Librografia. Prima parte.

Ovvero, libri letti al momento giusto

Bibliografia: elenco sistematico di opere, saggi e articoli relativi a uno specifico autore o argomento (Treccani).

Librografia: la vita attraverso un elenco di libri (che la Crusca mi perdoni il neologismo)

 

I libri li senti, sono come musica. Sono colonna sonora di momenti e ricordi. E come la musica si scelgono in base all’umore, ai sentimenti.

Ma non solo. I libri si scelgono, ti scelgono o, se siamo fortunati, ci vengono regalati.

E se siamo ancora più fortunati, alcuni di questi libri entrano a far parte stabilmente della nostra vita, ne segnano i capitoli fondamentali, diventano una parte di noi e ci formano come individui.

Ognuno ha la sua lista, più o meno nutrita.

Potrei iniziare questa lista con il ricordo del primo libro che io abbia mai letto da cima a fondo: Inkiostrik il mostro dell’inchiostro, della tedesca Usel Scheffler, Edizioni Piemme – Il Battello a Vapore. Può far sorridere la cosa, ma ricordo come fosse ieri la soddisfazione – credo di aver avuto poco più di sette anni – provata per aver finito il mio primo libro tutto da sola. Non era la favola della buonanotte letta dal papà o un esercizio di scuola. No. Era un Libro. Un libro vero.

Il primo di una lunga serie di libri e di una altrettanto lunga serie di pomeriggi passati nella piccola biblioteca del mio paese, a fare impazzire i bibliotecari con le richieste più assurde.

La storia, semplice e scorrevole, era quella di un piccolo mostriciattolo, Inkiostrik per l’appunto, che vive in una scuola e si nutre di inchiostro, come un piccolo vampirello. Il contagio è stato rapido, e da allora posso dire di essermi anche io nutrita di inchiostro e carta stampata.

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Il secondo libro che associo alla mia infanzia, come tanti bambini cresciuti fra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, è di Roald Dahl, che ci ha lasciati orfani alla fine del 1990 ma ha cresciuto generazioni di bambini in tutto il mondo, anche dopo la sua morte. Oggi io leggo le sue storie a mia figlia, così come le leggo Gianni Rodari.

Il libro di Dahl che più mi rappresenta è Matilde, che i più conoscono per la trasposizione cinematografica, non del tutto fedele al romanzo, Matilda sei mitica. La storia di questa bambina di cinque anni e mezzo dalla straordinaria intelligenza, incompresa dalla sua famiglia, ricordo, mi appassionava tantissimo, più delle avventure di Willy Wonka e dei suoi Umpa Lumpa.

Avrei voluto avere anche io l’astuzia e il coraggio di Matilde, oltre alla capacità di spostare gli oggetti con la forza del pensiero, che, diciamocelo, male non fa. Non ringrazierò mai abbastanza il maestro Fabrizio, avuto in quinta elementare, che mi spronava ad essere un po’ come lei, a sfruttare il potenziale che ognuno di noi ha, che mi ha fatto appassionare ancora di più alla lettura.

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Inkiostrik e Matide  sono i primi due libri dei quali ho ricordi vividi. Ricordo me stessa mentre li leggevo, alla sera nel mio letto, con la trapunta colorata a scaldarmi, il libro sulle ginocchia. Se chiudo gli occhi sono ancora lì, nella mia cameretta di bambina insieme a mio fratello e a mia sorella.

Poi come tutti i bambini, sono cresciuta, e sono arrivati gli anni delle medie. Alzi la mano chi non ha ricordi terrificanti di quegli anni. Quando ti sentivi goffa, sgraziata e ti vestivi con magliette di almeno due taglie in più per coprire la pancia e i fianchi (e poco ci mancava che arrivassero a coprire anche le caviglie). Anni strani, almeno per me, che a quei tempi ero una ragazzina chiusa e con pochi amici. Anni in cui preferivo ascoltare i Beatles mentre tutte le mie compagne andavano ai concerti dei Take That. Anni nei quali continuavo ad andare bene a scuola nonostante fosse da “sfigati”. Ho sempre pensato che, dato che a scuola dovevo comunque starci tutto il giorno, tanto valeva ottimizzare il tempo, ascoltare i professori e diminuire il tempo dei compiti a casa. E leggevo, leggevo.

