Righe su Furore di John Steinbeck

“The highway is alive tonight
But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes
I’m sitting down here in the campfire light
Searchin’ for the ghost of Tom Joad”

(The Ghoast of Tom Joad, Bruce Springsteen)

La copertina di ‘Furore’ di John Steinbeck, un classico della letteratura americana che affronta temi di resilienza e ingiustizia sociale.

Penso che oggi non si possa leggere Furore senza accompagnarlo con la colonna sonora di Springsteen in “The Ghost of Tom Joad”. Le note così armoniose di questa ballata, il canto quasi sussurrato, creano un contrasto struggente con l’asprezza di un libro che è maestosamente e dolorosamente meraviglioso.

Con le sue quasi 700 pagine, è il primo classico che mi ha accompagnato tra gennaio e febbraio di questo 2025, un anno che sembra appena iniziato, eppure siamo già a marzo.

Quante cose è Furore! Universalmente considerato il capolavoro della maturità di John Steinbeck, l’ho amato profondamente proprio ora, avvicinandomi ai miei quarant’anni. Furore è un romanzo di denuncia sociale, una fiction che si sviluppa davanti agli occhi come in un unico piano sequenza di un film (che è stato poi effettivamente realizzato nel 1940 con un giovane Henry Fonda), è equilibrio perfetto nella costruzione dei personaggi e dialoghi.

Dopo Uomini e topi del 1937 è il capolavoro della maturità di Steinbeck…anche perché chi sono io per dire il contrario di un romanzo che ha vinto pure il Pulitzer e di un autore detentore di un Nobel?

Furore (The Grapes of Wrath in lingua originale, letteralmente “I grappoli dell’ira”) viene pubblicato nel 1939, pochi mesi prima che nei cinema esca il capolavoro di Victor Fleming, Via col vento.

Lo stesso anno, due Americhe a confronto: da una parte, quella nata dalle ceneri dalla Guerra di Secessione del 1861; dall’altra, quella segnata dalla Grande Depressione degli anni ’30.

La protagonista è la famiglia Joad, costretta a lasciare l’Oklahoma a causa della crisi agricola e della grande tempesta di polvere (Dust Bowl) che afflisse Stati Uniti e Canada fra il 1931 e il 1939. In questo contesto drammatico, la famiglia si trova a dover affrontare non solo le difficoltà economiche e la mancanza di lavoro, ma anche la perdita della propria terra e delle proprie radici. Mentre migrano verso l’Occidente, cercano nuove opportunità e una vita migliore, ma si imbattono in sfide inaspettate, come la povertà, la discriminazione e lo sfruttamento.

Il viaggio verso la California, tormentato da fame, lutti e ingiustizie, in cerca di una vita migliore diventa non solo una migrazione geografica, ma anche un’esplorazione della resilienza umana di fronte all’ingiustizia e alla disperazione. Tutta la disperazione e la forza di chi non si arrende al proprio destino.

“Non puoi sradicare l’anima della gente, nemmeno con tutta la forza del mondo.”

Il romanzo affronta numerose tematiche di assoluta attualità, che non possono non risuonare al lettore moderno: lo sfruttamento del lavoro umano, la disumanizzazione imposta dalle grandi corporazioni (ora multinazionali), la perdita di identità culturale, la migrazione e la percezione del “diverso” come una minaccia, colui che viene a rubare il lavoro.

Il messaggio di Steinbeck resta ancora incredibilmente attuale: oggi l’avvento della tecnologia e la globalizzazione hanno trasformato radicalmente le dinamiche del lavoro ma le disparità economiche e sociali persistono e forse sono ancora più evidenti di quanto lo fossero novant’anni fa, ovunque nel mondo.

La storia dei Joad ritorna oggi, in un mondo in cui le crisi economica, i cambiamenti climatici e i conflitti spingono milioni di persone a cercare rifugio e opportunità altrove. Le difficoltà incontrate dai Joad nel loro viaggio verso una terra promessa, che non è mai esistita e che fondamentalmente non li vuole, ricordano le esperienze di molti migranti contemporanei, evidenziando come la lotta per la dignità e la giustizia sia universale e senza tempo.

Se Furore era una denuncia delle ingiustizie sociali negli anni ’30, oggi il libro può essere letto a posteriori come una profezia del mondo moderno, quasi come è stato per 1984 per altri motivi. La narrazione di John Steinbeck non solo mette in luce le difficoltà e le sofferenze delle classi lavoratrici, ma esplora anche i temi universali della dignità umana e della lotta per la giustizia. La lotta dei Joad, protagonisti del romanzo, rappresenta una condizione che continua a risuonare nella nostra società contemporanea, dove le disuguaglianze economiche e sociali sono ancora pervasive. La forza e la resilienza degli individui di fronte all’oppressione ci ricordano che, nonostante le sfide, c’è sempre la possibilità di ribellione e di cambiamento. Inoltre, le dinamiche familiari e l’unità dei personaggi ci forniscono una particolare prospettiva sul valore della comunità in tempi di crisi, rendendo il messaggio di Steinbeck non solo rilevante, ma anche profondamente emozionante per le generazioni attuali.

