Serendipity. In cerca della meraviglia che non cercavo

“La vita è ciò che ti accade mentre fai altri progetti”

John Lennon

Qualche giorno fa, tornando dal lavoro, ero in metropolitana nel solito tratto tra l’ufficio e il parcheggio milanese dove lascio l’auto alla mattina.

Come spesso capita a chi prende quotidianamente mezzi di trasporto, ero presente fisicamente ma non “realmente”: in piedi in mezzo alla folla, con la mente sui pensieri in sospeso — cose da fare, figli, casa, appuntamenti da confermare.

Alla fermata di Duomo sono riuscita a sedermi, non avevo con me nulla da leggere e non mi andava di prendere ancora in mano il cellulare dopo una giornata passata al pc.

A quella stessa fermata è salita una coppia sulla settantina che si è seduta proprio di fronte a me.

Lui e lei. Eleganti ma senza essere fuori luogo, vestiti quasi uguali: entrambi giacca in camoscio e pantaloni color sabbia.

Non ho capito se fossero turisti o no perché da quella distanza e in mezzo al frastuono di centinaia di altre voci non sentivo in che lingua parlassero.

Ma non sarebbero comunque state le loro a colpirmi e restarmi impresse.

Lei, bellissima nel suo tempo non più giovanile, portava i capelli bianchi con una grazia semplice, lunghi fino alle spalle, viso senza un filo di trucco ma meraviglioso in ogni ruga d’espressione o d’età. Lui brizzolato, fisico asciutto.

Per tutto il tempo del viaggio lei ha tenuto la testa sulla spalla di lui, e di tanto in tanto allungava il collo per lasciargli un bacio sulla guancia, con quella leggerezza e intimità che solo chi ama conosce e riconosce negli altri. Ogni tanto sembrava che si avvicinasse al suo collo per annusarne profumo.

Lui di contro l’ha tenuta per mano tutto il tempo. Sempre.

Due ragazzini nel corpo di due adulti fatti e finiti.

Può far sorridere, ma è stato uno dei momenti più belli della mia giornata, sono scesa dalla metropolitana leggera, quasi anche io riempita di quell’amore che due sconosciuti si stavano scambiando nei loro semplici gesti di complicità.

Quella scena, breve e forse per molti anche insignificante, mi ha aperto il cuore perché mi ha ricordato che la vita non si svela sempre nei grandi eventi, ma nei dettagli che sfuggono se siamo troppo concentrati a guardare avanti.

Serendipity.

Serendipità in italiano, è “la capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi d’indagine.

In pratica è trovare qualcosa di bello o utile per caso, mentre si cerca tutt’altro.

Io in metropolitana non stavo cercando nulla a dire la verità, ma mi sono trovata davanti un’immagine che mi ha fatto tornare alla mente il famoso quadro Il bacio di Hayez in versione moderna ma senza tempo.

Viviamo inseguendo mete, orari, obiettivi scritti per noi da altri, in elenchi puntati sempre più lunghi.

Ma la verità è che spesso la vita accade altrove e ci passa accanto. E ogni tanto ci ricorda con prepotenza tutta la bellezza di quel sentimento universale che è l’amore.

Serendipity.

Accade nei margini, nei momenti non previsti, in quello sguardo che incroci per caso e ti resta dentro.

È il dono inatteso di qualcosa che non stavamo cercando — ma che, forse, stava cercando noi, come quei gesti d’amore su un treno affollato di gente troppo occupata a tenere la mente occupata in mille cose inutili.

Serendipity.

Come il titolo del film, è un frammento di bellezza in una giornata qualunque.

E penso che se non possiamo programmare la meraviglia, forse possiamo allenarci a riconoscerla con un cuore più disponibile; vivere lasciando spazio all’inatteso.

E ogni tanto lasciandoci semplicemente sorprendere.

Paola Cavioni, 3 maggio 2025

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Disordine d’aprile

“E non c’è rimedio al mio disordine d’aprile,
mi scuoto e mi rovescio per lavare via l’idea
che troppe cose siano nate con la data di scadenza.”

(Max Gazzè, Disordine d’aprile)

Ieri pomeriggio ero in giro con mio figlio Francesco, sette anni. Io lo seguivo a piedi, lui in bicicletta, mentre spumeggiante come suo solito mi faceva mille domande, perfettamente coerente con la sua età.

Ad un certo punto siamo messi a ridere perché per le strade del paese si sentiva chiaramente l’aria frizzante della primavera in arrivo, ma anche l’odore dei camini, insieme ancora al profumo di carne sulla griglia che arrivava da qualche cortile.

Tutto questo sotto un cielo che stava diventando insolitamente grigio a chiusura invece di una giornata di sole, e proprio quando iniziavamo ad illuderci che la primavera fosse arrivata veramente, perché la pioggia degli ultimi giorni di marzo ha finalmente ceduto il passo al primo tepore d’aprile.

Ma aprile non si smentisce mai, resta un mese bellissimo e incoerente, esattamente come lo sono tutte le persone interessanti. Perché non sai mai cosa aspettarti.

Cielo limpido un attimo, poi nuvole, pioggia improvvisa, e di nuovo sole, ricordo addirittura un anno anche la neve. Aprile ti mette alla prova, non ti concede certezze. Ti fa credere nella stabilità della luce e poi ti costringe a cercare riparo dalla pioggia.

Amo profondamente questo periodo, per me è il mese dei desideri avverati, dato che sono diventata mamma per la prima volta proprio ad aprile. Eppure, l’ho sempre osservato come si guarda un quadro astratto: cercando di dargli un senso, senza mai riuscire davvero ad afferrarlo.

Prendendo in prestito le parole di Max Gazzè, non c’è rimedio al mio disordine d’aprile. Come ti capisco caro Max.

E nel mio personale disordine di aprile ci sono libri iniziati e lasciati a metà, pensieri e poesie scritti di getto e poi dimenticati, riletti e cancellati. Ci sono pensieri che si affollano senza ordine, parole che vorrebbero diventare qualcosa ma restano sospese. C’è tutta la forza e l’energia che mi regala il sole quando poi esce, e toglie dalle ossa il freddo dell’inverno.

E allora lascio che aprile mi porti dove vuole, accolgo le giornate con tutta la loro imperfezione.

Leggo senza seguire un ordine, scrivo senza sapere dove mi condurranno le parole. Guardo il cielo, ascolto la pioggia, scrivo elenchi di desideri, consapevole che molti non si realizzeranno mai mai sono proprio quelli che mi tengono viva. Respiro la luce e, nel caos di questo mese, trovo una forma di bellezza che, forse, proprio perché è bellezza, non ha bisogno di essere compresa o spiegata.

Forse il senso di aprile è proprio questo: imparare ad accogliere il disordine, a lasciare che le cose si mescolino senza opporre resistenza.

Smettere di cercare risposte.

Paola Cavioni, 2 aprile 2025

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Serve davvero una giornata mondiale per ricordarci di essere felici?

When you want more than you have
You think you need
And when you think more than you want
Your thoughts begin to bleed
I think I need to find a bigger place
‘Cause when you have more than you think
You need more space

(Eddie Vedder, Society)

Dal 2013, il 20 marzo è ufficialmente la Giornata Mondiale della Felicità; l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito questa ricorrenza per sottolineare il ruolo fondamentale della felicità e del benessere come obiettivi universali nella vita degli esseri umani e nelle politiche globali. Uno dei punti della Agenda 2030.

Sebbene questa giornata possa sembrare superflua (e anche un po’ naïf) in occidente, in una parte di mondo in cui si cerca costantemente e ossessivamente la felicità, il suo obiettivo è di farci riflettere sull’importanza di perseguirla anche a livello collettivo.

La risposta alla domanda “abbiamo bisogno di una giornata mondiale per ricordarci di essere felici?” parrebbe dunque essere, se per felicità usciamo dai confini dei nostri individualismi ed egoismi.

Se non parliamo di una felicità che rimane in superfice.