Una estate, in seconda media, ho fatto un incontro che mi ha cambiato la vita. Lei si chiamava Harper Lee, e aveva scritto un capolavoro: Il buio oltre la siepe.

Un libro che mi ha aperto un mondo, il mondo della storia contemporanea, della segregazione razziale, della giustizia che fatica a trovare il proprio posto in un mondo ingiusto.

Ma fondamentalmente Il buio oltre la siepe è una storia dei grandi, è il mondo dei grandi, visto con gli occhi di una bambina degli anni ‘30, Jean Luiose (Scout) Finch, orfana di madre, che vede il padre, l’avvocato Atticus Finch, difendere un giovane bracciante di colore dalla falsa accusa di violenza ai danni di una ragazza bianca. Una incarico perso in partenza, siamo nel profondo sud degli Stati Uniti d’America, che comunque Atticus accetta per amore di giustizia e per poter continuare a guardare i suoi figli negli occhi. Una lezione di integrazione per nulla scontata visto che il romanzo è stato scritto nel 1960, quando la segregazione razziale era ancora una realtà negli Stati Uniti. Sullo sfondo di tutta la vicenda, la misteriosa presenza del vicino di casa di Scout, Boo Radley, è lui il buio oltre la siepe, metafora di tutto ciò che ci fa paura solo perché sconosciuto.

Il buio oltre la siepe è un romanzo che realmente consente di “metterti dall’altra parte del muro”, oltre il muro delle nostre certezze e convinzioni, oltre il muro della nostra intolleranza.

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Tra la fine delle scuole medie e le superiori ho scoperto il mondo dei classici, e mi sono letteralmente divorata I tre moschettieri (e Vent’anni dopo) di Alexadre Dumas. Ancora non so come io abbia fatto a leggere tutte le 860 pagine dell’edizione tascabile della Mondadori. Riguardo questo classico c’è be poco da aggiungere, è parte del retaggio culturale dell’Europa, e ne sono state tratte film e serie televisive, dunque la storia è più che nota.

Spero, nel corso della mia vita, di avere tempo per leggere l’ultimo romanzo della trilogia dei Moschettieri, Il visconte di Bragelonne, anche se temo che non potrei sopportare la delusione di leggere la descrizione della morte di D’Artagnan (sono ancora in lutto per la scena della morte dell’eroe nel film ispirato a Il visconte di Bragelonne, La maschera di ferro, del 1998, con un magistrale Gabriel Byrne nella parte di un invecchiato D’Artagnan).

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Questi sono i libri che ricordo con maggior piacere, diciamo dai 6 ai 14 anni. Ovviamente ne ho letti molti di più in quegli anni, ma questi sono quelli cui sono, per diversi motivi, più affezionata.

Nei prossimi giorni continuerò la mia personale lista, con i libri dai 15 anni in poi.

E voi? Quali sono i romanzi che vi hanno accompagnato durante l’infanzia e l’adolescenza?

 

Paola Cavioni

” E’ proprio vero che il difficile non è vivere con gli altri, il difficile è comprenderli “

 

“Adesso, però, (il cieco) si ritrovava immerso in un bianco talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili.”

Cosa succederebbe nel mondo occidentale se una misteriosa epidemia rendesse improvvisamente ciechi tutti gli uomini, risparmiando solo gli animali? Un’epidemia della quale non si conosce la causa né tantomeno le modalità di contagio. Una cecità anomala, un “male bianco” che intrappola chi ne è colpito in una luce perenne, che crea una muro fra lui e il mondo visibile.

Una luce bianca che conduce il lettore in un viaggio nel buio dell’animo umano.

Queste sono le premesse del romanzo Cecità del premio Nobel per la letteratura, il portoghese José Saramago (1922-2010), uno dei libri che mi ha accompagnato in questo primo mese del nuovo anno. Sicuramente fra i 5 libri scelti per aprire l’anno, quello più difficile da digerire, sia per lo stile narrativo che per i contenuti proposti. Lasciate ogni speranza voi che lo leggete.