I migranti di oggi non sono tanto diversi dai Joad: cercano un luogo in cui poter lavorare e vivere dignitosamente, ma spesso incontrano ostilità, sfruttamento e pregiudizi. L’America di Steinbeck è una terra di sogni infranti, proprio come oggi molte nazioni che si presentano come promesse di futuro finiscono per diventare campi di battaglia burocratici e sociali per chi cerca una seconda possibilità.

La capacità di Steinbeck di descrivere con realismo e profondità le sofferenze e le speranze dei suoi personaggi rende Furore un’opera senza tempo, non solo un documento che vale come testimonianza di un preciso momento storico che ha cambiato per sempre le sorti di una nazione, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana, invitando i lettori a confrontarsi con le ingiustizie del passato e del presente.

Ingiustizia.

È questo il sentimento più profondo che in ultimo accompagna ogni azione compiuta e ogni parola pronunciata dal vero protagonista della storia, Tom.

“Ed ecco che cosa puoi sapere per certo: terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché questa è l’unica qualità fondamentale dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo.”

Con il suo lavoro, e Furore in particolare, John Steinbeck ha influenzato profondamente molti autori moderni e contemporanei, per il suo stile narrativo diretto e realistico, per la predilezione verso temi legati alla lotta della classe lavoratrice, e per l’esplorazione del rapporto tra uomo e natura.

Cormac McCarthy, Jonathan Franzen e Kent Haruf, solo per citarne alcuni, possono essere considerati in qualche modo eredi del suo stile e della sua poetica.

Furore è più di un romanzo. È un manifesto di lotta, di resistenza e di speranza, che si chiude con un’immagine potentissima (che non anticipo per non togliere nulla al futuro lettore).

La sua attualità e immortalità ci impongono di non dimenticare mai che la storia può ripetersi e che l’unico antidoto alle ingiustizie è la solidarietà. La memoria storica è il nostro strumento più potente per evitare che le cicatrici del passato vengano riaperte, e solo attraverso l’unione possiamo sperare di costruire un futuro più giusto per tutti.

“Io sarò sempre ovunque ci sia gente che soffre, lotta e spera.”

L’autore

John Steinbeck (1902 – 1968) nasce a Salinas in California e cresce in una regione agricola, cosa che influenza profondamente la sua scrittura. Dopo aver abbandonato gli studi universitari, svolge diversi lavori manuali, acquisendo una conoscenza diretta delle difficoltà dei lavoratori agricoli, tema centrale del suo stile narrativo. Vincitore del Nobel per la letteratura nel 1962, nel 1964 il Presidente Lyndon B. Johnson gli conferisce la Medaglia presidenziale della libertà, uno dei più alti riconoscimenti civili conferiti dal presidente degli Stati Uniti, che viene assegnata a individui che abbiano compiuto atti straordinari a favore della libertà, della sicurezza nazionale, della cultura, della scienza, dell’educazione, della salute pubblica, dei diritti civili o di altre cause meritevoli.

Ha lasciato un’eredità letteraria straordinaria, raccontando con empatia e realismo le sfide dei più deboli nella società americana.

Se ti è piaciuto il post lascia un commento e un like, ricorda di seguire Righe di Arte con il tuo account di WordPress o inserendo il tuo indirizzo email nella sezione “Segui questo blog”. In questo modo riceverai una notifica ogni volta che pubblicherò nuovi contenuti.
Trovi@righediarte anche su Facebook e Instagram.

Paola Cavioni, marzo 2025

Cinque (importanti) lezioni che ho imparato dai libri

“Una volta che avrai imparato a leggere, sarai libero per sempre.”
(Frederick Douglass)

Ogni ricordo significativo della mia vita è legato a un libro. Ogni istante che ricordo, sia positivo che negativo, è contrassegnato dal ricordo di uno o dell’altro libro. Ogni cambiamento, ogni passaggio, ogni stagione. Non riuscirei a immaginare la mia vita, i miei spazi, le mie conversazioni, senza libri e senza il loro profumo.

Ricordo l’estate calda e la veranda dei miei tredici anni, la sdraio sulla quale per la prima volta ho incontrato Atticus Finch con Scout, il Cardinale Richelieu, Paul Sheldon e tutti gli altri personaggi che hanno popolato la mia immaginazione di adolescente introversa. Ricordo i libri che stavo leggendo quando sono nati i miei figli. Quel Santiago Posteguillo che avevo sul comodino quando è morto mio padre, e la fatica che mi è costata riaprirlo la mattina dopo averlo salutato per sempre.

Da adulta, ho cercato una casa che fosse adatta alla famiglia e ai libri, e conservo ancora un pregiudizio da lettore: se entro per la prima volta in una casa, la prima cosa che faccio è controllare quanti e quali libri ci sono sugli scaffali (questo non l’ho ancora letto!).

La domanda più difficile a cui mi capita di rispondere è sempre “Qual è il tuo genere preferito?”.

Amo e leggo tutto: dai classici mattoni ai romanzi leggeri, autori semi sconosciuti, saggi, libri di sviluppo personale. Non ho mai messo un limite alla mia curiosità di esplorare e scoprire, e penso che mai lo farò.