A maggior ragione se penso che proprio nel mese di marzo di cinque anni fa il mondo intero era travolto da una pandemia che ha messo in discussione molte delle nostre certezze, inclusa la nostra stessa idea di felicità, quando tutti ci siamo trovati chiusi in casa insieme ai nostri pensieri.

E forse, come capita spesso dopo un evento che ti sconvolge la vita, molti di noi hanno scoperto che la felicità non dipende affatto dall’accumulo di cose, ma dalla capacità di adattarsi e trovare serenità profonda e interiore anche nelle difficoltà. E molti proprio dopo la pandemia hanno attivamente cercato la loro personale strada per la felicità (penso anche al fenomeno delle “grandi dimissioni”, che ha avuto un’accelerata proprio nel post pandemia)

Viviamo in un’epoca in cui la felicità sembra essere diventata un traguardo da raggiungere obbligatoriamente, un prodotto che si può acquistare e mettere in mostra, o una metrica da social media. La felicità è troppo spesso scambiata per un simbolo di status o di apparente realizzazione, un obbligo, qualcosa che deve sempre arrivare da fuori.

“Questa è un’epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra, per occultare il vuoto della stanza.”

(Dalail Lama)

Eppure, la felicità è una condizione ben più complessa e meno definibile, che per alcuni certo può coincidere con il successo o l’acquisizione di beni materiali, mentre per altri, e io rientro sicuramente in questa seconda categoria, è più legata a uno stato interiore di pace e di realizzazione personale, di rapporto con sé stessi e che si riflette poi nel rapporto con gli altri.

Da diversi anni si parla del “caso Bhutan”, piccola nazione incastonato fra Cina e India con una popolazione a maggioranza buddhista, un paese che ha adottato il parametro della Felicità Nazionale Lorda al posto del Prodotto Nazionale Lordo, riconoscendo che il benessere di una nazione non si misura solo attraverso i dati economici, ma anche dalla qualità della vita e dal livello di serenità dei suoi cittadini. Un approccio che invita a pensare alla felicità come un valore collettivo da promuovere, come un motore della società, come responsabilità diffusa e obiettivo comune.

E non si può non pensare che questo sia anche legato al fatto che il buddhismo, in Buthan, è religione di stato (immagino già i nasi che si stortano al pensiero di accostare la parola Stato a quella di Religione, ma forse qualche mosca bianca esiste…).

Da qualche anno anche io mi sono avvicinata alla filosofia buddhista, che offre un punto di vista molto diverso rispetto alla concezione occidentale del benessere e della felicità.

Secondo il Buddhismo, la felicità non è il piacere momentaneo, ma è assenza di sofferenza.

La sofferenza (dukkha) è considerata parte della vita, ma può essere superata grazie alla saggezza e alla consapevolezza. In questa visione, la felicità non dipende da fattori esterni, come denaro, successo o relazioni, ma dalla nostra capacità di raggiungere l’equilibrio interiore. Solo attraverso una profonda comprensione della nostra mente e dei nostri desideri possiamo imparare a liberarci dalle illusioni che alimentano la sofferenza, coltivando la pace interiore e l’accettazione del presente così com’è.

Il Buddhismo promuove il non-attaccamento, cioè l’idea che la sofferenza nasce dall’attaccamento a ciò che è impermanente. Imparare ad accettare il cambiamento ci permette di vivere con maggiore leggerezza e in ultima analisi con maggior serenità.

Perché tutto passa.

Cose, persone, lavori, problemi, giornate storte.

La nostra stessa vita è destinata a finire; il non attaccamento è un continuo esercizio di felicità perché la capacità di non essere legati a ciò che è effimero ci permette di vivere con maggiore serenità e gratitudine.

Non aggrapparsi alle cose, alle persone o alle situazioni ci aiuta a rimanere centrati nel momento presente, accettando l’ineluttabile flusso della vita senza paura o rimpianto. In questo modo, possiamo sperimentare una felicità che non dipende dalle circostanze, ma dalla nostra capacità di essere in pace con il cambiamento e l’impermanenza.

Consapevolezza, compassione e gratitudine, sono elementi essenziali per il benessere duraturo, sicuramente più che fama, denaro e beni materiali.

Il tema della felicità, che forse ha anche molto a che fare con l’accettazione della nostra condizione di esseri limitati, da sempre ha affascinato filosofi, scrittori e anche uomini e donne di scienza. Credo sia un tema tanto affascinante come diffuso, esattamente come l’amore, soprattutto nella scrittura.

Di tutti i libri che ho letto sul tema ce ne sono 5 che più di tutti mi hanno colpito:

  • L’arte della felicità del Dalai Lama. In questo libro, il Dalai Lama esplora la felicità come un’arte da coltivare attraverso la consapevolezza, la compassione e l’equilibrio interiore. Un’opera che invita a riflettere sul vero significato della felicità, andando oltre il consumismo e le illusioni esterne, per scoprire la pace dentro di sé.
  • Il monaco che vendette la sua Ferrari di Robin Sharma. Spoiler, io adoro Sharma, questo libro in particolare è stato il suo primo best seller. Il monaco, è un racconto ispiratore che unisce saggezza orientale e dinamiche occidentali. Attraverso la storia di Julian Mantle, un avvocato di successo che ad un certo punto della vita sente crollare ogni sua certezza, il libro offre lezioni su come vivere una vita più equilibrata, trovando il vero significato al di là dei beni materiali e della carriera.
  • La via della leggerezza di Franco Berrino e Daniel Percorso in cui la leggerezza diventa una metafora per affrontare le difficoltà quotidiane con consapevolezza, senza essere schiavi delle proprie abitudini distruttive, portando anche molti studi scientifici a supporto del fatto che la gentilezza, e la felicità interiore, realmente allungano la vita.
  • Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert. Famosissimo romanzo da cui è stato tratto anche l’omonimo film. Una storia di viaggio e di ricerca interiore che racconta come l’autore si ritrovi in un percorso di auto-scoperta. Attraverso tre esperienze diverse in Italia, India e Indonesia, Gilbert esplora il significato della felicità, dell’amore e della spiritualità, trovando l’armonia tra mente e corpo.
  • Flow: Psicologia dell’esperienza ottimale di Mihály Csíkszentmihályi. Csíkszentmihályi è uno dei pionieri della psicologia positiva, quel ramo della disciplina che si concentra sullo studio e sullo sviluppo degli aspetti positivi dell’esperienza umana, esponendo qui il concetto di flow. Il flow (flusso) uno stato di totale immersione e soddisfazione in un’attività, che porta all’autorealizzazione. Un libro che offre una nuova prospettiva sulla felicità, legandola alla concentrazione profonda e al piacere che deriva dall’impegno totale in ciò che si fa. Lettura consigliata soprattutto a chi cerca la serenità anche facendo attività sportiva.

Ognuno di questi autori porta una visione personale, ma il messaggio comune è che la felicità non è un obiettivo esterno da perseguire, ma un processo interiore che dipende dalle nostre scelte, dalle nostre azioni e dalla nostra capacità di vivere nel presente.

Forse la Giornata Mondiale della Felicità non è tanto un’occasione per “ricordarci” di essere felici, quanto piuttosto un invito a riflettere su cosa significhi davvero la felicità.

In un mondo in cui siamo costantemente proiettati verso il futuro, desiderando sempre qualcosa in più, dovremmo imparare a godere di ciò che abbiamo nel presente, portando la felicità in ogni piccola azione quotidiana.

Qui ed ora.

Come quella felicità, calda, improvvisa e avvolgente, che c’è nell’abbraccio di un amico o nella risata di un bambino. È in questi momenti di semplicità che si nasconde forse la vera gioia.

La felicità è sempre lì, pronta a farsi trovare in ogni gesto di amore, spontaneità e connessione che ci regala la vita. Se siamo disposti ad accoglierla.