Lo spunto da cui inizia la storia è pura immaginazione ma  l’autore descrive, attraverso la metafora della cecità fisica, una triste realtà contemporanea: quella del’Uomo cieco ai bisogni di chi gli sta intorno, indifferente ad ogni forma di sofferenza che non sia la propria. Un’umanità più simile alla bestia che alla ragione, senza speranza di salvezza, neanche per mano dell’unica donna scampata alla epidemia: la moglie del medico. L’unico essere umano che continua a vedere anche quando tutto il mondo è diventato cieco. La donna cui i primi uomini diventati ciechi si affidano quando, per ordine del governo, vengono internati in quarantena in un vecchio manicomio, nella vana speranza di contenere un’epidemia incontenibile.

Lei incarna tutte le speranze di tornare ad una vita considerata normale, ad un mondo ordinato. Ma neanche lei è immune alle brutture dell’animo umano, e impara ben presto che la vera cecità va ben oltre quella degli occhi.

“ Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che, pur vedendo, non vedono ”

Cecità è un romanzo che, per la sua stessa struttura e per lo stile, non è di facile lettura. Difficile è, ad esempio, distinguere i dialoghi fra i personaggi, che sono inseriti nel corpo della frase separati solo da virgole, senza l’utilizzo dei due punti e delle virgolette. Distrarsi nella lettura di una pagina vuol dire perdere il filo logico dei pensieri dell’autore.

Allo stesso modo non è di facile comprensione per il suo contenuto, non per niente il titolo originale in portoghese rimanda alla saggistica più che alla narrativa: Ensaio sobre a Cegueira – Saggio sulla cecità. 

” C’era un vecchio con una benda nera su un occhio, un ragazzino che sembrava strabico […] una giovane dagli occhiali scuri, altre due persone senza alcun segno visibile, ma nessun cieco, i ciechi non vanno dall’oculista “

Con i suoi personaggi che non sono caratterizzati da nessun nome (il primo cieco, il medico, la moglie del medico, la donna con gli occhiali da sole, il ladro ecc…) Saramago descrive l’umanità intera, come una massa unica e disperata che piano piano perde tutte quelle caratteristiche che distinguono l’uomo dagli altri animali. La società fondata su regole e principi si sgretola, l’unico pensiero è la soddisfazione dei propri bisogni (con un deciso squilibrio in favore dei bisogni primari: quelli fisiologici e di sicurezza), la mera sopravvivenza, in un mondo in cui le risorse si fanno sempre più limitate perché non c’è più nessuno a produrle, e con una epidemia che cresce in progressione geometrica. Da questo punto di vista, Thomas Robert Malthus e Abraham Maslow avrebbero sicuramente condiviso il pensiero di Saramago.

In questa “nuova” società vale solo una regola: quella del più forte.

” … è risaputo che le ragioni umane non fanno che ripetersi, e anche le non – ragioni “

Non si può leggere questo romanzo senza interrogarsi su diversi aspetti della nostra vita, sul senso stesso della vita. Ogni pagina è un pugno in faccia alla disillusione. Perché Saramago descrive in un certo senso un mondo che è stato e che ancora esiste: la quarantena  dei ciechi nel manicomio viene descritta attraverso scene talmente crude di segregazione e violenza, che potrebbero benissimo essere associate a quanto avvenuto nei campi di sterminio dei regimi totalitari, e a quanto sicuramente succede ancora da qualche parte nel mondo.

” Diceva il proverbio che in terra di ciechi l’orbo è re “

C’è narrativa ma anche tanta sociologia in questo romanzo. Saramago indagata la società umana fin dal suo nucleo principale, la famiglia intesa come legame affettivo oltre che come fondamento della società.

Società della quale descrive le dinamiche più oscure: il tema della lotta del forte sul più debole, la volontà di sopraffazione, la crudeltà gratuita ed insensata, la violenza utilizzata come unico mezzo per impossessarsi del potere e dei mezzi di sostentamento in un mondo ormai senza regole.