Aprirsi a questa scoperta è come aprirsi alla conoscenza di nuove persone.

C’è però una costante nel mio approccio alla lettura: non permetto a nessun libro di sfuggirmi senza portarmi a casa un piccolo o grande insegnamento, che va a riempire una valigia preziosa e solo mia. Ecco perché ho deciso di mettere insieme cinque delle lezioni più importanti che ho imparato dai libri, selezionandone uno per ogni insegnamento. Lezioni che segnano una rotta, che non sempre, purtroppo, riesco a mettere in pratica, ma che segnano comunque una direzione.

L’ultima, la più recente e forte, la devo a un grande uomo che ci ha lasciato proprio pochi mesi fa.


  • Saper rallentareUn indovino mi disse di Tiziano Terzani

A marzo di quest’anno, una mattina come tante, mentre andavo a prendere il treno, ho avuto un incidente in macchina. Un incidente stupido che però mi ha lasciato, per settimane, una fottuta paura di rimettermi al volante. Passavo ogni secondo a maledire il fatto di non avere la macchina, a maledire la persona che mi aveva causato l’incidente, ripensando a ogni frazione di secondo di quella mattina pensando “se solo fossi stata più attenta”, tutte quelle cose che si dicono col senno del poi.

Ma c’è un però.

In quelle settimane di lentezza forzata, prima di riuscire a sistemare la macchina, ho potuto accompagnare mio figlio Francesco all’asilo ogni mattina, godendomi i suoi ultimi giorni da “remigino” prima dell’inizio della scuola elementare. Un regalo bellissimo e inaspettato: gli abbracci prima di entrare a scuola e i bacini stampati.

Saper rallentare e guardare le cose da un altro punto di vista è la lezione di Un indovino mi disse di Tiziano Terzani. Nel 1993, Terzani rinunciò ai voli per un intero anno, costretto a rallentare a causa della profezia di un indovino che, molti anni prima, gli aveva predetto che nel 1993 sarebbe morto in un incidente aereo. Girare l’Asia senza poter volare diventò il primo passo di un viaggio straordinario, che gli regalò una prospettiva completamente nuova su un continente affascinante, ma segnato da guerre e complessità.

Rallentare, respirare a pieni polmoni, concedersi il lusso di diventare più consapevoli e coscienti.


  • Restare umaniCecità di José Saramago

Cecità è un romanzo distopico, ma nemmeno troppo, che ci sbatte in faccia l’ipotetico crollo della società occidentale, colpita da una misteriosa malattia che rende tutti ugualmente ciechi, inabili e disumanizza, mettendo gli uomini gli uni contro gli altri. Tutti gli uomini tranne una donna.

La cecità di Saramago è ovviamente metafora della cecità morale e spirituale, cosa che ci spinge a riflettere su un atto di coraggio dal valore inestimabile: restare umani. Una umanità senza nome, in cui ogni personaggio è archetipico.

Mettere da parte il proprio egoismo, restare umani significa riuscire a rispecchiarsi nell’altro, nel vedere ciò che ci unisce piuttosto che ciò che ci divide. Significa letteralmente vedere l’altro. Cecità di Saramago è un’opera potente che ci invita a riflettere su cosa significhi davvero essere umani, mettendo in guardia contro una società in cui l’individualismo prevale sulla collettività e in cui, forse, vediamo senza comprendere.

Col senno del poi, Cecità mi ha fatto pensare a un periodo della mia vita in cui ho sentito davvero il peso dell’individualismo della società occidentale. Come molti, mi sono trovata a dover affrontare momenti di solitudine e frustrazione, e per un po’ ho guardato il mondo da una distanza di sicurezza, pensando solo ai miei problemi. Ma è stato proprio in quel momento che ho imparato, forse per la prima volta, cosa significa davvero essere “umani”: è un atto di responsabilità reciproca, è la capacità di aprirsi all’altro, di comprendere le sue sofferenze e i suoi bisogni. Non siamo davvero completi se non vediamo l’altro, se non siamo disposti a mettere da parte il nostro egoismo per far spazio all’empatia. Questo è stato uno degli insegnamenti più importanti che ho ricevuto dai libri: restare umani non vuol dire essere perfetti, ma riconoscere che l’umanità è una rete di relazioni che si costruisce solo se siamo capaci di vedere davvero l’altro.


  • Il potere curativo della letteraturaL’arte di essere fragili di Alessandro D’Avenia

Nel mio blog ho parlato più volte di Alessandro D’Avenia, uno degli autori italiani contemporanei più profondi. Ho amato tutti i suoi primi lavori, in particolare L’arte di essere fragili, un romanzo-saggio sulla vita di Giacomo Leopardi, in cui D’Avenia cerca di restituire a Leopardi la sua umanità, togliendogli quella patina di “sfigato” che spesso gli viene attribuita nei programmi scolastici.

Leopardi ci ha lasciato un grande insegnamento: la letteratura e la poesia sono luci che illuminano anche quando tutto sembra buio. Ogni età è parte di un disegno più grande: adolescenza come arte di sperare, maturità come arte del morire, morire come arte di rinascere.