Paola Cavioni, 20 marzo 2025

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Righe su Furore di John Steinbeck

“The highway is alive tonight
But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes
I’m sitting down here in the campfire light
Searchin’ for the ghost of Tom Joad”

(The Ghoast of Tom Joad, Bruce Springsteen)

La copertina di ‘Furore’ di John Steinbeck, un classico della letteratura americana che affronta temi di resilienza e ingiustizia sociale.

Penso che oggi non si possa leggere Furore senza accompagnarlo con la colonna sonora di Springsteen in “The Ghost of Tom Joad”. Le note così armoniose di questa ballata, il canto quasi sussurrato, creano un contrasto struggente con l’asprezza di un libro che è maestosamente e dolorosamente meraviglioso.

Con le sue quasi 700 pagine, è il primo classico che mi ha accompagnato tra gennaio e febbraio di questo 2025, un anno che sembra appena iniziato, eppure siamo già a marzo.

Quante cose è Furore! Universalmente considerato il capolavoro della maturità di John Steinbeck, l’ho amato profondamente proprio ora, avvicinandomi ai miei quarant’anni. Furore è un romanzo di denuncia sociale, una fiction che si sviluppa davanti agli occhi come in un unico piano sequenza di un film (che è stato poi effettivamente realizzato nel 1940 con un giovane Henry Fonda), è equilibrio perfetto nella costruzione dei personaggi e dialoghi.

Dopo Uomini e topi del 1937 è il capolavoro della maturità di Steinbeck…anche perché chi sono io per dire il contrario di un romanzo che ha vinto pure il Pulitzer e di un autore detentore di un Nobel?

Furore (The Grapes of Wrath in lingua originale, letteralmente “I grappoli dell’ira”) viene pubblicato nel 1939, pochi mesi prima che nei cinema esca il capolavoro di Victor Fleming, Via col vento.

Lo stesso anno, due Americhe a confronto: da una parte, quella nata dalle ceneri dalla Guerra di Secessione del 1861; dall’altra, quella segnata dalla Grande Depressione degli anni ’30.

La protagonista è la famiglia Joad, costretta a lasciare l’Oklahoma a causa della crisi agricola e della grande tempesta di polvere (Dust Bowl) che afflisse Stati Uniti e Canada fra il 1931 e il 1939. In questo contesto drammatico, la famiglia si trova a dover affrontare non solo le difficoltà economiche e la mancanza di lavoro, ma anche la perdita della propria terra e delle proprie radici. Mentre migrano verso l’Occidente, cercano nuove opportunità e una vita migliore, ma si imbattono in sfide inaspettate, come la povertà, la discriminazione e lo sfruttamento.

Il viaggio verso la California, tormentato da fame, lutti e ingiustizie, in cerca di una vita migliore diventa non solo una migrazione geografica, ma anche un’esplorazione della resilienza umana di fronte all’ingiustizia e alla disperazione. Tutta la disperazione e la forza di chi non si arrende al proprio destino.

“Non puoi sradicare l’anima della gente, nemmeno con tutta la forza del mondo.”

Il romanzo affronta numerose tematiche di assoluta attualità, che non possono non risuonare al lettore moderno: lo sfruttamento del lavoro umano, la disumanizzazione imposta dalle grandi corporazioni (ora multinazionali), la perdita di identità culturale, la migrazione e la percezione del “diverso” come una minaccia, colui che viene a rubare il lavoro.

Il messaggio di Steinbeck resta ancora incredibilmente attuale: oggi l’avvento della tecnologia e la globalizzazione hanno trasformato radicalmente le dinamiche del lavoro ma le disparità economiche e sociali persistono e forse sono ancora più evidenti di quanto lo fossero novant’anni fa, ovunque nel mondo.

La storia dei Joad ritorna oggi, in un mondo in cui le crisi economica, i cambiamenti climatici e i conflitti spingono milioni di persone a cercare rifugio e opportunità altrove. Le difficoltà incontrate dai Joad nel loro viaggio verso una terra promessa, che non è mai esistita e che fondamentalmente non li vuole, ricordano le esperienze di molti migranti contemporanei, evidenziando come la lotta per la dignità e la giustizia sia universale e senza tempo.

Se Furore era una denuncia delle ingiustizie sociali negli anni ’30, oggi il libro può essere letto a posteriori come una profezia del mondo moderno, quasi come è stato per 1984 per altri motivi. La narrazione di John Steinbeck non solo mette in luce le difficoltà e le sofferenze delle classi lavoratrici, ma esplora anche i temi universali della dignità umana e della lotta per la giustizia. La lotta dei Joad, protagonisti del romanzo, rappresenta una condizione che continua a risuonare nella nostra società contemporanea, dove le disuguaglianze economiche e sociali sono ancora pervasive. La forza e la resilienza degli individui di fronte all’oppressione ci ricordano che, nonostante le sfide, c’è sempre la possibilità di ribellione e di cambiamento. Inoltre, le dinamiche familiari e l’unità dei personaggi ci forniscono una particolare prospettiva sul valore della comunità in tempi di crisi, rendendo il messaggio di Steinbeck non solo rilevante, ma anche profondamente emozionante per le generazioni attuali.

I migranti di oggi non sono tanto diversi dai Joad: cercano un luogo in cui poter lavorare e vivere dignitosamente, ma spesso incontrano ostilità, sfruttamento e pregiudizi. L’America di Steinbeck è una terra di sogni infranti, proprio come oggi molte nazioni che si presentano come promesse di futuro finiscono per diventare campi di battaglia burocratici e sociali per chi cerca una seconda possibilità.

La capacità di Steinbeck di descrivere con realismo e profondità le sofferenze e le speranze dei suoi personaggi rende Furore un’opera senza tempo, non solo un documento che vale come testimonianza di un preciso momento storico che ha cambiato per sempre le sorti di una nazione, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana, invitando i lettori a confrontarsi con le ingiustizie del passato e del presente.

Ingiustizia.

È questo il sentimento più profondo che in ultimo accompagna ogni azione compiuta e ogni parola pronunciata dal vero protagonista della storia, Tom.

“Ed ecco che cosa puoi sapere per certo: terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché questa è l’unica qualità fondamentale dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo.”

Con il suo lavoro, e Furore in particolare, John Steinbeck ha influenzato profondamente molti autori moderni e contemporanei, per il suo stile narrativo diretto e realistico, per la predilezione verso temi legati alla lotta della classe lavoratrice, e per l’esplorazione del rapporto tra uomo e natura.

Cormac McCarthy, Jonathan Franzen e Kent Haruf, solo per citarne alcuni, possono essere considerati in qualche modo eredi del suo stile e della sua poetica.

Furore è più di un romanzo. È un manifesto di lotta, di resistenza e di speranza, che si chiude con un’immagine potentissima (che non anticipo per non togliere nulla al futuro lettore).

La sua attualità e immortalità ci impongono di non dimenticare mai che la storia può ripetersi e che l’unico antidoto alle ingiustizie è la solidarietà. La memoria storica è il nostro strumento più potente per evitare che le cicatrici del passato vengano riaperte, e solo attraverso l’unione possiamo sperare di costruire un futuro più giusto per tutti.

“Io sarò sempre ovunque ci sia gente che soffre, lotta e spera.”

L’autore

John Steinbeck (1902 – 1968) nasce a Salinas in California e cresce in una regione agricola, cosa che influenza profondamente la sua scrittura. Dopo aver abbandonato gli studi universitari, svolge diversi lavori manuali, acquisendo una conoscenza diretta delle difficoltà dei lavoratori agricoli, tema centrale del suo stile narrativo. Vincitore del Nobel per la letteratura nel 1962, nel 1964 il Presidente Lyndon B. Johnson gli conferisce la Medaglia presidenziale della libertà, uno dei più alti riconoscimenti civili conferiti dal presidente degli Stati Uniti, che viene assegnata a individui che abbiano compiuto atti straordinari a favore della libertà, della sicurezza nazionale, della cultura, della scienza, dell’educazione, della salute pubblica, dei diritti civili o di altre cause meritevoli.