Una spirale nel degrado dell’animo umano che ne tocca il punto più basso.

Un punto dal quale difficilmente si torna indietro.

 

Paola Cavioni

Nuovi inizi 

Che poi chi lo sa cosa sarà mai questa felicità di cui tutti parlano. 

Iniziamo un nuovo capitolo, un nuovo viaggio. 

 

“Il momento in cui i tuoi amici hanno bisogno di te è quando hanno torto, Jean Luise. Non hanno bisogno di te quando hanno ragione…”

Righe su Và, metti una sentinella (Go set a watchman) di Herper Lee

 

Premessa dovuta.

Ci sono dei libri che crescono con te, che ti fanno crescere, senza i quali saresti decisamente un’altra persona.

Per me questo libro, IL libro, è stato Il buio oltre la siepe (traduzione un pò troppo libera dall’originale To kill a mockingbird – Uccidere un pettirosso) uscito nel 1960 ed opera della scrittrice statunitense Harper Lee (classe 1926 signore e signori).

Penso di avere avuto più o meno cinque anni quando vidi per la prima volta la trasposizione cinematografica, per la regia di Robert Mulligan, di questo bellissimo romanzo, con la magistrale interpretazione dell’immortale Gregory Peck. Il film, del 1963, ebbe la candidatura a ben otto premi Oscar e ne vinse tre (miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura non originale, migliore scenografia). Un vero ed indiscusso capolavoro.

Non ricordo invece quanti anni avevo quando lessi per la prima volta il romanzo, ricordo solo con  quanta gioia dovetti rileggerlo alle medie come compito per le vacanze. Mi sembrò quasi un premio più che una punizione. Mi sedevo su una sdraio al sole, sulla veranda della casa dei miei genitori e passavo ore intere a leggere, immedesimandomi nella piccola “Scout” Finch che corre a piedi nudi per le strade della assolata Maycomb.

Maycomb, città che in realtà non esiste ma che potrebbe identificarsi con una qualunque delle migliaia di cittadine del sud dell’Alabama e che Harper Lee ha plasmato sui ricordi della città della sua infanzia, Monroeville.

Senza rischio di esagerare, questo libro è stato determinante per la mia crescita umana e lo sviluppo della mia coscienza civica. Questo perché, e chiunque lo abbia letto lo può confermare, il libro tocca delle tematiche che erano spigolose negli anni ’50 ma che lo sono ancora oggi: il rapporto con la diversità, i diritti civili, la supremazia immotivata dell’uomo bianco, l’intolleranza e la discriminazione razziale.

Venendo a noi.

Chiedo scusa per la divagazione su Il buio oltre la siepe ma i due romanzi sono ovviamente imprescindibili l’uno dall’altro e avrebbe poco senso parlare solo del secondo.

Và, metti una sentinella, pubblicato in Italia nel novembre del 2015, fa da seguito a quello uscito nel 1960 ma che, come ci dice la stessa autrice, in realtà è stato scritto in precedenza, a metà degli anni ’50 circa.

In questo racconto vengono svelati anche dei dettagli che nel primo romanzo mancano, come la storia d’amore fra Atticus, il padre di Scout, e suo moglie, ma non voglio anticiparvi nulla per non togliervi il gusto della lettura.

Lo sfondo storico di questo romanzo è leggermente differente rispetto al primo: se nel primo i fatti si svolgono durante la grande depressione, ora, vent’anni dopo, siamo nell’Alabama degli anni ’50, dopo quindi la seconda guerra mondiale e in fase di ripresa per l’economia statunitense.

Ritroviamo la piccola Jean Luise Finch “Scout”, diventata ormai una giovane donna, che da New York torna in visita al suo paese natale, ritrovando l’anziano padre Atticus, la sua famiglia  il suo paese che in tutti questi anni non è cambiato. E’ interessante notare la differenza con cui il personaggio di Atticus viene dipinto in questo secondo romanzo. Se nel primo infatti sembra quasi un eroe romantico, qui ne scopriamo il lato più fragile ed umano, un uomo che come tutti commette degli errori, anche se in buona fede e che continua senza tregua a difendere le idee nelle quali crede e si riconosce.