Nel libro, D’Avenia non si limita a raccontare la vita di Leopardi, ma esplora anche il concetto di fragilità come parte integrante della condizione umana. La fragilità, lungi dall’essere un limite, è vista come una risorsa, un’opportunità di crescita e di scoperta. Attraverso le parole di Leopardi, D’Avenia ci invita a riconoscere la bellezza anche nelle nostre debolezze, a guardare la vita con uno sguardo più consapevole e più profondo. La letteratura diventa, in questo contesto, uno strumento terapeutico che ci aiuta ad accettare noi stessi e a fare pace con le nostre difficoltà, ricordandoci che ogni emozione, anche la più dolorosa, ha un valore intrinseco.

Questa visione della letteratura come cura non è solo una riflessione teorica, ma una pratica che possiamo applicare alla nostra vita quotidiana. Leggere, infatti, non è solo un atto intellettuale, ma un’esperienza che coinvolge le emozioni e che ci permette di entrare in contatto con noi stessi in modi che altre forme di comunicazione non riescono a fare. Quando mi immergo nelle pagine di un libro, spesso scopro o ritrovo parti di me che avevo dimenticato o che non avevamo mai conosciuto. La lettura ha il potere di guarire le ferite più profonde, di dare un senso alla sofferenza e di restituirci speranza, anche quando tutto sembra perduto.


  • Ogni vita è un capolavoroL’eleganza del riccio di Muriel Barbery

Ho un grosso difetto che ammetto ormai con consapevolezza: sulle prime impressioni mi sbaglio sempre. Tendo a non fidarmi più del primo giudizio sulle persone che incontro. Questa consapevolezza mi ha permesso di imparare una lezione importante: ogni vita, anche quella più apparentemente comune, può nascondere una dimensione unica e profonda.

Nel personaggio di Renée, portinaia in un elegante palazzo parigino in L’eleganza del riccio, scopriamo un universo complesso e ricco di significati. La sua passione per la cultura, lontana dagli occhi degli altri, dimostra che il valore di una vita non si misura dall’apparenza o dalla posizione sociale, ma dalla capacità di coltivare un pensiero autentico e di vedere la bellezza nascosta. Ogni dettaglio contribuisce a creare una “trama” personale, trasformando la vita in un’opera d’arte unica.

Questa lezione è diventata particolarmente significativa per me nella vita quotidiana, dove spesso, come tutti, sono portata a giudicare le persone solo dalla superficie, da una professione o dallo status sociale. Mi è capitato più volte di scoprire, dietro a persone che inizialmente sembravano banali o poco interessanti, mondi interiori ricchi e sorprendenti. In una recente occasione, ad esempio, ho incontrato una persona che, per quanto silenziosa e poco appariscente, nascondeva una passione profonda per la musica e un’intelligenza acuta che si rivelava solo nelle conversazioni più intime. Quel momento mi ha fatto riflettere su come spesso il nostro giudizio possa essere limitato e su come, invece, ogni persona abbia una storia da raccontare, una trama che può essere altrettanto straordinaria quanto quella di un romanzo. La lettura di L’eleganza del riccio mi ha spinto a rallentare, a guardare oltre la superficie, a cercare la bellezza nascosta in ogni individuo, ricordando che ogni vita ha qualcosa di prezioso da offrire.


  • Raccontarsi con parole giusteLe parole per dirlo di Franco di Mare

Il 28 aprile 2024, come moltissimi italiani, ho seguito l’ultima intervista televisiva del giornalista Franco di Mare, che fino a quel momento avevo associato ai programmi pomeridiani della RAI. Quel giorno, però, qualcosa è cambiato. Non era più solo l’intervista al giornalista di fama, ma l’incontro con un uomo che aveva scelto, con una profondità rara, di raccontarsi in modo sincero e vulnerabile, nell’ultimo drammatico tratto della sua vita. Per questo avevo deciso di leggere subito il suo ultimo lavoro, Le parole per dirlo.

Nel libro, Di Mare non racconta solo la sua carriera, ma soprattutto il suo percorso interiore umano, attraverso il suo lavoro e la sua esperienza di reporter di guerra, con un linguaggio autentico, immediato, di una semplicità quasi disarmante ma allo stesso potente come l’esplosione di una stella.

Da questo libro, che è diventato poi il testamento morale e spirituale del giornalista, ho imparato quanto, nella vita quotidiana, sia difficile ma essenziale scegliere le parole giuste per raccontarsi.

Le parole, se non sono scelte con consapevolezza, rischiano di diventare superficiali, di non fare giustizia alla complessità di ciò che vogliamo comunicare. Di non fare giustizia alla nostra storia.

Raccontarsi è anche un atto di coraggio, una sfida a mettersi a nudo, a permettere alle proprie parole di fare il loro lavoro: quello di avvicinare gli altri, di condividere la propria umanità.