Ha lasciato un’eredità letteraria straordinaria, raccontando con empatia e realismo le sfide dei più deboli nella società americana.

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Paola Cavioni, marzo 2025

Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: voce narrante e focalizzazione nella narrativa

“La voce narrativa riguarda chi parla, mentre la focalizzazione riguarda chi vede: due domande essenziali per comprendere il funzionamento di ogni racconto.”

Gérard Genette


I giorni che precedono il Natale e il mese di dicembre rappresentano solitamente il periodo delle tradizioni ritrovate. Non mi riferisco in questo caso all’albero di Natale, che almeno a casa mia si fa rigorosamente l’8 dicembre, ma ai miei amati Lune-dì scrittura: quello spazio di Righe di arte dedicato al piacere di esplorare i meccanismi della narrazione. Piacere che per  un po’ (un bel po’) ho lasciato nel cassetto, ma che oggi riprendo con ritrovato entusiasmo.

Ti ricordi la professoressa di letteratura delle medie che con voce squillante e una dizione impeccabile, assegna il compito: “Brano a pagina 54: indica la voce narrante e specifica se è in prima persona o onnisciente”? Ecco, in questo lunedì affronto un aspetto che, ai tempi delle scuole medie, sembrava soltanto un esercizio noioso: individuare la voce narrante in una storia, e il concetto di focalizzazione in una storia. Spero in modo meno odioso della prof delle medie però.

Questi due concetti, insieme a quelli di fabula e intreccio e ai meccanismi narrativi di analessi (flashback) e prolessi (flashforward), costituiscono la base della teoria elaborata da Gérard Genette, teorico della narratologia, nel suo famoso saggio Discorso del racconto (Figure III, 1972).

Partiamo dalla voce narrante, elemento cruciale per comprendere a fondo un’opera letteraria, e anche elemento caratterizzante di molti capolavori della narrativa mondiale.

Ti immagi Il giovane Holden scritto in terza persona? Non suona per niente, vero?

Oppure Moby Dick che comincia con “Lo chiamano Ismaele” (sembra la parodia di “Lo chiamavano Trinità”)

Suonerebbero come delle forzature, un po’ come chiedere al buon Tolkien di tagliare qualche descrizione o a King di essere più sintetico.

Il punto di vista e la focalizzazione sono strumenti narrativi essenziali, veri e propri riflettori che l’autore punta su personaggi ed eventi per guidarci attraverso l’intreccio, creare suspense, dare tridimensionalità alla storia stessa. Una scelta che non è mai frutto del caso, lo sa bene chi ha frequentato coesi di scrittura creativa. È la chiave che plasma il racconto, anche se la maggior parte delle volte non ce ne rendiamo conto, rapiti dal meccanismo basico della sospensione dell’incredulità, dal suono delle parole, dalla bellezza o dalla forza dei personaggi.

Ma quanti sono i punti di vista nella narrativa? Le categorie principali sono tre, vediamole.

Narrazione in prima persona

O narrazione interna, dal punto di vista del protagonista o di un personaggio.

Serve ovviamente ad avvicina il lettore alla soggettività dell’esperienza. Romanzi appunto come Il giovane Holden di Salinger utilizzano questa tecnica per immergere il lettore nei pensieri più intimi dei protagonisti, amplificando emozioni e conflitti interiori. È la forma utilizzata nel diario, nell’autobiografia e nel romanzo epistolare. Memorie di Adriano, capolavoro della letteratura del Novecento, frutto di un lavoro quasi ventennale di Marguerite Yourcenar, è costruito come una riflessione intima e personale dell’imperatore romano e si presenta appunto come una narrazione in prima persona, in cui la voce narrante è uno degli elementi più affascinanti e significativi, in cui il protagonista, ormai prossimo alla morte, ripercorre la sua vita e le sue scelte politiche, filosofiche e spirituali.

Narrazione in seconda persona

Molto rara, ma esiste. Il caso più famoso è opera di un autore a me molto caro: Italo Calvino con il suo Se una notte d’inverno un viaggiatore. Devo ammettere che, proprio per la complessità legata al punto di vista narrativo, questo romanzo non rientra tra le mie opere preferite di Calvino (Italo perdonami). Tuttavia, resta affascinante per come coinvolge il lettore stesso, rendendolo protagonista della storia, rompendo la quarta parete e giocando abilmente con la metafiction.

Narrazione in terza persona

Qua le cose si fanno più articolate: il narratore può sapere tutto, vedere tutto e rivelare i pensieri e le azioni di qualsiasi personaggio. Questa scelta offre una visione globale della storia, permettendo una comprensione approfondita degli eventi e delle dinamiche tra i personaggi. Tuttavia, rischia di creare una certa distanza emotiva, poiché il lettore non si immedesima direttamente in un solo punto di vista, e potrebbe ridurre il gusto per i colpi di scena se gestita in modo troppo esplicito.

Una narrazione onnisciente può essere alternata a momenti di focalizzazione interna su singoli personaggi, bilanciando la prospettiva globale con un’immersione emotiva più profonda.

Un aspetto interessante della narrazione in terza persona è la possibilità di modulare il grado di focalizzazione, il secondo concetto di oggi e di cui parlerò nella seconda parte del post.

Narrazione con punto di vista multiplo

La narrazione con punto di vista multiplo è una tecnica che permette di raccontare la storia attraverso le prospettive di diversi personaggi, offrendo una visione sfaccettata della realtà. Autori come Virginia Woolf utilizzano questa tecnica per passare fluidamente da un personaggio all’altro, svelando prospettive diverse su uno stesso evento. Questo approccio riflette la complessità della percezione umana e sottolinea come ogni individuo interpreti la realtà in modo unico.

Ovviamente ogni scelta narrativa comporta vantaggi e rischi. Il punto di vista multiplo consente di arricchire la narrazione, aggiungendo profondità psicologica ai personaggi e offrendo una comprensione più completa della trama. Tuttavia, se non gestito con attenzione, può causare confusione nel lettore o frammentare il ritmo del racconto.

Uno degli aspetti più delicati di questa tecnica è decidere se ogni personaggio rappresenti un narratore attendibile o inattendibile. Un narratore attendibile offre una visione coerente e credibile degli eventi, mentre un narratore inattendibile, spesso influenzato da pregiudizi o limiti di comprensione, genera dubbi e suspense, costringendo il lettore a interrogarsi su ciò che è reale e cosa invece non lo è.

Focalizzazione: cosa vediamo?

La focalizzazione è una vera e propria regia narrativa: decide cosa mettere a fuoco e cosa lasciare nell’ombra, influenzando così la percezione del lettore. È un po’ come camminare in una galleria d’arte con una torcia: puoi vedere solo ciò che la luce illumina, e ogni dettaglio nascosto crea curiosità o tensione. Questa selettività non è solo uno strumento tecnico, ma un mezzo per costruire suspense, generare empatia o offrire una visione parziale che invita a indagare oltre.

Se la voce narrante risponde alla domanda chi racconta la storia, la focalizzazione si occupa di cosa viene raccontato. Gérard Genette, individua tre tipi principali di focalizzazione:

  1. Focalizzazione zero:
    Il narratore sa tutto, è una mente onnisciente, in grado di esplorare i pensieri, i sentimenti e i segreti di tutti i personaggi, così come di rivelare dettagli sull’ambientazione o anticipare eventi futuri, come accadeva nella maggior parte dei romanzi ottocenteschi dove l’autore ha un controllo assoluto sul mondo narrativo. Si tratta di un approccio che, se non gestito sapientemente può risultare pesante e togliere effetto sorpresa e immediatezza dell’esperienza.
  2. Focalizzazione interna:
    Con questa tecnica, il narratore vede e sa solo ciò che conosce un determinato personaggio. È il caso di La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano dove il mondo viene filtrato attraverso gli occhi dei due protagonisti Alice e Mattia. Questo tipo di focalizzazione crea un forte senso di immedesimazione, ma limita il lettore a una prospettiva parziale.
  3. Focalizzazione esterna:
    In questo caso, il narratore è un osservatore esterno e si limita a descrivere ciò che può essere visto o sentito dall’esterno, senza accedere ai pensieri o alle emozioni dei personaggi. Questo stile, tipico del minimalismo di autori come Kent Haruf, somiglia al punto di vista di una telecamera: registra azioni e dialoghi senza spiegare troppo, lasciando al lettore il compito di interpretare.

