Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: voce narrante e focalizzazione nella narrativa

“La voce narrativa riguarda chi parla, mentre la focalizzazione riguarda chi vede: due domande essenziali per comprendere il funzionamento di ogni racconto.”

Gérard Genette


I giorni che precedono il Natale e il mese di dicembre rappresentano solitamente il periodo delle tradizioni ritrovate. Non mi riferisco in questo caso all’albero di Natale, che almeno a casa mia si fa rigorosamente l’8 dicembre, ma ai miei amati Lune-dì scrittura: quello spazio di Righe di arte dedicato al piacere di esplorare i meccanismi della narrazione. Piacere che per  un po’ (un bel po’) ho lasciato nel cassetto, ma che oggi riprendo con ritrovato entusiasmo.

Ti ricordi la professoressa di letteratura delle medie che con voce squillante e una dizione impeccabile, assegna il compito: “Brano a pagina 54: indica la voce narrante e specifica se è in prima persona o onnisciente”? Ecco, in questo lunedì affronto un aspetto che, ai tempi delle scuole medie, sembrava soltanto un esercizio noioso: individuare la voce narrante in una storia, e il concetto di focalizzazione in una storia. Spero in modo meno odioso della prof delle medie però.

Questi due concetti, insieme a quelli di fabula e intreccio e ai meccanismi narrativi di analessi (flashback) e prolessi (flashforward), costituiscono la base della teoria elaborata da Gérard Genette, teorico della narratologia, nel suo famoso saggio Discorso del racconto (Figure III, 1972).

Partiamo dalla voce narrante, elemento cruciale per comprendere a fondo un’opera letteraria, e anche elemento caratterizzante di molti capolavori della narrativa mondiale.

Ti immagi Il giovane Holden scritto in terza persona? Non suona per niente, vero?

Oppure Moby Dick che comincia con “Lo chiamano Ismaele” (sembra la parodia di “Lo chiamavano Trinità”)

Suonerebbero come delle forzature, un po’ come chiedere al buon Tolkien di tagliare qualche descrizione o a King di essere più sintetico.

Il punto di vista e la focalizzazione sono strumenti narrativi essenziali, veri e propri riflettori che l’autore punta su personaggi ed eventi per guidarci attraverso l’intreccio, creare suspense, dare tridimensionalità alla storia stessa. Una scelta che non è mai frutto del caso, lo sa bene chi ha frequentato coesi di scrittura creativa. È la chiave che plasma il racconto, anche se la maggior parte delle volte non ce ne rendiamo conto, rapiti dal meccanismo basico della sospensione dell’incredulità, dal suono delle parole, dalla bellezza o dalla forza dei personaggi.

Ma quanti sono i punti di vista nella narrativa? Le categorie principali sono tre, vediamole.

Narrazione in prima persona

O narrazione interna, dal punto di vista del protagonista o di un personaggio.

Serve ovviamente ad avvicina il lettore alla soggettività dell’esperienza. Romanzi appunto come Il giovane Holden di Salinger utilizzano questa tecnica per immergere il lettore nei pensieri più intimi dei protagonisti, amplificando emozioni e conflitti interiori. È la forma utilizzata nel diario, nell’autobiografia e nel romanzo epistolare. Memorie di Adriano, capolavoro della letteratura del Novecento, frutto di un lavoro quasi ventennale di Marguerite Yourcenar, è costruito come una riflessione intima e personale dell’imperatore romano e si presenta appunto come una narrazione in prima persona, in cui la voce narrante è uno degli elementi più affascinanti e significativi, in cui il protagonista, ormai prossimo alla morte, ripercorre la sua vita e le sue scelte politiche, filosofiche e spirituali.

Narrazione in seconda persona

Molto rara, ma esiste. Il caso più famoso è opera di un autore a me molto caro: Italo Calvino con il suo Se una notte d’inverno un viaggiatore. Devo ammettere che, proprio per la complessità legata al punto di vista narrativo, questo romanzo non rientra tra le mie opere preferite di Calvino (Italo perdonami). Tuttavia, resta affascinante per come coinvolge il lettore stesso, rendendolo protagonista della storia, rompendo la quarta parete e giocando abilmente con la metafiction.