Quante volte, in mezzo ai mille pensieri e preoccupazioni, non ci fermiamo a riflettere sul potere di una parola ben scelta? Quante volte ci risparmiamo dal dire ciò che davvero pensiamo o sentiamo per paura di essere fraintesi, o per la paura di apparire troppo vulnerabili? Franco di Mare mi ha insegnato che le parole giuste sono quelle che riescono a farci sentire davvero connessi agli altri, quelle che, senza maschere, raccontano la nostra verità. Il vero coraggio sta proprio nel saper dire ciò che siamo, senza paura di mostrarsi imperfetti o incompleti. Raccontarsi anche con parole di perdono e comprensione verso sé stessi, penso che questa sia la lezione e la sfida che resta leggendo questo libro.

E siamo alla conclusione di questo lungo post.

Per me libri sono molto più che semplici storie su pagine di carta: sono viaggi, lezioni, riflessioni che restano con noi per tutta la vita. Anche se non sempre riesco a mettere in pratica le lezioni che mi trasmettono, cerco sempre nei libri una guida per essere ogni giorno migliore, più consapevole.

Alla fine, più umana.

A te che sei arrivato a leggere fino a qui dico grazie di cuore.  

Mi piacerebbe leggere un commento con la tua esperienza e le lezioni più importanti che hai imparato dai libri, per poter condividere insieme una ricchezza che cresce ogni volta che la si condivide.

Se ti è piaciuto il post, ricorda di seguire Righe di Arte con il tuo account di WordPress o inserendo il tuo indirizzo email nella sezione “Segui questo blog”. In questo modo riceverai una notifica ogni volta che pubblicherò nuovi contenuti.
Trovi @righediarte anche su Facebook e Instagram.

Paola Cavioni, 30 novembre 2024

“Trilogia di New York” di Paul Auster e la scrittura perfetta

“I libri vanno letti con la stessa cura e la stessa riservatezza con cui sono stati scritti.”

Paul Auster

Paul Auster, La trilogia di New York, edito da Einaudi

Scrivere della Trilogia di New York mi ha messo in difficoltà. Più che altro, mi ci è voluto parecchio tempo per mettere insieme le parole  più adatte in uno scritto degno dello stile di Paul Auster (o almeno ci provo)  per parlare di un libro che ho scoperto lo scorso settembre e che ho letto in un paio di giorni.

Per chi ama scrivere, come me, ogni lettura è fonte di miglioramento per affinare il proprio stile, ogni nuovo autore scoperto rappresenta un maestro da cui carpire tecniche e segreti. Leggere la Trilogia è un’illuminazione.

Perché la scrittura di Paul Auster è essenziale, asciutta, senza fronzoli. Niente di più, niente di meno. Perfetta.

Auster è un architetto delle parole, che costruisce periodi, psicologia dei personaggi, capitoli e intrecci, con la stessa pulizia ed eleganza delle architetture moderniste di Mies Van Der Rohe. Questo per quanto riguarda lo stile, perché il contenuto è un’altra storia… La Trilogia  infatti è una discesa negli inferi della vita frenetica e alienante della New York degli anni ’80, un’esplorazione dell’animo umano nelle sue tante sfaccettature fra nevrosi e follie.

Una scrittura diretta, ipnotica e allo stesso tempo ruvida, che ricorda molto lo stile di Charles Willeford. C’è infatti più di un’analogia fra i due autori. Una fra tutte è il richiamo al Walden di Henry David Thoreau, ma lascerò scoprire a voi tutti gli indizi e le somiglianze disseminati qua e là nelle opere e nelle biografie dei due scrittori americani.

Se non avete ancora letto Willeford, vi invito a farlo; so che invece Thoreau mette in difficoltà anche le menti più allenate alla lettura, ma conviene comunque provare a conoscerlo.

La Trilogia si compone di tre romanzi brevi: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa. La sua pubblicazione nella metà degli anni ‘80 consacra lo scrittore nell’olimpo della letteratura americana contemporanea, destinandolo all’immortalità.

Nella Trilogia ci sono più storie che si rincorrono e si chiudono una nell’altra come una matrioska, un libro nel libro, con i personaggi che sembrano richiamarsi gli uni con gli altri e moltiplicarsi. 

Tre romanzi che hanno protagonisti dall’identità confusa, che cambiano nome o che non lo hanno (Città di Vetro), che sono giochi di colori (Fantasmi), che scambiano la loro vita con quella di amici scomparsi (La stanza chiusa).

E ci sono anche altri elementi comuni in tutte e tre i racconti: la follia, i pedinamenti, il taccuino, la descrizione della vita dello scrittore spiantato. Nella Trilogia infatti c’è anche tanto della biografia dell’autore, come se avesse rotto in mille pezzi le sue esperienze personali come scrittore in cerca di fama, e le avesse disseminate qua e là nella trama.

I temi presenti nell’opera di Auster sono ricorrenti: la solitudine dell’uomo di città e la volontà di ritorno a una vita più ascetica e a contatto con la natura, la follia dovuta all’alienazione dal lavoro e dallo stile di vita contemporaneo. E ancora la ricerca del senso dell’esistenza, il bisogno di certezze insito dell’uomo, il fato, il destino che tiene in mano le vite di tutti, lo studio del linguaggio e del legame fra linguaggio ed esistenza.

Un libro, attualissimo anche se scritto ormai quasi quarant’anni fa, adatto a chi non ha paura di guardare in faccia le molte contraddizioni dell’Occidente, che lascia il lettore alla fine con una lieve ma persistente sensazione di amaro in bocca e la certezza che la società occidentale non è fatta a misura d’uomo.

