Righe su Furore di John Steinbeck

“The highway is alive tonight
But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes
I’m sitting down here in the campfire light
Searchin’ for the ghost of Tom Joad”

(The Ghoast of Tom Joad, Bruce Springsteen)

La copertina di ‘Furore’ di John Steinbeck, un classico della letteratura americana che affronta temi di resilienza e ingiustizia sociale.

Penso che oggi non si possa leggere Furore senza accompagnarlo con la colonna sonora di Springsteen in “The Ghost of Tom Joad”. Le note così armoniose di questa ballata, il canto quasi sussurrato, creano un contrasto struggente con l’asprezza di un libro che è maestosamente e dolorosamente meraviglioso.

Con le sue quasi 700 pagine, è il primo classico che mi ha accompagnato tra gennaio e febbraio di questo 2025, un anno che sembra appena iniziato, eppure siamo già a marzo.

Quante cose è Furore! Universalmente considerato il capolavoro della maturità di John Steinbeck, l’ho amato profondamente proprio ora, avvicinandomi ai miei quarant’anni. Furore è un romanzo di denuncia sociale, una fiction che si sviluppa davanti agli occhi come in un unico piano sequenza di un film (che è stato poi effettivamente realizzato nel 1940 con un giovane Henry Fonda), è equilibrio perfetto nella costruzione dei personaggi e dialoghi.

Dopo Uomini e topi del 1937 è il capolavoro della maturità di Steinbeck…anche perché chi sono io per dire il contrario di un romanzo che ha vinto pure il Pulitzer e di un autore detentore di un Nobel?

Furore (The Grapes of Wrath in lingua originale, letteralmente “I grappoli dell’ira”) viene pubblicato nel 1939, pochi mesi prima che nei cinema esca il capolavoro di Victor Fleming, Via col vento.

Lo stesso anno, due Americhe a confronto: da una parte, quella nata dalle ceneri dalla Guerra di Secessione del 1861; dall’altra, quella segnata dalla Grande Depressione degli anni ’30.

La protagonista è la famiglia Joad, costretta a lasciare l’Oklahoma a causa della crisi agricola e della grande tempesta di polvere (Dust Bowl) che afflisse Stati Uniti e Canada fra il 1931 e il 1939. In questo contesto drammatico, la famiglia si trova a dover affrontare non solo le difficoltà economiche e la mancanza di lavoro, ma anche la perdita della propria terra e delle proprie radici. Mentre migrano verso l’Occidente, cercano nuove opportunità e una vita migliore, ma si imbattono in sfide inaspettate, come la povertà, la discriminazione e lo sfruttamento.

Il viaggio verso la California, tormentato da fame, lutti e ingiustizie, in cerca di una vita migliore diventa non solo una migrazione geografica, ma anche un’esplorazione della resilienza umana di fronte all’ingiustizia e alla disperazione. Tutta la disperazione e la forza di chi non si arrende al proprio destino.

“Non puoi sradicare l’anima della gente, nemmeno con tutta la forza del mondo.”

Il romanzo affronta numerose tematiche di assoluta attualità, che non possono non risuonare al lettore moderno: lo sfruttamento del lavoro umano, la disumanizzazione imposta dalle grandi corporazioni (ora multinazionali), la perdita di identità culturale, la migrazione e la percezione del “diverso” come una minaccia, colui che viene a rubare il lavoro.

Il messaggio di Steinbeck resta ancora incredibilmente attuale: oggi l’avvento della tecnologia e la globalizzazione hanno trasformato radicalmente le dinamiche del lavoro ma le disparità economiche e sociali persistono e forse sono ancora più evidenti di quanto lo fossero novant’anni fa, ovunque nel mondo.

La storia dei Joad ritorna oggi, in un mondo in cui le crisi economica, i cambiamenti climatici e i conflitti spingono milioni di persone a cercare rifugio e opportunità altrove. Le difficoltà incontrate dai Joad nel loro viaggio verso una terra promessa, che non è mai esistita e che fondamentalmente non li vuole, ricordano le esperienze di molti migranti contemporanei, evidenziando come la lotta per la dignità e la giustizia sia universale e senza tempo.