La scelta della focalizzazione non è mai neutrale: ha un impatto diretto sulle emozioni del lettore. La focalizzazione interna, ad esempio, può generare empatia e coinvolgimento, immergendo il lettore nei conflitti interiori di un personaggio. Al contrario, la focalizzazione esterna spesso crea un effetto di distacco, ma può anche accrescere il mistero o la tensione, poiché lascia in sospeso ciò che i personaggi pensano davvero. La focalizzazione zero, infine, trasmette un senso di controllo e chiarezza, ideale per storie epiche o corali, ma può risultare meno intensa dal punto di vista emotivo (e forse anche troppo scontata, bisogna sempre nascondere qualcosa al lettore…).

In definitiva, la focalizzazione è un ingrediente cruciale della narrazione, una lente che definisce non solo cosa il lettore vede, ma come lo vede. Saperla gestire significa avere il controllo dell’attenzione e delle emozioni del lettore, guidandolo attraverso la storia come un regista guida la sua telecamera in un film. E, come ogni grande regista che sapientemente muove una telecamera, un buon narratore sa che a volte è soprattutto ciò che non si mostra a fare la differenza.

In conclusione, chi vuole approcciarsi alla narrativa deve sapere che la scelta della voce narrante e la focalizzazione sono le prime e cruciali decisioni per affrontare la narrazione di un racconto o di un romanzo. È attraverso di loro che la storia prende forma, trasformandosi da semplice trama in un’esperienza complessa, stratificata, plurisensoriale. La vera magia della letteratura risiede qui, nel modo in cui ogni autore, con la sua “luna” di scrittura, ci mostra mondi nuovi attraverso occhi diversi, rendendoci partecipi del suo viaggio.

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Paola Cavioni, 2 dicembre 2024

Righe su “Il conformista” di Alberto Moravia

“Ogni scrittore è una chiave per aprire la porta della realtà”

(da un’intervista di Alberto Moravia)

Alberto Pincherle Moravia nasce a Roma il 28 novembre 1907 e muore nel 1990 dopo una vita iniziata in salita con i frequenti ricoveri nei sanatori sulle Alpi per curare una grave forma di tubercolosi ossea, ma vissuta intensamente fino all’ultimo giorno: una produzione letteraria sconfinata, tre grandissime donne al suo fianco, viaggi intorno al mondo, la fama che il cinema neorealista regala alle sue storie e l’amicizia con molti personaggi di primo piano della cultura italiana come Pier Paolo Pasolini.

Oggi voglio celebrare la vita di questo straordinario narratore testimone del novecento parlandovi del suo romanzo meno amato dalla critica, tanto che spesso non viene nemmeno inserito nelle antologie scolastiche.  

Se infatti, è nota la fortuna, di pubblico e di critica, de Gli indifferenti, de La ciociara o La noia, altrettanto non si può dire de Il conformista.

A soli 44 anni, Il conformista è l’ottavo romanzo, escluse le raccolte di racconti, dello scrittore romano.

Un romanzo che parte da una domanda drammatica: può un evento traumatico nell’infanzia condizionare tutta la vita, la lettura e l’interpretazione di tutti gli avvenimenti che avvengono prima e dopo quel fatto?

Pubblicato da Bompiani nel 1951, quando l’Italia sta ricostruendo quanto distrutto dalle bombe, Il conformista riprende molti temi già presenti nelle opere precedenti (ma anche successive) dell’autore: la decadenza della società borghese votata inconsciamente all’apparenza e ai rapporti stereotipati, il giudizio complessivo di fallimento della società occidentale durante la seconda guerra mondiale e nel periodo appena successivo, con l’inizio della Guerra Fredda, la tensione sessuale che guida i pensieri e le azioni dei suoi personaggi, ma anche la frustrazione per una sessualità mai apertamente vissuta, o peggio, subita, il tradimento come norma nei rapporti umani.

Mors tua, vita mea, una narrativa che non prevede eroi, come nella più pessimistica visione dell’esistenza umana.  

Il conformista è un romanzo in tre atti che ripercorre la vita del protagonista Marcello Clerici.

Il titolo, come spesso accade in Moravia, è un manifesto: programmatico e predittivo rispetto al contenuto della storia.

La narrazione è in terza persona, con uno stile discorsivo che somiglia quasi alla voce fuori campo di un film.  

Nel Prologo del libro, che è il primo atto, troviamo Marcello adolescente. L’adolescenza, età molto indagata dalla penna di Moravia: periodo della vita che può essere pieno di tormenti ma anche curiosità nei confronti dell’esistenza e del mondo, di ricerca di identità certezze e conferme.

Nella vita di questo adolescente ad un certo punto compare un personaggio ambiguo, Lino, che con il suo agire determina in modo definitivo la rotta che la vita di Marcello dovrà prendere per sempre: il ragazzo non vuole più, da quel momento in poi, sentirsi diverso dagli altri, avere pensieri differenti (o che crede erroneamente che siano differenti) da quelli degli altri, dei suoi coetanei.

Nell’età adulta, questa ricerca ossessiva verso il volersi sentire uguale agli altri, spinge il protagonista ad aderire al movimento fascista (nel secondo atto siamo nel momento appena precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale) nel modo forse più facile: diventare una spia alla ricerca dei nemici del duce. Poco importa se questi “traditori della patria” sono persone che lui conosce molto bene, come un suo vecchio professore stabilitosi in Francia.

Marcello parte alla volta di Parigi, mascherando la sua missione con il viaggio di nozze insieme alla moglie Giulia, per trovare il professore e consegnarlo nelle mani dei suoi sicari.

Da quel momento inizia inesorabilmente il suo viaggio di non ritorno verso il punto più basso verso la morale umana, una a-moralità, con una visione del tutto distorta di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un vortice discendente da cui sembra salvarsi, ma non del tutto, solo la moglie Giulia, personaggio che ha comunque dei lati oscuri e nascosti.

Si arriva così al terzo e ultimo atto, che chiude il cerchio e le fila di una vita che ricorda quella di certi inetti così cari alla letteratura italiana a cavallo fra otto e novecento.

Leggendo le pagine di questo romanzo fa impressione pensare che molti dei fatti narrati sono tratti dalla biografia del suo autore, a partire dall’anno di nascita del protagonista Marcello che viene fatto nascere 1907 esattamente come Moravia.

C’è poi il tema dell’adesione al fascismo, che Alberto conosce molto bene essendo stato tacciato di pornografia dal regime, costretto a pubblicare dietro pseudonimo e poi alla fuga dopo l’8 settembre, e il tema dell’omicidio politico.

Nel 1937, infatti, Carlo e Nello Rosselli, cugini di Moravia, vengono assassinati in Normandia per mano di un’organizzazione filofascista francese.

Non mi soffermo a elencare i motivi per i quali quest’opera è così poco amata dalla critica; personalmente credo che sia assolutamente da scoprire e comprendere, soprattutto visto che il tema del conformismo, che può portare anche agli esiti catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti sotto forma di violenza di branco e bullismo, è sempre presente all’interno della società.

Il conformista è  un romanzo di segreti e rivelazioni, di calma sulla superficie a nascondere la tormenta e il terremoto che da sempre scuote l’animo umano.

Paola Cavioni

28 novembre 2021

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Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling e il principio dell’iceberg di Ernest Hemingway

“Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg. I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno. Prima di tutto eliminare tutte le parti superflue e trasmettere al lettore un’esperienza che potesse entrare a far parte della sua, come quelle reali. È un’impresa difficilissima, e ho dovuto lavorare sodo.”