L’autore

Immagine di Paul Auster

Paul Benjamin Auster (conosciuto anche con lo pseudonimo di Paul Quinn) nasce a Newark, città del New Jersey a pochi chilometri da New York, nel 1947.

Il suo talento per la scrittura si manifesta molto precocemente, tanto che compone le prime poesie attorno ai dodici anni.

La sua carriera come scrittore inizia alla fine degli anni ’70, dopo avere svolto per qualche tempo lavori saltuari. La consacrazione avviene fra il 1985 e il 1987 con la pubblicazione dei libri della Trilogia.

Auster è anche saggista, produttore, attore e sceneggiatore.

Paola Cavioni

Se ti sono piaciute le mie recensioni, iscriviti sul blog per non perdere i prossimi post di Righediarte.

“Puoi dire non più di 100 parole al giorno. Ma solo se sei donna” Righe su Vox, di Christina Dalcher

And in the naked light I saw
ten thousand people maybe more
people talking without speaking
people hearing without listening
people writing songs that voices never share
noone dare, disturb the sound of silence

(The sound of silence, Simon & Garfunkel)

dav

Vox

Di Christina Dalcher

Casa editrice Nord, 2018

Traduzione di Barbara Ronca

Stati Uniti d’America, giorni nostri.

Da diversi anni ormai, il paese è governato dal Movimento per la Purezza, partito guidato dal Presidente Myers e dal leader spirituale della nazione, il reverendo Carl.

Facendosi portavoce di un ritorno “ai sani valori del passato”, infarcito del più pericoloso fanatismo religioso, il Movimento ha vinto le elezioni con un programma che vuole ristabilire ordine nella società. Tutto deve funzionare senza intoppi, come in una macchina perfetta. E come una macchina, così devono essere i matrimoni: ingranaggi perfetti e indissolubili.

Il Movimento vuole che ogni forma di “deviazione” dalla regola sia estirpata dalla società. L’omosessualità va contrastata, le donne che hanno rapporti sessuali prima del matrimonio devono essere rinchiuse e punite.

Il Movimento vuole che le donne restino “al loro posto”: custodi del focolare e regine della casa. Che passino la loro vita a mettere al mondo dei figli, che li seguano nella loro crescita e si dedichino al marito e alle faccende domestiche.

E per fare tutto questo, non serve lavorare, dato che è l’uomo a provvedere al mantenimento della famiglia.

Per fare tutto questo, non serve neanche parlare.

Cento parole al giorno sono più che sufficienti alle donne per ordinare la spesa e andare dal parrucchiere, come se il mondo fosse tornato indietro in un film in bianco e nero degli anni ’50.

Non più di cento parole al giorno, per evitare di essere colpite dalla scarica elettrica emanata dal braccialetto che ogni donna è costretta a portare al polso.

La dottoressa Jean McClellan, madre, moglie ed esperta di linguistica, a un certo punto ha la possibilità di ribellarsi al sistema. Da sola contro tutti, per difendere il diritto al futuro di sua figlia Sonia e per la creatura che porta in grembo e che non è di suo marito Patrick, uomo amorevole ma che accetta passivamente la condizione in cui versano le donne degli Stati Uniti.

Grazie alle sue competenze nella ricerca di una cura all’afasia di Wernicke, Jean ha la possibilità di lavorare a un progetto governativo top secret che la porta pericolosamente vicina al Presidente Myers.

A quel punto dovrà prendere una decisione: il sacrificio di una vita, vale la salvezza di milioni di donne come lei?

Il finale del romanzo lascia sicuramente … senza parole.

Christina Dalcher, linguista proprio come la protagonista di Vox, suo primo romanzo, ci descrive la società di un ipotetico futuro ma che così tristemente ricorda la condizione della donna in alcuni paesi del mondo.

Un libro che descrive scenari inquietanti che portano il lettore a riflettere sull’importanza di uno dei diritti fondamentali dell’uomo: ogni individuo ha diritto alla libertà d’opinione e d’espressione.

Sul diritto a manifestare non solo la propria opinione ma anche il proprio dissenso rispetto a chi governa, soprattutto quando questi lo fanno non per il bene della popolazione, ma secondo quella che credono sia l’interpretazione di un messaggio divino.

Una storia che pone l’attenzione sulla pericolosa commistione fra religione e affari di stato, sulla perdita di quella razionalità che è condizione necessaria per governare una nazione.

Un romanzo che risente sicuramente dell’opera di Bradbury e Orwell, Vox porta a interrogarsi sul ruolo della donna nella società, ruolo che anche nel presente troppo spesso è messo in dubbio, perfino nei paesi più culturalmente evoluti.

Paola Cavioni

Righe su Un ragazzo normale di Lorenzo Marone.

Un ragazzo normale Lorenzo Marone.jpgCi sono dei momenti nella vita di ognuno che segnano lo spartiacque fra l’adolescenza e l’età adulta. L’istante esatto in cui capiamo che è giunto il momento di chiudere i giochi di bambino in uno scatolone da mettere in soffitta.