Narrazione in terza persona

Qua le cose si fanno più articolate: il narratore può sapere tutto, vedere tutto e rivelare i pensieri e le azioni di qualsiasi personaggio. Questa scelta offre una visione globale della storia, permettendo una comprensione approfondita degli eventi e delle dinamiche tra i personaggi. Tuttavia, rischia di creare una certa distanza emotiva, poiché il lettore non si immedesima direttamente in un solo punto di vista, e potrebbe ridurre il gusto per i colpi di scena se gestita in modo troppo esplicito.

Una narrazione onnisciente può essere alternata a momenti di focalizzazione interna su singoli personaggi, bilanciando la prospettiva globale con un’immersione emotiva più profonda.

Un aspetto interessante della narrazione in terza persona è la possibilità di modulare il grado di focalizzazione, il secondo concetto di oggi e di cui parlerò nella seconda parte del post.

Narrazione con punto di vista multiplo

La narrazione con punto di vista multiplo è una tecnica che permette di raccontare la storia attraverso le prospettive di diversi personaggi, offrendo una visione sfaccettata della realtà. Autori come Virginia Woolf utilizzano questa tecnica per passare fluidamente da un personaggio all’altro, svelando prospettive diverse su uno stesso evento. Questo approccio riflette la complessità della percezione umana e sottolinea come ogni individuo interpreti la realtà in modo unico.

Ovviamente ogni scelta narrativa comporta vantaggi e rischi. Il punto di vista multiplo consente di arricchire la narrazione, aggiungendo profondità psicologica ai personaggi e offrendo una comprensione più completa della trama. Tuttavia, se non gestito con attenzione, può causare confusione nel lettore o frammentare il ritmo del racconto.

Uno degli aspetti più delicati di questa tecnica è decidere se ogni personaggio rappresenti un narratore attendibile o inattendibile. Un narratore attendibile offre una visione coerente e credibile degli eventi, mentre un narratore inattendibile, spesso influenzato da pregiudizi o limiti di comprensione, genera dubbi e suspense, costringendo il lettore a interrogarsi su ciò che è reale e cosa invece non lo è.

Focalizzazione: cosa vediamo?

La focalizzazione è una vera e propria regia narrativa: decide cosa mettere a fuoco e cosa lasciare nell’ombra, influenzando così la percezione del lettore. È un po’ come camminare in una galleria d’arte con una torcia: puoi vedere solo ciò che la luce illumina, e ogni dettaglio nascosto crea curiosità o tensione. Questa selettività non è solo uno strumento tecnico, ma un mezzo per costruire suspense, generare empatia o offrire una visione parziale che invita a indagare oltre.

Se la voce narrante risponde alla domanda chi racconta la storia, la focalizzazione si occupa di cosa viene raccontato. Gérard Genette, individua tre tipi principali di focalizzazione:

  1. Focalizzazione zero:
    Il narratore sa tutto, è una mente onnisciente, in grado di esplorare i pensieri, i sentimenti e i segreti di tutti i personaggi, così come di rivelare dettagli sull’ambientazione o anticipare eventi futuri, come accadeva nella maggior parte dei romanzi ottocenteschi dove l’autore ha un controllo assoluto sul mondo narrativo. Si tratta di un approccio che, se non gestito sapientemente può risultare pesante e togliere effetto sorpresa e immediatezza dell’esperienza.
  2. Focalizzazione interna:
    Con questa tecnica, il narratore vede e sa solo ciò che conosce un determinato personaggio. È il caso di La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano dove il mondo viene filtrato attraverso gli occhi dei due protagonisti Alice e Mattia. Questo tipo di focalizzazione crea un forte senso di immedesimazione, ma limita il lettore a una prospettiva parziale.
  3. Focalizzazione esterna:
    In questo caso, il narratore è un osservatore esterno e si limita a descrivere ciò che può essere visto o sentito dall’esterno, senza accedere ai pensieri o alle emozioni dei personaggi. Questo stile, tipico del minimalismo di autori come Kent Haruf, somiglia al punto di vista di una telecamera: registra azioni e dialoghi senza spiegare troppo, lasciando al lettore il compito di interpretare.