Scout, di contro, fatica a riconoscere in questo anziano l’idea che si era fatta del padre, e da questo punto di vista il libro introduce anche il tema dello scontro fra generazioni: i giovani, idealisti e aperti al cambiamento e alla accettazione del diverso da una parte, e gli anziani ancorati al loro mondo fatto di regole, senza sfumature ma solo in bianco e nero, dall’altra.

Da qui la fatica della protagonista non solo appunto a riconoscere il padre, ma il paese intero, che ancora sembra voler difendere lo status quo della segregazione razziale, incomprensibile già ai suoi occhi di bambina e ancora di più ora che vive in una città cosmopolita come New York. Riuscirà a rimanere a Maycomb oppure cederà alla tentazione di ritornare nella grande città dove bianchi e neri vivono fianco a fianco senza discriminazioni? Riuscirà ad accettare suo padre così come è, consapevole che così era sempre stato anche se lei non riusciva veramente a vederlo? A voi la voglia di trovare una risposta a queste domande leggendo il libro.

In conclusione, devo ammettere che ho faticato a leggere questo romanzo, penso che per comprenderlo appieno sia necessaria una seconda lettura, altrimenti si rischia di perdere dei piccoli passaggi che non sono funzionali alla comprensione della narrazione, ma che sono comunque piccoli dettagli della storia.

A volte nella foga di leggere un libro tutto d’un fiato rischiamo di perderci qualche pezzo.

In questo caso vi consiglio, come facevo io da bambina, una lettura lenta e appassionata, magari all’ombra di una veranda, in un pomeriggio d’estate.

 

 

Siti consultati e per approfondimenti:

https://prezi.com/wupjakk2mq0e/maycomb-alabama-in-the-1930s/

http://www.sparknotes.com/lit/mocking/

“Và, metti una sentinella”

Terminato un altro libro (beate ferie, tutte queste letture mi stanno facendo rinascere).

Và, metti una sentinella, di Harper Lee.

Provo a buttare giù nero su bianco un po’ di pensieri su questo romanzo ma non è facile.

Mi ha lasciato decisamente confusa, nonostante partisse decisamente avvantaggiato vista la mia passione smodata per Il buio oltre la siepe.

Proverò a seguire il vecchio adagio secondo cui la notte porta consiglio. Domani proverò a pubblicare qualche riflessione in merito.

Se qualcuno di voi lo ha già letto, sarò lieta di condividere opinioni e impressioni.

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Righe su “L’amante giapponese” di Isabel Allende

“Cosa farsene di questa felicità che ci giunge senza motivo?

 Questa felicità che non chiede nulla per poter esistere?”

Cosa?

Di cosa parla l’ultimo romanzo della Allende? Difficile individuare un solo tema.

Verrebbe spontaneo scrivere che parla d’amore, come anticipa il titolo stesso. C’è però molto di più. C’è tutta la riflessione sul senso della vita di una scrittrice dall’animo più che sensibile, che, superata ormai la soglia dei 70 anni, vede assottigliarsi il tempo che le rimane, ma che non smette di immaginare ed inventare personaggi e racconti, di fantasticare sull’Amore e sugli amori. Perché alla fine la qualità della vita si misura solo su questo: sull’amore che lasciamo dopo di noi e su quello ricevuto durante tutta la vita.

Non a caso, a mio parere, la storia inizia proprio in una casa di riposo: Lark House, la casa dell’allodola; il luogo nel quale tutto, per definizione, dovrebbe finire, diventa palcoscenico per la nascita o la riscoperta di  amicizie e nuovi amori.

La Allende mette davanti al lettore tutte le paure umane dell’età matura: cosa rimane di noi quando arriviamo alla fine dei nostri giorni? Come vorremmo essere ricordati? Quali sono le cose per cui vale davvero la pena vivere? Cosa vuol dire vivere pienamente l’amore e le relazioni, senza i vincoli dettati delle convenzioni sociali?