Ci sono attimi, esperienze, date che si imprimono per sempre nella memoria, creando una sorta di “prima… e dopo”. Per Domenico Russo detto Mimì, il giovane protagonista dell’ultimo romanzo di Lorenzo Marone Un ragazzo normale, edito da Feltrinelli, quello spartiacque coincide con l’omicidio del giornalista napoletano Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985. Solo il giorno prima il suo ultimo articolo era apparso sul quotidiano Il Mattino. Il pezzo era intitolato “Nonna manda il nipote a vendere eroina” e parlava del traffico di droga nel quartiere di Torre Annunziata. Con questo e con tutti gli altri articoli di denuncia alla camorra, Giancarlo aveva firmato da tempo la sua condanna a morte. A riprova del fatto che la mafia non uccide solo d’estate, Siani viene barbaramente ucciso alla sera del primo giorno d’autunno. Solo pochi giorni prima aveva compiuto ventisei anni.

Un ragazzo normale è ambientato a Napoli nei mesi che vanno dal gennaio al settembre del 1985. Un romanzo di formazione che si srotola in un periodo di nove mesi, il tempo di una gravidanza. Quasi a rappresentare metaforicamente una nascita: la nascita di Mimì ad una nuova consapevolezza, ad un nuovo sguardo sul mondo, uno sguardo che ha ormai perso l’innocenza e la spensieratezza del bambino.

Il 1985 si apre, come il romanzo, con quella che è passata alla storia come “la grande nevicata” nota anche alla mia generazione (quelli nati fra il 1981 e il 1989) se non nei ricordi, dai racconti dei propri genitori. Quell’anno si susseguono alla Presidenza della Repubblica Sandro Pertini e Francesco Cossiga. Il papa è Giovanni Paolo II. Siamo nel pieno degli anni ’80, gli anni del Napoli di Maradona, dei funerali di Berlinguer e della Sicilia che già piange i morti ammazzati per mano di Cosa Nostra. Questo lo sfondo storico della vicenda, anni che Marone riesce magistralmente a riportare alla nostra memoria, per chi quegli anni li ha vissuti, e a farli conoscere a chi non c’era ancora. Gli anni dei capelli cotonati alla Cyndy Lauper, dei paninari e delle espadrillas, del muro di Berlino che a inizio decennio c’è e alla fine non c’è più.

Un ragazzo normale è caratterizzato da un’insolita inversione temporale perché c’è il presente che è quello della Napoli degli anni ’80, e c’è il futuro dei giorni nostri visto con occhi del Domenico adulto che torna nel quartiere della sua infanzia.

“Mi sfugge qualcosa,” gli avevo detto poi, “dici sempre che da sindacalista avresti messo sottosopra il mondo, ma che fa un sindacalista?”

“Protegge i più deboli.”

“Allora è un supereroe!” avevo gridato entusiasta.

“No.” Aveva risposto il nonno serio, “è solo un comunista.”

Nel 1985 Mimì ha dodici anni e vive con la famiglia in un modesto appartamento in uno dei tanti palazzi del Vomero. Per la sua famiglia, mamma, papà, sorella e nonni, Mimì è un ragazzino strano perché è diverso dagli altri: è curioso, studioso, non riesce a dire bugie, ama scrivere, usa termini forbiti e a volte si comporta in modo bizzarro, facendo esperimenti sulla trasmissione del pensiero.  Ma soprattutto Mimì, il figlio del custode, ha una fissa: i supereroi, primo fra tutti Spider Man.

Il ragazzo crede di conoscere un supereroe in carne e ossa: è proprio Giancarlo, che vive nel suo stesso palazzo e che ogni giorno con il suo lavoro denuncia i fatti della camorra. A lui Mimì confida le sue sofferenze per l’amore non corrisposto per la bella Viola. Con lui parla della sua passione per la scrittura e di tutti i fatti della vita. Dell’amore. Della morte.

“Parli sempre di super-poteri… la lettura e la scrittura sono i poteri più potenti di cui disponiamo, ci ampliano la mente, ci fanno crescere, ci migliorano, a volte ci illuminano e ci fanno prendere nuove strade, ci permettono di cambiare idea, ci danno il coraggio di fare ciò che desideriamo.” Parlava gesticolando, e aveva una strana luce negli occhi. “La verità,” riprese dopo una breve pausa, “è che il più grande potere a disposizione dell’uomo, caro Mimì, quello che ci rende davvero grandi e liberi, è la cultura. E tu dovresti saperlo…”

Un ragazzo normale non è solo un romanzo di formazione, è la storia di un ragazzino in cerca del suo supereroe in un mondo popolato da persone normali ma uniche nella loro ordinarietà. La storia di una giovane che cerca di dare un senso più alto al suo passaggio su questa terra, che cerca di elevarsi rispetto alla vita che conducono i genitori colpevoli, secondo lui, di non cercare di ottenere nulla dalla vita ma lasciandosi trasportare passivamente dagli eventi. Scoprirà solo col tempo che suo padre è molto più profondo di quello che lui crede.

“… Dico che nella vita bisogna imitare l’agave, mettere tutto se stessi per cercare di fiorire, almeno una volta, anche se c’è il rischio di pagarne le conseguenze.”