La scelta della focalizzazione non è mai neutrale: ha un impatto diretto sulle emozioni del lettore. La focalizzazione interna, ad esempio, può generare empatia e coinvolgimento, immergendo il lettore nei conflitti interiori di un personaggio. Al contrario, la focalizzazione esterna spesso crea un effetto di distacco, ma può anche accrescere il mistero o la tensione, poiché lascia in sospeso ciò che i personaggi pensano davvero. La focalizzazione zero, infine, trasmette un senso di controllo e chiarezza, ideale per storie epiche o corali, ma può risultare meno intensa dal punto di vista emotivo (e forse anche troppo scontata, bisogna sempre nascondere qualcosa al lettore…).

In definitiva, la focalizzazione è un ingrediente cruciale della narrazione, una lente che definisce non solo cosa il lettore vede, ma come lo vede. Saperla gestire significa avere il controllo dell’attenzione e delle emozioni del lettore, guidandolo attraverso la storia come un regista guida la sua telecamera in un film. E, come ogni grande regista che sapientemente muove una telecamera, un buon narratore sa che a volte è soprattutto ciò che non si mostra a fare la differenza.

In conclusione, chi vuole approcciarsi alla narrativa deve sapere che la scelta della voce narrante e la focalizzazione sono le prime e cruciali decisioni per affrontare la narrazione di un racconto o di un romanzo. È attraverso di loro che la storia prende forma, trasformandosi da semplice trama in un’esperienza complessa, stratificata, plurisensoriale. La vera magia della letteratura risiede qui, nel modo in cui ogni autore, con la sua “luna” di scrittura, ci mostra mondi nuovi attraverso occhi diversi, rendendoci partecipi del suo viaggio.

Se ti è piaciuto il post, ricorda di seguire Righe di Arte con il tuo account di WordPress o inserendo il tuo indirizzo email nella sezione “Segui questo blog”. In questo modo riceverai una notifica ogni volta che pubblicherò nuovi contenuti.
Trovi@righediarte anche su Facebook e Instagram.

Paola Cavioni, 2 dicembre 2024

Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling e il principio dell’iceberg di Ernest Hemingway

“Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg. I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno. Prima di tutto eliminare tutte le parti superflue e trasmettere al lettore un’esperienza che potesse entrare a far parte della sua, come quelle reali. È un’impresa difficilissima, e ho dovuto lavorare sodo.”

Queste sono le parole di Ernest Hemingway in un’intervista a George Plimpton del 1954.

Lo stesso anno in cui Hemingway riceve il Nobel per la Letteratura per Il vecchio e il mare, romanzo breve pubblicato due anni prima e che è considerato l’ultimo capolavoro dello scrittore statunitense.

Molti anni prima che la metafora dell’iceberg venisse sfruttata in qualsiasi contesto lavorativo (basta aprire LinkedIn per capire di cosa sto parlando), Hemingway in poche righe riassume il senso del suo narrare: un procedimento per sottrazione che dice moltissimo del rapporto fra letteratura e vita, fra scrittura ed esperienza.

È sufficiente leggere l’incipit de Il vecchio e il mare:

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che ormai non prendeva un pesce.”

Un inizio semplice ma potentissimo, che catapulta il lettore nel cuore della storia in una sola frase.

Per spiegare meglio il principio dell’iceberg si possono fare due premesse: la prima è l’antica massima “conosci te stesso”, l’iscrizione presente nel tempio di Apollo a Delfi, declinata in questo caso in conosci i tuoi personaggi.

Sì perché ogni storia per forza di cose ruota attorno a uno o più personaggi, a meno che non vogliate romanzare la storia del Big Bang o stiate scrivendo un’epopea sulle eruzioni vulcaniche.