E’ comunque un libro che parla della felicità, concetto così strettamente legato all’amore. Sul diritto dell’uomo a cercare di condurre un’esistenza nella piena felicità, qualsiasi siano le condizioni di vita nelle quali si trova.

Dove e quando?

Difficile definire anche dove si ambienti la storia. La narrazione ha infatti un “qui ed ora” che si svolge ai nostri giorni in California, ma in realtà è un viaggio nel tempo e in spazi diversi, che vanno dal Giappone di inizio secolo all’Europa della seconda guerra mondiale. Un viaggio lungo più di ottant’anni e che abbraccia tre continenti. Impossibile quindi a questo punto definire anche un “quando” in tutta la serie di ricordi e rimandi ad episodi della vita dei vari protagonisti.

Chi?

Chi sono i protagonisti?

Ci sono molte voci nell’ultimo romanzo di Isabel Allende. Ci sono voci protagoniste e voci che invece rimangono sullo sfondo della narrazione e ne dipingono allo  stesso tempo i contorni e i dettagli.

C’è la voce ancora energica e preponderante dell’anziana Alma Belasco. Donna ebrea dallo spirito anticonformista, come la gran parte delle protagoniste femminili dei romanzi della Allende. Una donna che, arrivata ormai alla fine della sua vita ripercorre, per non dimenticare, le tappe della sua lunga esistenza: nata nella straziata Europa a cavallo fra le due guerre mondiali, cresciuta nella ricca borghesia californiana, divisa fra due grandi amori così diversi fra loro, il cugino Nathaniel e Ichimei, che la accompagnano per periodi diversi della sua vita, sovrapponendosi a tratti ma senza mai entrare in competizione l’uno con l’altro.

C’è la voce della giovane moldava Irina Bazili, che assiste con la sua presenza discreta e forte gli anni che Alma trascorre alla casa di cura. Donna giovane ma con un passato tormentato e che la tormenta ancora. Sarà in grado di lasciarsi andare all’amore di Seth, giovane e benestante nipote di Alma o saranno i suoi fantasmi a vincere?

C’è poi la voce silenziosa ma sempre presente di Ichimei, l’amante giapponese. Di lui sappiamo tutto e niente. Impariamo a conoscere lui e la sua famiglia, i Fukuda, nei ricordi di Alma e nelle sue lettere, ma è una presenza che resta impalpabile e quasi irreale. Una voce che ci porta ad una cultura così lontana da quella occidentale, una cultura impregnata delle sue tradizioni e che faticosamente si mescola con l’esterno.

Ma esiste davvero la storia d’amore con Ichimei oppure è solo il frutto del ricordo di una donna anziana?

Ci sono poi tutte le alte voci del coro. Solo per citarne alcune, quelle dalla famiglia Belasco e quella dell’anziano dandy Lenny Beal che si rivela essere, alla fine, molto più di quel che appare.

Come?

Negli ultimi anni i romanzi della Allende hanno sicuramente perso molto dello smalto, della forza e del significato delle sue prime narrazioni, in cui era forte tutto il peso del suo passato nel tormentato Cile. Esaurita questa carica sicuramente emotivamente più pesante, la Allende si è dedicata ad una narrativa più leggera e che può certamente raggiungere un pubblico più vasto.

E’ comunque un romanzo che vale la pena di essere letto ed assaporato, che permette di essere spettatori, per il tempo concesso dalla lettura, di una storia d’amore che supera ogni barriera di tempo e spazio.

Paola Cavioni

 

Letture consigliate, della stessa autrice:

  • La casa degli spiriti, Feltrinelli 1983
  • D’amore e ombra, Feltrinelli 1985
  • La figlia della fortuna, Feltrinelli 1999
  • Ritratto in seppia, Feltrinelli 2001
  • Inés dell’anima mia, Feltrinelli 2006
  • La somma dei giorni, Feltrinelli 2008

 

L'amante giapponese_ narrativa

Presto sul blog…

L'amante giapponese_ narrativa

Sto scrivendo la recensione dell’ultimo romanzo di Isabel Allende, nei prossimi giorni la pubblicherò sul blog.

Qualcuno di voi lo ha letto?