Se Furore era una denuncia delle ingiustizie sociali negli anni ’30, oggi il libro può essere letto a posteriori come una profezia del mondo moderno, quasi come è stato per 1984 per altri motivi. La narrazione di John Steinbeck non solo mette in luce le difficoltà e le sofferenze delle classi lavoratrici, ma esplora anche i temi universali della dignità umana e della lotta per la giustizia. La lotta dei Joad, protagonisti del romanzo, rappresenta una condizione che continua a risuonare nella nostra società contemporanea, dove le disuguaglianze economiche e sociali sono ancora pervasive. La forza e la resilienza degli individui di fronte all’oppressione ci ricordano che, nonostante le sfide, c’è sempre la possibilità di ribellione e di cambiamento. Inoltre, le dinamiche familiari e l’unità dei personaggi ci forniscono una particolare prospettiva sul valore della comunità in tempi di crisi, rendendo il messaggio di Steinbeck non solo rilevante, ma anche profondamente emozionante per le generazioni attuali.

I migranti di oggi non sono tanto diversi dai Joad: cercano un luogo in cui poter lavorare e vivere dignitosamente, ma spesso incontrano ostilità, sfruttamento e pregiudizi. L’America di Steinbeck è una terra di sogni infranti, proprio come oggi molte nazioni che si presentano come promesse di futuro finiscono per diventare campi di battaglia burocratici e sociali per chi cerca una seconda possibilità.

La capacità di Steinbeck di descrivere con realismo e profondità le sofferenze e le speranze dei suoi personaggi rende Furore un’opera senza tempo, non solo un documento che vale come testimonianza di un preciso momento storico che ha cambiato per sempre le sorti di una nazione, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana, invitando i lettori a confrontarsi con le ingiustizie del passato e del presente.

Ingiustizia.

È questo il sentimento più profondo che in ultimo accompagna ogni azione compiuta e ogni parola pronunciata dal vero protagonista della storia, Tom.

“Ed ecco che cosa puoi sapere per certo: terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché questa è l’unica qualità fondamentale dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo.”

Con il suo lavoro, e Furore in particolare, John Steinbeck ha influenzato profondamente molti autori moderni e contemporanei, per il suo stile narrativo diretto e realistico, per la predilezione verso temi legati alla lotta della classe lavoratrice, e per l’esplorazione del rapporto tra uomo e natura.

Cormac McCarthy, Jonathan Franzen e Kent Haruf, solo per citarne alcuni, possono essere considerati in qualche modo eredi del suo stile e della sua poetica.

Furore è più di un romanzo. È un manifesto di lotta, di resistenza e di speranza, che si chiude con un’immagine potentissima (che non anticipo per non togliere nulla al futuro lettore).

La sua attualità e immortalità ci impongono di non dimenticare mai che la storia può ripetersi e che l’unico antidoto alle ingiustizie è la solidarietà. La memoria storica è il nostro strumento più potente per evitare che le cicatrici del passato vengano riaperte, e solo attraverso l’unione possiamo sperare di costruire un futuro più giusto per tutti.

“Io sarò sempre ovunque ci sia gente che soffre, lotta e spera.”

L’autore

John Steinbeck (1902 – 1968) nasce a Salinas in California e cresce in una regione agricola, cosa che influenza profondamente la sua scrittura. Dopo aver abbandonato gli studi universitari, svolge diversi lavori manuali, acquisendo una conoscenza diretta delle difficoltà dei lavoratori agricoli, tema centrale del suo stile narrativo. Vincitore del Nobel per la letteratura nel 1962, nel 1964 il Presidente Lyndon B. Johnson gli conferisce la Medaglia presidenziale della libertà, uno dei più alti riconoscimenti civili conferiti dal presidente degli Stati Uniti, che viene assegnata a individui che abbiano compiuto atti straordinari a favore della libertà, della sicurezza nazionale, della cultura, della scienza, dell’educazione, della salute pubblica, dei diritti civili o di altre cause meritevoli.