Conosci i tuoi personaggi.

Sembra più facile a dirsi che a farsi, perché perdere il controllo è davvero un attimo.  

Per raccontare una storia che sia credibile e indimenticabile i personaggi devono agire, muoversi, parlare. Le loro azioni, movimenti e dialoghi sono il frutto del loro vissuto, delle loro vicissitudini personali, anche di quelle che non sono inserita all’interno di quel momento, breve o lungo, che si sta narrando.

La seconda premessa è invece il caposaldo con cui si aprono quasi tutti i corsi di scrittura creativa: show don’t tell (mostrare, non dire). Questo perché, se i personaggi sono costruiti in modo solido, anche se quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg sarà sufficiente farli agire in maniera coerente con la loro personalità, con le loro esperienze, senza che siano necessarie troppe spiegazioni. Le azioni parleranno da sé.

Alcuni autori prima della stesura vera e propria del romanzo, dopo una ovvia fase di documentazione, scrivono delle schede biografiche dei loro personaggi, in modo da riassumere nero su bianco tutti i punti salienti della loro vita per poterne attingere in fase di stesura del romanzo.
Altri invece preferiscono utilizzare il metodo delle interviste, scrivendo una serie di domande ipotetiche e rispondendo calandosi nei panni del loro protagonista.

Queste domande servono a costruire la personalità e a fare emergere i bisogni più profondi delle voci che porteranno avanti la narrazione.

Tutte queste analisi preliminari servono a creare la famosa base dell’iceberg di cui ci parla Hemingway. Facile vero? Sicuramente, se fossimo tutti come Hemingway…

Ti è mai capitato di leggere un libro in cui invece l’autore, in maniera più o meno consapevole, non segue questo principio? Una storia in cui i personaggi appaiono come vuoti, senza sostanza?

Paola Cavioni

Per leggere le pillole di storytelling precedenti, clicca sui link seguenti:

La regola delle 25 parole, Il grande libro della scrittura di Marco Franzoso

Scrivere e un’abitudine, non un’arte

Il viaggio dell’eroe di Chrisfopher Vogler e Midnight in Paris di Woody Allen

La sospensione dell’incredulità e The Truman Show

Bibliografia:

  • Lezioni di scrittura creativa, Gotham Writer’s Workshop (Dino Audino Editore, 2005)
  • Master di scrittura creativa, Jessica Page Morrell (Dino Audino Editore, 2007)
  • Il grande libro della scrittura, Marco Franzoso (Il Saggiatore, 2020)
  • On writing, Stephen King (Pickwick, 2000)
  • Il vecchio e il mare, Ernest Hemingway (Mondadori)
  • Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare, Ernest Hemingway (Il Nuovo Melangolo, 1996)

Ciao e benvenuto/a!

Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

L’altra mia più grande passione? Che domanda, i libri! Su Righediarte trovi tante recensioni di libri, senza un ordine preciso perché amo spaziare in ogni ambito della narrativa.

Se ti sono piaciuti gli articoli e le recensioni di Righediarte, condividili sui tuoi canali social e iscriviti subito al blog per non perdere i prossimi post.

Segui Righediarte anche su Facebook e Instagram (@righediarte – Paola Cavioni) per rimanere sempre in contatto.

Per informazioni e collaborazioni: righediarte@gmail.com

Lune-dì Scrittura, la sospensione dell’incredulità e The Truman Show (1998)

“Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta, è molto semplice”

The Truman Show (Christof)

Qualche giorno fa ho rivisto The Truman Show insieme a mia figlia Gaia, che ha quasi dieci anni e lo ha visto per la prima volta.

Per chi non lo conoscesse, The Truman Show, caso cinematografico della fine degli anni ’90, è la storia di Truman Burbank. Truman, interpretato da un indimenticabile Jim Carrey, vive a Seaheaven, cittadina balneare che incarna il sogno americano con le sue casette tutte in fila e i prati all’inglese. Burbank è sposato con Meryl, fa l’assicuratore, ha degli amici ma soprattutto è inconsapevole del fatto che tutta la sua vita si stia svolgendo in un grandissimo set cinematografico e che ogni avvenimento della sua esistenza è stato deciso a tavolino dal regista Christof (Ed Harris).