C’è tanta vita in Un ragazzo normale. C’è tanta vita e ci sono le vite che si intrecciano, in quel piccolo spaccato di mondo che è il quartiere di Mimì. C’è il suo amico del cuore Sasà, c’è la sua amata Viola con suo fratello Fabio, c’è Donna Concetta che vende le sigarette in fondo alla strada, c’è Matthias, il senzatetto cieco che sembra uscito dalla penna di Antoine de Saint-Exupéry perché capace di vedere con il cuore.

Un ragazzo normale non è il solito romanzo sulla camorra e sulla Napoli del crimine. Come tutti i romanzi di Marone è, al contrario, un romanzo su una Napoli diversa, luminosa. Un romanzo sui fiori che nascono e vivono nel cemento della città partenopea. Lorenzo Marone riesce come sempre a portarci fra quei fiori, riesce a farci vedere quei palazzi e calpestare quelle strade di Napoli. Riesce a farci sentire tutte le sfumature del dialetto dei nonni di Mimì, che tanto fa a pugni con il perfetto italiano parlato dal giovane protagonista.

Se si escludono gli assassini di Giancarlo, dei quali non viene nemmeno accennato il nome, nel romanzo non ci sono personaggi esclusivamente negativi. Come tutte le persone che incontriamo nella vita reale, ognuno ha le sue luci e le sue ombre e tutti sono in continua evoluzione, cosa che rende ancora più credibili i personaggi di questa storia.

Per parlare di Un ragazzo normale occorre per forza parlare di Giancarlo Siani, ma questo non è un libro su Siani, come spiega anche l’autore in una nota. O meglio, lo è nella misura in cui si parla dell’uomo, sorridente, spensierato, del giovane, e non del Siani giornalista. Un ragazzo come tanti. Un ragazzo normale appunto, con quel sorriso che è raffigurato sul murale in suo onore dipinto in via Vincenzo Romaniello, proprio sul luogo dove il giornalista venne ucciso mentre era bordo della sua Mehari verde. Un’auto che ora a Napoli è diventata simbolo della lotta alla mafia.

Concludo dicendo che la scrittura di Lorenzo Marone è come il suo autore, che ho da poco avuto il piacere di conoscere: semplice, diretta, senza fronzoli, “verace”.

Una scrittura che con la sua delicatezza arriva al cuore di tutti.

 

Paola Cavioni

 

L’autore

Lorenzo Marone è nato e vive a Napoli. Laureato in giurisprudenza, per una buona parte della sua vita ha esercitato la professione di avvocato, fino a quando non ha deciso che tutte le storie che aveva scritto negli anni dovevano uscire dal cassetto della sua scrivania.

Un ragazzo normale (Feltrinelli, 2018) è il suo quarto romanzo dopo La tentazione di essere felici (Longanesi, 2015), La tristezza ha il sonno leggero (Longanesi, 2016), Magari domani resto (Feltrinelli, 2017).

Il sito ufficiale di Lorenzo Marone è www.lorenzomarone.net

Potete leggere la mia recensione di Magari domani resto a questo link:

https://righediarte.com/tag/magari-domani-resto/

 

Per acquistare i romanzi di Lorenzo Marone su Amazon:

https://rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?ref=qf_sp_asin_til&t=righediarte-21&m=amazon&o=29&p=8&l=as1&IS1=1&asins=8807032783&linkId=12902310909f7dc1331aae140c714b23&bc1=FFFFFF&lt1=_top&fc1=333333&lc1=0066C0&bg1=FFFFFF&f=ifr

https://rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?ref=qf_sp_asin_til&t=righediarte-21&m=amazon&o=29&p=8&l=as1&IS1=1&asins=8807032201&linkId=f1389920e042f3126518a5c057866e05&bc1=FFFFFF&lt1=_top&fc1=333333&lc1=0066C0&bg1=FFFFFF&f=ifr

https://rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?ref=qf_sp_asin_til&t=righediarte-21&m=amazon&o=29&p=8&l=as1&IS1=1&asins=8850247702&linkId=3e0485cb53c29f2345ac0e331dbd3f9b&bc1=FFFFFF&lt1=_top&fc1=333333&lc1=0066C0&bg1=FFFFFF&f=ifr

https://rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?ref=qf_sp_asin_til&t=righediarte-21&m=amazon&o=29&p=8&l=as1&IS1=1&asins=8830440183&linkId=6a5aedea36af159a96ea34ae4e43182e&bc1=FFFFFF&lt1=_top&fc1=333333&lc1=0066C0&bg1=FFFFFF&f=ifr

 

 

 

Panoramiche di marzo

Aspettando la primavera:

  • Una vita per l’arte, di Peggy Guggenheim, Rizzoli Editore (1979)
  • Revolutionary Road, di Richard Yates, Minimum Fax (1961)
  • Il terzo uomo sulla luna, di Francesco Gazzè, Dalai Editore (2002)
  • Quando l’amore nasce in libreria, di Veronica Henry, Garzanti Editore (2017)
  • Ciò che inferno non è, di Alessandro D’Avenia, Mondadori (2014)

marzo