei miei frequenti giri in libreria non mi sono imbattuta, quasi per caso (stavo già andando verso le casse con altri volumi in mano ma ho dovuto aggiungerlo all’elenco) nel suo ultimo libro, edito da Bompiani Overlook nel settembre 2016: La stanza dei libri – Come vivere felici senza Facebook Instagram e followers.

Un titolo che da una parte evoca, nella mia testa, un’immagine assolutamente poetica e ideale (una stanza PIENA di libri! What else?), messa in contrapposizione con la più triste rappresentazione dell’epoca moderna: i social network.

Mughini ci parla, con gli occhi di oggi, da uomo di cultura che ha già superato la settantina, della sua vita attraverso l’amore, se non quasi l’ossessione, per la carta stampata. Un amore che nasce già durante la sua infanzia in una famiglia siciliana non certo abbiente e che quindi non facilmente poteva permettersi il lusso dei libri. Ma si sa, i veri amori nascono anche nelle situazioni più avverse.

L’autore ripercorre la sua esistenza attraverso i suoi ricordi e parlandoci della sua raccolta che aumenta all’aumentare dei suoi anni e dei suoi mezzi, della sua collezione di prime edizioni e ti volumi di pregio, di tutti i suoi memorabilia e libri d’artista.

Una raccolta di immagini che si compone pian piano e che sembra un insieme di fotografie, di titoli, di fatti storici e autori, che va riempire una sorta di moderna wunderkammer che profuma di carta stampata.

In questo volume di poco più di 150 pagine c’è tanto, forse troppo per un lettore della mia generazione. Ci sono gli ultimi 50 anni di storia d’Italia, una visione documentale e cruda degli anni di piombo, c’è la rivoluzione femminile e quella dei costumi sessuali, c’è la storia della letteratura ma anche quella dell’arte, della fotografia.

Termino oggi la lettura di questo libro con diversi pensieri e sensazioni.

Prima fra tutte la consapevolezza della pochezza della cultura che stiamo costruendo e che consegneremo alle nuove generazioni, quella fatua dei social network intendo. Una cultura fondata sull’apparenza che vince sul contenuto, sulla velocità che vince sull’approfondimento, rispetto a quello che è stato in passato, dove il libro ma più in generale l’amore per la cultura e la conoscenza sono stati davvero una spinta al miglioramento personale, un ideale di vita cui ispirarsi. Per essere per portatori di contenuti, noi dei contenitori vuoti.

Poi il pensiero a quante cose devo ancora conoscere e scoprire prima di comprendere fino in fondo un libro come questo, che ripercorre mille volti e vicende della storia italiana e non solo. A quanta parte di questa storia mi sia ancora sconosciuta.

Connesso a quanto sopra, la sensazione di ammirazione per l’uomo di cultura dietro il “personaggio Mughini”, che tanto ha ancora da insegnare a tutti, soprattutto per quanto riguarda la libertà di esprimere il proprio pensiero liberi da ogni tipo di condizionamento e ideologia.

E poi, in ultimo, la certezza di trovarsi di fronte ad un uomo che comunque il suo personale senso della vita lo ha trovato, risolto e perseguito fino in fono, a costo anche di risultare un personaggio scomodo e poco tollerante sopratutto nei confronti dell’ignoranza che vuole salire in cattedra invece di stare, come è giusto che sia, nella schiera dei discenti.

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Mangia

Perché Dio non ti sbatte una porta in faccia senza prima averti almeno aperto una scatola di biscotti

Ovvero, che cosa ci faccio qui?

 

Prima parte: Italia (Mangia)

Mi sono imbarcata nella prima avventura letteraria iniziata totalmente nel 2016, come anticipato in un post precedente: Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilber. Non ho ancora terminato la lettura, ma qualche spunto di riflessione volevo già condividerlo.