Queste sono le parole di Ernest Hemingway in un’intervista a George Plimpton del 1954.

Lo stesso anno in cui Hemingway riceve il Nobel per la Letteratura per Il vecchio e il mare, romanzo breve pubblicato due anni prima e che è considerato l’ultimo capolavoro dello scrittore statunitense.

Molti anni prima che la metafora dell’iceberg venisse sfruttata in qualsiasi contesto lavorativo (basta aprire LinkedIn per capire di cosa sto parlando), Hemingway in poche righe riassume il senso del suo narrare: un procedimento per sottrazione che dice moltissimo del rapporto fra letteratura e vita, fra scrittura ed esperienza.

È sufficiente leggere l’incipit de Il vecchio e il mare:

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che ormai non prendeva un pesce.”

Un inizio semplice ma potentissimo, che catapulta il lettore nel cuore della storia in una sola frase.

Per spiegare meglio il principio dell’iceberg si possono fare due premesse: la prima è l’antica massima “conosci te stesso”, l’iscrizione presente nel tempio di Apollo a Delfi, declinata in questo caso in conosci i tuoi personaggi.

Sì perché ogni storia per forza di cose ruota attorno a uno o più personaggi, a meno che non vogliate romanzare la storia del Big Bang o stiate scrivendo un’epopea sulle eruzioni vulcaniche.

Conosci i tuoi personaggi.

Sembra più facile a dirsi che a farsi, perché perdere il controllo è davvero un attimo.  

Per raccontare una storia che sia credibile e indimenticabile i personaggi devono agire, muoversi, parlare. Le loro azioni, movimenti e dialoghi sono il frutto del loro vissuto, delle loro vicissitudini personali, anche di quelle che non sono inserita all’interno di quel momento, breve o lungo, che si sta narrando.

La seconda premessa è invece il caposaldo con cui si aprono quasi tutti i corsi di scrittura creativa: show don’t tell (mostrare, non dire). Questo perché, se i personaggi sono costruiti in modo solido, anche se quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg sarà sufficiente farli agire in maniera coerente con la loro personalità, con le loro esperienze, senza che siano necessarie troppe spiegazioni. Le azioni parleranno da sé.

Alcuni autori prima della stesura vera e propria del romanzo, dopo una ovvia fase di documentazione, scrivono delle schede biografiche dei loro personaggi, in modo da riassumere nero su bianco tutti i punti salienti della loro vita per poterne attingere in fase di stesura del romanzo.
Altri invece preferiscono utilizzare il metodo delle interviste, scrivendo una serie di domande ipotetiche e rispondendo calandosi nei panni del loro protagonista.

Queste domande servono a costruire la personalità e a fare emergere i bisogni più profondi delle voci che porteranno avanti la narrazione.

Tutte queste analisi preliminari servono a creare la famosa base dell’iceberg di cui ci parla Hemingway. Facile vero? Sicuramente, se fossimo tutti come Hemingway…

Ti è mai capitato di leggere un libro in cui invece l’autore, in maniera più o meno consapevole, non segue questo principio? Una storia in cui i personaggi appaiono come vuoti, senza sostanza?

Paola Cavioni

Per leggere le pillole di storytelling precedenti, clicca sui link seguenti:

La regola delle 25 parole, Il grande libro della scrittura di Marco Franzoso

Scrivere e un’abitudine, non un’arte

Il viaggio dell’eroe di Chrisfopher Vogler e Midnight in Paris di Woody Allen

La sospensione dell’incredulità e The Truman Show

Bibliografia:

  • Lezioni di scrittura creativa, Gotham Writer’s Workshop (Dino Audino Editore, 2005)
  • Master di scrittura creativa, Jessica Page Morrell (Dino Audino Editore, 2007)
  • Il grande libro della scrittura, Marco Franzoso (Il Saggiatore, 2020)
  • On writing, Stephen King (Pickwick, 2000)
  • Il vecchio e il mare, Ernest Hemingway (Mondadori)
  • Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare, Ernest Hemingway (Il Nuovo Melangolo, 1996)

Ciao e benvenuto/a!

Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

L’altra mia più grande passione? Che domanda, i libri! Su Righediarte trovi tante recensioni di libri, senza un ordine preciso perché amo spaziare in ogni ambito della narrativa.

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Lune-dì Scrittura, la sospensione dell’incredulità e The Truman Show (1998)

“Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta, è molto semplice”

The Truman Show (Christof)

Qualche giorno fa ho rivisto The Truman Show insieme a mia figlia Gaia, che ha quasi dieci anni e lo ha visto per la prima volta.

Per chi non lo conoscesse, The Truman Show, caso cinematografico della fine degli anni ’90, è la storia di Truman Burbank. Truman, interpretato da un indimenticabile Jim Carrey, vive a Seaheaven, cittadina balneare che incarna il sogno americano con le sue casette tutte in fila e i prati all’inglese. Burbank è sposato con Meryl, fa l’assicuratore, ha degli amici ma soprattutto è inconsapevole del fatto che tutta la sua vita si stia svolgendo in un grandissimo set cinematografico e che ogni avvenimento della sua esistenza è stato deciso a tavolino dal regista Christof (Ed Harris).

Tutta la sua vita di fatto, pur essendo perfetta, è quello che oggi chiameremmo un fake.

Una serie di “intoppi nella sceneggiatura” (come un faro – il finto Sirio della volta celeste – che quasi gli cade in testa mentre è sulla via di casa) iniziano a fare capire a Truman che c’è qualcosa che non torna in questa perfezione, e lo spingono a indagare per capire cosa stia succedendo, realizzando qualcosa che forse aveva intuito da tempo.

Il regista del film è Peter Weir, che lavora sul soggetto scritto da Andrew Niccol (per gli amici cinefili, è lo stesso sceneggiatore del distopico In Time).

Tornando all’origine di questo post e la connessione con le pillole di storytelling del lunedì, devo ringraziare mia figlia.

Mi ha fatto emozionare e riflettere infatti la sua reazione davanti alla pellicola, dato che inizia ora vedere film da adulti e non più solo cartoni animati o film di animazione.

Mentre sullo schermo scorrevano le vicende dei protagonisti, lei continuava a farmi domande sulle sorti del povero Truman.

Ma suo padre è morto realmente?

Perché Truman ha sposato una donna se ama un’altra?

Ma Christof è cattivo?

Perché non vogliono che lui se ne vada dallo show?

Era completamente immersa nel film.

Questo momento quasi di trance, di astrazione dalla realtà e completa immersione in una storia mi porta a parlarvi della sospensione volontaria dell’incredulità, o più semplicemente sospensione dell’incredulità, che è un principio valido sia quando si scrive narrativa (e di conseguenza quando si legge) che quando si guarda un’opera rappresentata.

Leggere un libro, andare a teatro o vedere un film, a meno che non lo si faccia per professione, sono degli atti volontari cui ci si approccia con uno stato d’animo di apertura nei confronti della storia che stiamo per vedere scorrere sotto i nostri occhi. Andiamo al cinema perché siamo disposti a credere a ciò che vediamo, leggiamo un libro perché vogliamo lasciarci trasportare dalle vite dei personaggi e dal loro mondo.

La sospensione dell’incredulità è quel sentimento, di cui non siamo completamente consci, di annullamento del nostro naturale scetticismo per metterci nella condizione di credere a quanto stiamo guardando, emozionarci e, soprattutto, provare empatia per i personaggi e le loro sorti.

È un meccanismo innato che accompagna l’uomo dalla notte dei tempi, da quando le storie venivano raccontate intorno al fuoco. Un filo sottile che lega le narrazioni di tutte le epoche: da Omero alla Bibbia, a Dumas a Hemingway.

Certo l’arte cinematografica dal punto di vista della creazione di mondi verosimili è avvantaggiata, poiché ha a disposizione, oltre alla forza della storia e del soggetto, la recitazione degli attori e la scenografia (come può esserci nel teatro) ma anche gli effetti speciali, l’utilizzo della colonna sonora, le inquadrature, il montaggio ecc…

La sospensione dell’incredulità viene teorizzata all’inizio del diciannovesimo secolo dal poeta e critico letterario Samuel Taylor Coleridge, uno dei fondatori del romanticismo inglese.