Tutta la sua vita di fatto, pur essendo perfetta, è quello che oggi chiameremmo un fake.

Una serie di “intoppi nella sceneggiatura” (come un faro – il finto Sirio della volta celeste – che quasi gli cade in testa mentre è sulla via di casa) iniziano a fare capire a Truman che c’è qualcosa che non torna in questa perfezione, e lo spingono a indagare per capire cosa stia succedendo, realizzando qualcosa che forse aveva intuito da tempo.

Il regista del film è Peter Weir, che lavora sul soggetto scritto da Andrew Niccol (per gli amici cinefili, è lo stesso sceneggiatore del distopico In Time).

Tornando all’origine di questo post e la connessione con le pillole di storytelling del lunedì, devo ringraziare mia figlia.

Mi ha fatto emozionare e riflettere infatti la sua reazione davanti alla pellicola, dato che inizia ora vedere film da adulti e non più solo cartoni animati o film di animazione.

Mentre sullo schermo scorrevano le vicende dei protagonisti, lei continuava a farmi domande sulle sorti del povero Truman.

Ma suo padre è morto realmente?

Perché Truman ha sposato una donna se ama un’altra?

Ma Christof è cattivo?

Perché non vogliono che lui se ne vada dallo show?

Era completamente immersa nel film.

Questo momento quasi di trance, di astrazione dalla realtà e completa immersione in una storia mi porta a parlarvi della sospensione volontaria dell’incredulità, o più semplicemente sospensione dell’incredulità, che è un principio valido sia quando si scrive narrativa (e di conseguenza quando si legge) che quando si guarda un’opera rappresentata.

Leggere un libro, andare a teatro o vedere un film, a meno che non lo si faccia per professione, sono degli atti volontari cui ci si approccia con uno stato d’animo di apertura nei confronti della storia che stiamo per vedere scorrere sotto i nostri occhi. Andiamo al cinema perché siamo disposti a credere a ciò che vediamo, leggiamo un libro perché vogliamo lasciarci trasportare dalle vite dei personaggi e dal loro mondo.

La sospensione dell’incredulità è quel sentimento, di cui non siamo completamente consci, di annullamento del nostro naturale scetticismo per metterci nella condizione di credere a quanto stiamo guardando, emozionarci e, soprattutto, provare empatia per i personaggi e le loro sorti.

È un meccanismo innato che accompagna l’uomo dalla notte dei tempi, da quando le storie venivano raccontate intorno al fuoco. Un filo sottile che lega le narrazioni di tutte le epoche: da Omero alla Bibbia, a Dumas a Hemingway.

Certo l’arte cinematografica dal punto di vista della creazione di mondi verosimili è avvantaggiata, poiché ha a disposizione, oltre alla forza della storia e del soggetto, la recitazione degli attori e la scenografia (come può esserci nel teatro) ma anche gli effetti speciali, l’utilizzo della colonna sonora, le inquadrature, il montaggio ecc…

La sospensione dell’incredulità viene teorizzata all’inizio del diciannovesimo secolo dal poeta e critico letterario Samuel Taylor Coleridge, uno dei fondatori del romanticismo inglese.

La cosa più bella è che nei bambini questo meccanismo non esiste perché per loro non c’è distinzione fra quello che vedono sullo schermo e ciò che succede nella vita reale.

Senza questa sospensione non riusciremmo a vedere un film intero come The Truman Show senza sentirci presi in giro da una storia che, di fatto, è fantastica.  

Senza la sospensione dell’incredulità non potremmo mai fare il tifo per Truman quando cerca di scappare dal destino che Christof ha stabilito per lui.

In The Truman Show inoltre c’è un sottile gioco metacinematografico: noi siamo spettatori anche della vita degli spettatori dello show di Truman, che piangono, ridono o si arrabbiano insieme a lui. La sospensione quindi è al quadrato.