Non ho visto il film, non ho letto nessuna precedente recensione. Ho scelto il libro esclusivamente perché mi ha incuriosito il sottotitolo “Una donna cerca la felicità”. Arrivata anche io, ahimé, alla soglia dei fatidici trent’anni, come la protagonista del romanzo, sono anche io alla ricerca di quella che potrebbe essere definita la vera felicità (concetto assolutamente relativo, me ne rendo conto, ma qualche punto fermo nella vita dobbiamo pur cercarlo).

Per quanto riguarda la sua struttura, il romanzo è diviso in tre parti, quasi come fosse omaggio la Divina Commedia, corrispondenti a tre viaggi: l’Italia, India e Indonesia. Ogni capitolo rappresenta quindi uno dei verbi che compongono il titolo. Mangiare, pregare e amare. Già basterebbero queste tre cose per vivere felici.

Il viaggio della protagonista di questo romanzo parte proprio da questo: cosa ti fa essere profondamente infelice nonostante tu abbia una bella casa a New York, un marito che ti ama, un lavoro ben retribuito, la prospettiva di avere dei figli (“Avere un figlio è come farsi un tatuaggio in faccia. Devi essere maledettamente sicuro di volerlo davvero”). Come puoi soffrire di attacchi di panico quando hai già quello che la maggior parte delle persone desiderano anche per tutta una vita? Quando insomma, dovresti considerarti molto più fortunata della media.

Una storia che parte da un momento di crisi, uno di quei bivi della vita di cui tanto si parla, il momento in cui decidi se salire sul treno con la tua bella valigia, oppure guardarlo dalla banchina mentre parte.

Liz, la protagonista, decide di partire, cercando di trasformare in un nuovo inizio la sua crisi. Toccato il fondo, non resta che risalire per non annegare.

Il suo primo punto fermo è: imparare l’italiano. Dietro questa voglia di imparare una lingua parlata in un solo paese c’è ovviamente molto di più. C’è la ricerca del piacere e della bellezza fine a se stessa, senza nessuno scopo pratico. Il tornare a riappropriarsi del tempo della propria vita, uscendo per un attimo da quel frullatore che è l’esistenza adulta. Chi di noi non vorrebbe poterlo fare? Per un anno intero, staccare la spina alla ricerca della vera felicità. Quale luogo migliore per iniziare questo viaggio se non Roma, la città dell’amore per la cucina e per la dolce vita?

Per il momento mi riapproprio del mio tempo e della mia piccola parte di felicità tornando alla lettura.

Spero vogliate scusarmi.

A presto.

 

Paola

“Il momento in cui i tuoi amici hanno bisogno di te è quando hanno torto, Jean Luise. Non hanno bisogno di te quando hanno ragione…”

Righe su Và, metti una sentinella (Go set a watchman) di Herper Lee

 

Premessa dovuta.

Ci sono dei libri che crescono con te, che ti fanno crescere, senza i quali saresti decisamente un’altra persona.

Per me questo libro, IL libro, è stato Il buio oltre la siepe (traduzione un pò troppo libera dall’originale To kill a mockingbird – Uccidere un pettirosso) uscito nel 1960 ed opera della scrittrice statunitense Harper Lee (classe 1926 signore e signori).

Penso di avere avuto più o meno cinque anni quando vidi per la prima volta la trasposizione cinematografica, per la regia di Robert Mulligan, di questo bellissimo romanzo, con la magistrale interpretazione dell’immortale Gregory Peck. Il film, del 1963, ebbe la candidatura a ben otto premi Oscar e ne vinse tre (miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura non originale, migliore scenografia). Un vero ed indiscusso capolavoro.

Non ricordo invece quanti anni avevo quando lessi per la prima volta il romanzo, ricordo solo con  quanta gioia dovetti rileggerlo alle medie come compito per le vacanze. Mi sembrò quasi un premio più che una punizione. Mi sedevo su una sdraio al sole, sulla veranda della casa dei miei genitori e passavo ore intere a leggere, immedesimandomi nella piccola “Scout” Finch che corre a piedi nudi per le strade della assolata Maycomb.