La cosa più bella è che nei bambini questo meccanismo non esiste perché per loro non c’è distinzione fra quello che vedono sullo schermo e ciò che succede nella vita reale.

Senza questa sospensione non riusciremmo a vedere un film intero come The Truman Show senza sentirci presi in giro da una storia che, di fatto, è fantastica.  

Senza la sospensione dell’incredulità non potremmo mai fare il tifo per Truman quando cerca di scappare dal destino che Christof ha stabilito per lui.

In The Truman Show inoltre c’è un sottile gioco metacinematografico: noi siamo spettatori anche della vita degli spettatori dello show di Truman, che piangono, ridono o si arrabbiano insieme a lui. La sospensione quindi è al quadrato.

Ovviamente ogni opera per essere credibile deve essere verosimile ed avere una coerenza interna.

Se ad esempio, nel mezzo di The Truman Show fossero arrivati anche gli alieni a complicare le cose, ecco forse avremmo davvero alzato le mani in segno di arresa, e ci saremmo anche alzati dalle poltrone del cinema.

Ma per fortuna, almeno in questo caso, l’immersione nel mondo creato da Christof è completa e niente è lasciato al caso.

Ora che sapete che cosa vuol dire sospensione dell’incredulità però, vi invito a dimenticarvene ogni volta che andrete al cinema. Lì dovete solo rilassarvi, spegnere il telefono, e lasciarvi trasportare dalla storia davanti a un sacchetto di pop corn.

Per la lettura di un buon libro, valgono le stesse prescrizioni.

Paola Cavioni

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Per leggere tutte le pillole di storytelling del lunedì, seleziona dal menù in alto la voce “Lune-dì scrittura”.

Lune-dì Scrittura. Il Viaggio dell’eroe di Christopher Vogler e Midnight in Paris di Woody Allen

“Il viaggio dell’Eroe non è un’invenzione, ma un’osservazione. È il riconoscimento di un modello eccellente, un insieme di principi che governano il modo di vivere e il mondo della narrazione così come la fisica e la chimica regolano il mondo fisico.”

Il viaggio dell’eroe, che ha ormai quasi trent’anni di vita ed è la base per molti testi di scrittura creativa, è un manuale classico per approcciarsi allo studio delle tecniche di scrittura della fiction (romanzo e cinema). Il suo autore è Christopher Vogler, analista di sceneggiature per Warner Bros e 20th Century Fox, nonché docente nella prestigiosa università UCLA di Los Angeles.

Con la sua opera, Vogler porta alla luce, come fosse uno scultore che dalla pietra cava la sua statua, le strutture archetipiche, i modelli che danno corpo e struttura alla narrazione, che fanno scaturire nel pubblico quel meccanismo di riconoscimento ed empatia determinante per il successo della storia stessa.

Questa ovviamente è una sintesi del lavoro di Vogler, che moltissimo deve a Joseph Campbell e al suo L’eroe dai mille volti, che a sua volta attinge a piene mani dalla psicologia di Jung e dal mito.

Ma cosa dice di originale Vogler?

Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (Dino Audino Editore)

Dice che in ogni “storia”, intesa come narrazione con un inizio e una fine, ha una struttura in tre atti (ma questo già ce lo aveva detto Aristotele). Ogni atto è suddiviso in momenti che rappresentano le tappe di un Viaggio, che può essere fisico o metaforico, e che portano l’Eroe protagonista da una condizione di “ordinarietà” all’avventura in un mondo nuovo, straordinario, che lo porta a cambiare la propria visione del mondo e anche lati della propria esistenza che non lo facevano vivere nella piena soddisfazione (si parla in questo caso di need, un bisogno profondo).

I passaggi sono riassumibili come di seguito:

Primo atto:

  • Mondo ordinario: l’Eroe si trova all’interno del suo Mondo Ordinario, può amarlo o sentirselo andare stretto, ma è comunque all’interno di quella che potremmo definire la sua zona di comfort;
  • Chiamata all’avventura e rifiuto della chiamata: l’Eroe si trova di fronte ad un problema che lo catapulta fuori dal mondo delle sue certezze e, come ogni cambiamento, lo fa andare in crisi fino a rifiutare questa chiamata alle armi.
  • Incontro con il Mentore: il Mentore, colui che funge da guida, può manifestarsi sotto varie sembianze, può anche non essere umano in alcuni casi, ma ha sempre comunque il compito di preparare l’eroe ad andare verso l’ignoto, fornendo le armi per affrontare l’avventura.
  • Superamento della prima soglia: a questo punto l’Eroe è pronto a varcare la soglia ed entrare nel Mondo straordinario.

Secondo atto:

  • Prove, alleati e nemici: oltrepassata la prima soglia, l’Eroe incontra delle prove sul suo cammino, e ad aiutarlo o a ostacolarlo ci sono dei personaggi “archetipici”: Alleati o Nemici
  • Avvicinamento alla caverna più profonda: l’Eroe giunge finalmente ai confini del luogo più pericoloso, dove si nasconde il reale oggetto della sua ricerca.
  • Prova centrale: qui l’Eroe si scontra con la sua paura più grande, affronta la morte (anche sotto forma di metafora) e la guarda in faccia. È il momento in cui tipicamente il pubblico resta con il fiato sospeso. Il nostro eroe se la caverà? Ci sarà il lieto fine?
  • Ricompensa: l’Eroe sopravvive ed entra finalmente in possesso della ricompensa tanto desiderata, che fuor di metafora rappresenta la consapevolezza, la conoscenza e una maggior comprensione della propria esistenza.

Terzo atto:

  • Via del ritorno: l’Eroe non è ancora fuori pericolo perché si trova ancora fuori dal suo Mondo Ordinario e in questa fase deve decidere se intende tornarci oppure se vuole seguire per sempre il Bianconiglio e rimanere nel Mondo Straordinario.
  • Resurrezione: l’Eroe viene messo nuovamente alla prova, quella definitiva, ed è l’esame conclusivo per verificare se ha realmente imparato la lezione appresa nella Prova Centrale.
  • Ritorno con l’elisir: l’Eroe ha finalmente compreso il senso profondo del suo viaggio e non è più la stessa persona che è partita per l’avventura, spesso è anche cambiata fisicamente ed esteriormente oltre che interiormente.

La straordinarietà del modello di Vogler e la sua universalità è facilmente riconoscibile: basta pensare a qualsiasi film che abbiate visto di recente e incastrare i passaggi nello schema appena illustrato. Non importa che i momenti ci siano tutti, e a volte non sono neanche nello stesso ordine, ma l’ossatura profonda rimane, sempre.

E per fare un esempio concreto, in questa quarta pillola di storytelling, vediamo come la struttura del viaggio dell’eroe può essere applicata al film Midnight in Paris, scritto e diretto da Woody Allen con Owen Wilson e Rachel McAdams.

Midnigth in Paris (2011): trama e analisi

Il protagonista è Gilbert Pender, Gil per tutti, interpretato da Owen Wilson e dal suo caratteristico taglio di capelli.  

Gil è un brillante sceneggiatore che sta per sposarsi con la bellissima fidanzata Inez, dovrebbe essere un momento felice eppure Gil soffre di attacchi di panico, è depresso ed è insoddisfatto del suo lavoro che non trova più stimolante.

La coppia è a Parigi insieme ai genitori di lei, che non vedono di buon occhio Gilbert e preferiscono di gran lunga Paul, intellettuale borioso vecchia conoscenza di Inez, che a sua volta nutre un debole per l’uomo e non fa neanche troppa fatica per nasconderlo.

Gil vorrebbe trasferirsi a Parigi, città che ama, anche perché spera che l’atmosfera magica della città lo aiuti a terminare il suo primo vero romanzo, per poter dire addio definitivamente alla carriera di sceneggiatore e diventare un “vero” scrittore.