Ovviamente ogni opera per essere credibile deve essere verosimile ed avere una coerenza interna.

Se ad esempio, nel mezzo di The Truman Show fossero arrivati anche gli alieni a complicare le cose, ecco forse avremmo davvero alzato le mani in segno di arresa, e ci saremmo anche alzati dalle poltrone del cinema.

Ma per fortuna, almeno in questo caso, l’immersione nel mondo creato da Christof è completa e niente è lasciato al caso.

Ora che sapete che cosa vuol dire sospensione dell’incredulità però, vi invito a dimenticarvene ogni volta che andrete al cinema. Lì dovete solo rilassarvi, spegnere il telefono, e lasciarvi trasportare dalla storia davanti a un sacchetto di pop corn.

Per la lettura di un buon libro, valgono le stesse prescrizioni.

Paola Cavioni

Se ti sono piaciuti gli articoli e le recensioni di Righediarte, condividili sui tuoi canali social e iscriviti subito al blog per non perdere i prossimi post e se vuoi lascia subito un commento al post.

Segui Righediarte anche su Facebook e Instagram (@righediarte – Paola Cavioni) per rimanere sempre in contatto.

Per collaborazioni: righediarte@gmail.com

Per leggere tutte le pillole di storytelling del lunedì, seleziona dal menù in alto la voce “Lune-dì scrittura”.

Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: scrivere è un’abitudine, non un’arte, con Ann Handley

Stai cercando un testo che ti aiuti a migliorare la resa dei tuoi post sui social media?

Ami scrivere ma non sai come indirizzare i tuoi sforzi per farti conoscere sul web?

Vuoi capire meglio come scrivere in modo efficace su Facebook e LinkedIn?

Non riesci a superare il blocco dello scrittore?

Questo libro fa al caso tuo.

Le nuove regole della scrittura. Strategie e strumenti per creare contenuti di successo, di Ann Handley.

Un libro in cui tecniche di web marketing e storytelling vanno a braccetto, che contiene principi generali e tecniche applicabili a ogni tipo di lavoro inerente la scrittura.

Il consiglio che riporto in questo secondo appuntamento con i Lune-dì Scrittura è una frase provocatoria che dà titolo al secondo capitolo: scrivere è un’abitudine, non un arte.

Ann Hardley riassume così la spinosa questione ispirazioneVSmetodo:

  1. Ritagliati del tempo ogni giorno, quando sei più fresco.

2. Non scrivere tanto, scrivi spesso.

Questo vuol dire che, a prescindere dal fatto che tu ti senta o meno “ispirato”, devi sederti e scrivere, scrivere, scrivere. L’ispirazione arriverà.

Vuol dire anche che momento di maggiore produttività di ogni creatore di contenuti è assolutamente variabile durante la giornata e dipende da molti fattori individuali.

C’è chi scrive meglio appena sveglio alle cinque del mattino dopo una buona dose di caffè, chi invece preferisce fermare i pensieri sulla carta nel silenzio della notte, quando la famiglia già sta dormendo.

L’importante, dopo avere individuato questo momento, è procedere con una pianificazione puntuale e con un piano d’azione.

Perché la scrittura è metodo, dedizione e costanza. Solo in questo modo si può superare l’ansia della pagina bianca.

Perché se pensi che l’ispirazione ti cada in testa da un momento all’altro, forse non sei sulla buona strada…

Ann Handley è Chief Content Officier di MarketingProfs, azienda di formazione è ricerca seguita dalla più grande comunità mondiale di esperti di marketing.

Il libro, edito da Hoepli, è acquistabile anche su Amazon, per andare direttamente allo shop dal link affiliazione di Righediarte clicca QUI.

Paola Cavioni

Se ti sono piaciuti gli articoli e le recensioni di Righediarte, condividili sui tuoi canali social e iscriviti subito al blog per non perdere i prossimi post.

Righediarte è anche su Facebook e Instagram (@righediarte – Paola Cavioni).