Maycomb, città che in realtà non esiste ma che potrebbe identificarsi con una qualunque delle migliaia di cittadine del sud dell’Alabama e che Harper Lee ha plasmato sui ricordi della città della sua infanzia, Monroeville.

Senza rischio di esagerare, questo libro è stato determinante per la mia crescita umana e lo sviluppo della mia coscienza civica. Questo perché, e chiunque lo abbia letto lo può confermare, il libro tocca delle tematiche che erano spigolose negli anni ’50 ma che lo sono ancora oggi: il rapporto con la diversità, i diritti civili, la supremazia immotivata dell’uomo bianco, l’intolleranza e la discriminazione razziale.

Venendo a noi.

Chiedo scusa per la divagazione su Il buio oltre la siepe ma i due romanzi sono ovviamente imprescindibili l’uno dall’altro e avrebbe poco senso parlare solo del secondo.

Và, metti una sentinella, pubblicato in Italia nel novembre del 2015, fa da seguito a quello uscito nel 1960 ma che, come ci dice la stessa autrice, in realtà è stato scritto in precedenza, a metà degli anni ’50 circa.

In questo racconto vengono svelati anche dei dettagli che nel primo romanzo mancano, come la storia d’amore fra Atticus, il padre di Scout, e suo moglie, ma non voglio anticiparvi nulla per non togliervi il gusto della lettura.

Lo sfondo storico di questo romanzo è leggermente differente rispetto al primo: se nel primo i fatti si svolgono durante la grande depressione, ora, vent’anni dopo, siamo nell’Alabama degli anni ’50, dopo quindi la seconda guerra mondiale e in fase di ripresa per l’economia statunitense.

Ritroviamo la piccola Jean Luise Finch “Scout”, diventata ormai una giovane donna, che da New York torna in visita al suo paese natale, ritrovando l’anziano padre Atticus, la sua famiglia  il suo paese che in tutti questi anni non è cambiato. E’ interessante notare la differenza con cui il personaggio di Atticus viene dipinto in questo secondo romanzo. Se nel primo infatti sembra quasi un eroe romantico, qui ne scopriamo il lato più fragile ed umano, un uomo che come tutti commette degli errori, anche se in buona fede e che continua senza tregua a difendere le idee nelle quali crede e si riconosce.

Scout, di contro, fatica a riconoscere in questo anziano l’idea che si era fatta del padre, e da questo punto di vista il libro introduce anche il tema dello scontro fra generazioni: i giovani, idealisti e aperti al cambiamento e alla accettazione del diverso da una parte, e gli anziani ancorati al loro mondo fatto di regole, senza sfumature ma solo in bianco e nero, dall’altra.

Da qui la fatica della protagonista non solo appunto a riconoscere il padre, ma il paese intero, che ancora sembra voler difendere lo status quo della segregazione razziale, incomprensibile già ai suoi occhi di bambina e ancora di più ora che vive in una città cosmopolita come New York. Riuscirà a rimanere a Maycomb oppure cederà alla tentazione di ritornare nella grande città dove bianchi e neri vivono fianco a fianco senza discriminazioni? Riuscirà ad accettare suo padre così come è, consapevole che così era sempre stato anche se lei non riusciva veramente a vederlo? A voi la voglia di trovare una risposta a queste domande leggendo il libro.

In conclusione, devo ammettere che ho faticato a leggere questo romanzo, penso che per comprenderlo appieno sia necessaria una seconda lettura, altrimenti si rischia di perdere dei piccoli passaggi che non sono funzionali alla comprensione della narrazione, ma che sono comunque piccoli dettagli della storia.

A volte nella foga di leggere un libro tutto d’un fiato rischiamo di perderci qualche pezzo.

In questo caso vi consiglio, come facevo io da bambina, una lettura lenta e appassionata, magari all’ombra di una veranda, in un pomeriggio d’estate.

 

 

Siti consultati e per approfondimenti:

https://prezi.com/wupjakk2mq0e/maycomb-alabama-in-the-1930s/

http://www.sparknotes.com/lit/mocking/