Gil però, spinto da Inez, molto attaccata alla apparenze e con i piedi bel piantati a terra, è reticente a fare il grande passo a buttarsi nella nuova avventura fino a quando… Fino a quando una notte, a mezzanotte precisa, è l’avventura che arriva da lui, nelle sembianze di una vecchia automobile che lo trasporta indietro direttamente in quella che per lui è la sola età dell’oro: gli anni ’20.

Qui, fra fumosi café parigini e lo studio di Gertrude Stein, Gil conosce i suoi più grandi idoli: Zelda e Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Luis Buñuel, Salvador Dalì, Cole Porter, Man Ray e soprattutto Adriana. Quest’ultima gli fa capire che non ha senso continuare a guardare ad un passato ideologizzato per nascondersi e non affrontare le frustrazioni, ma anche le gioie, della vita quotidiana.

Senza entrare troppo nel dettaglio della trama per non anticipare nulla a chi ancora non lo abbia visto, in Midnight in Paris troviamo tutte le strutture del Viaggio dell’eroe vogleriano.

Abbiamo un eroe inconsapevole, Gil, che non sembra proprio il prototipo di eroe senza paura, anzi. È pieno di incertezze e ansie, ha scelto la strada che apparentemente sembra la più giusta per lui: il matrimonio con una ragazza bella e ricca. Ma è quello che vuole? Capiamo subito che il Mondo Ordinario di Gil gli va stretto, lo manifesta nelle sue ansie e dal suo continuo “guardare indietro”, al mito dei ruggenti anni ’20 parigini.

La sua Chiamata all’avventura inizia nel momento in cui mette piede sull’auto che lo trasporta magicamente indietro di novant’anni e gli fa incontrare personaggi che, in un modo o nell’altro, fungono da Mentore nel cammino di cambiamento da sceneggiatore frustrato a scrittore: Hemingway e la Stein per primi.

Da quando mette piede negli anni ’20 inizia il cammino di avvicinamento alla caverna più profonda, il confronto con le sue paure: la paura della morte ma in sostanza la paura di scegliere di non vivere, seguendo una strada che non sente sua.

Ma Gil prova a rimanere aggrappato alla sua vecchia vita, vorrebbe condividerla con la sua fidanzata, ma lei non può capire. E in agguato c’è Paul, il nemico, contro cui Gil vince con l’astuzia, anche se in apparenza può sembrare il contrario…

Gil deve cercare da solo la sua ricompensa, dopo averla individuata, per poi tornare dal viaggio con un elisir unico: la consapevolezza di chi è e di cosa vuole diventare.

Gli elementi del Viaggio dell’eroe ci sono tutti, anche se apparentemente la storia di Midnight in Paris possa sembrare lontanissima dal Mito. Ma è scavando sotto la superficie che si trova la struttura di base.

Midnight in Paris a mio parere è assolutamente imperdibile per capire come costruire un soggetto che abbia corpo, una palestra per aspiranti autori, un film universale e bellissimo non solo per la brillante sceneggiatura ma per il messaggio che lascia nello spettatore: quale è la tua età dell’oro?

Non deve essere un tempo o un luogo fisico, ma uno condizione mentale.

Una volta che l’hai individuata, seguila anche a costo di camminare da solo sotto la pioggia.

Seguila senza rimpianti, perché la paura è il solo reale limite che ci autodistrugge e ci impedisce di vivere.

Paola Cavioni

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“Trilogia di New York” di Paul Auster e la scrittura perfetta

“I libri vanno letti con la stessa cura e la stessa riservatezza con cui sono stati scritti.”

Paul Auster

Paul Auster, La trilogia di New York, edito da Einaudi

Scrivere della Trilogia di New York mi ha messo in difficoltà. Più che altro, mi ci è voluto parecchio tempo per mettere insieme le parole  più adatte in uno scritto degno dello stile di Paul Auster (o almeno ci provo)  per parlare di un libro che ho scoperto lo scorso settembre e che ho letto in un paio di giorni.

Per chi ama scrivere, come me, ogni lettura è fonte di miglioramento per affinare il proprio stile, ogni nuovo autore scoperto rappresenta un maestro da cui carpire tecniche e segreti. Leggere la Trilogia è un’illuminazione.

Perché la scrittura di Paul Auster è essenziale, asciutta, senza fronzoli. Niente di più, niente di meno. Perfetta.

Auster è un architetto delle parole, che costruisce periodi, psicologia dei personaggi, capitoli e intrecci, con la stessa pulizia ed eleganza delle architetture moderniste di Mies Van Der Rohe. Questo per quanto riguarda lo stile, perché il contenuto è un’altra storia… La Trilogia  infatti è una discesa negli inferi della vita frenetica e alienante della New York degli anni ’80, un’esplorazione dell’animo umano nelle sue tante sfaccettature fra nevrosi e follie.

Una scrittura diretta, ipnotica e allo stesso tempo ruvida, che ricorda molto lo stile di Charles Willeford. C’è infatti più di un’analogia fra i due autori. Una fra tutte è il richiamo al Walden di Henry David Thoreau, ma lascerò scoprire a voi tutti gli indizi e le somiglianze disseminati qua e là nelle opere e nelle biografie dei due scrittori americani.

Se non avete ancora letto Willeford, vi invito a farlo; so che invece Thoreau mette in difficoltà anche le menti più allenate alla lettura, ma conviene comunque provare a conoscerlo.

La Trilogia si compone di tre romanzi brevi: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa. La sua pubblicazione nella metà degli anni ‘80 consacra lo scrittore nell’olimpo della letteratura americana contemporanea, destinandolo all’immortalità.

Nella Trilogia ci sono più storie che si rincorrono e si chiudono una nell’altra come una matrioska, un libro nel libro, con i personaggi che sembrano richiamarsi gli uni con gli altri e moltiplicarsi. 

Tre romanzi che hanno protagonisti dall’identità confusa, che cambiano nome o che non lo hanno (Città di Vetro), che sono giochi di colori (Fantasmi), che scambiano la loro vita con quella di amici scomparsi (La stanza chiusa).

E ci sono anche altri elementi comuni in tutte e tre i racconti: la follia, i pedinamenti, il taccuino, la descrizione della vita dello scrittore spiantato. Nella Trilogia infatti c’è anche tanto della biografia dell’autore, come se avesse rotto in mille pezzi le sue esperienze personali come scrittore in cerca di fama, e le avesse disseminate qua e là nella trama.

I temi presenti nell’opera di Auster sono ricorrenti: la solitudine dell’uomo di città e la volontà di ritorno a una vita più ascetica e a contatto con la natura, la follia dovuta all’alienazione dal lavoro e dallo stile di vita contemporaneo. E ancora la ricerca del senso dell’esistenza, il bisogno di certezze insito dell’uomo, il fato, il destino che tiene in mano le vite di tutti, lo studio del linguaggio e del legame fra linguaggio ed esistenza.

Un libro, attualissimo anche se scritto ormai quasi quarant’anni fa, adatto a chi non ha paura di guardare in faccia le molte contraddizioni dell’Occidente, che lascia il lettore alla fine con una lieve ma persistente sensazione di amaro in bocca e la certezza che la società occidentale non è fatta a misura d’uomo.

L’autore

Immagine di Paul Auster

Paul Benjamin Auster (conosciuto anche con lo pseudonimo di Paul Quinn) nasce a Newark, città del New Jersey a pochi chilometri da New York, nel 1947.

Il suo talento per la scrittura si manifesta molto precocemente, tanto che compone le prime poesie attorno ai dodici anni.

La sua carriera come scrittore inizia alla fine degli anni ’70, dopo avere svolto per qualche tempo lavori saltuari. La consacrazione avviene fra il 1985 e il 1987 con la pubblicazione dei libri della Trilogia.

Auster è anche saggista, produttore, attore e sceneggiatore.

Paola Cavioni

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