Ha lasciato un’eredità letteraria straordinaria, raccontando con empatia e realismo le sfide dei più deboli nella società americana.

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Paola Cavioni, marzo 2025

Lune-dì Scrittura, pillole di storytelling: voce narrante e focalizzazione nella narrativa

“La voce narrativa riguarda chi parla, mentre la focalizzazione riguarda chi vede: due domande essenziali per comprendere il funzionamento di ogni racconto.”

Gérard Genette


I giorni che precedono il Natale e il mese di dicembre rappresentano solitamente il periodo delle tradizioni ritrovate. Non mi riferisco in questo caso all’albero di Natale, che almeno a casa mia si fa rigorosamente l’8 dicembre, ma ai miei amati Lune-dì scrittura: quello spazio di Righe di arte dedicato al piacere di esplorare i meccanismi della narrazione. Piacere che per  un po’ (un bel po’) ho lasciato nel cassetto, ma che oggi riprendo con ritrovato entusiasmo.

Ti ricordi la professoressa di letteratura delle medie che con voce squillante e una dizione impeccabile, assegna il compito: “Brano a pagina 54: indica la voce narrante e specifica se è in prima persona o onnisciente”? Ecco, in questo lunedì affronto un aspetto che, ai tempi delle scuole medie, sembrava soltanto un esercizio noioso: individuare la voce narrante in una storia, e il concetto di focalizzazione in una storia. Spero in modo meno odioso della prof delle medie però.

Questi due concetti, insieme a quelli di fabula e intreccio e ai meccanismi narrativi di analessi (flashback) e prolessi (flashforward), costituiscono la base della teoria elaborata da Gérard Genette, teorico della narratologia, nel suo famoso saggio Discorso del racconto (Figure III, 1972).

Partiamo dalla voce narrante, elemento cruciale per comprendere a fondo un’opera letteraria, e anche elemento caratterizzante di molti capolavori della narrativa mondiale.

Ti immagi Il giovane Holden scritto in terza persona? Non suona per niente, vero?

Oppure Moby Dick che comincia con “Lo chiamano Ismaele” (sembra la parodia di “Lo chiamavano Trinità”)

Suonerebbero come delle forzature, un po’ come chiedere al buon Tolkien di tagliare qualche descrizione o a King di essere più sintetico.

Il punto di vista e la focalizzazione sono strumenti narrativi essenziali, veri e propri riflettori che l’autore punta su personaggi ed eventi per guidarci attraverso l’intreccio, creare suspense, dare tridimensionalità alla storia stessa. Una scelta che non è mai frutto del caso, lo sa bene chi ha frequentato coesi di scrittura creativa. È la chiave che plasma il racconto, anche se la maggior parte delle volte non ce ne rendiamo conto, rapiti dal meccanismo basico della sospensione dell’incredulità, dal suono delle parole, dalla bellezza o dalla forza dei personaggi.

Ma quanti sono i punti di vista nella narrativa? Le categorie principali sono tre, vediamole.

Narrazione in prima persona

O narrazione interna, dal punto di vista del protagonista o di un personaggio.

Serve ovviamente ad avvicina il lettore alla soggettività dell’esperienza. Romanzi appunto come Il giovane Holden di Salinger utilizzano questa tecnica per immergere il lettore nei pensieri più intimi dei protagonisti, amplificando emozioni e conflitti interiori. È la forma utilizzata nel diario, nell’autobiografia e nel romanzo epistolare. Memorie di Adriano, capolavoro della letteratura del Novecento, frutto di un lavoro quasi ventennale di Marguerite Yourcenar, è costruito come una riflessione intima e personale dell’imperatore romano e si presenta appunto come una narrazione in prima persona, in cui la voce narrante è uno degli elementi più affascinanti e significativi, in cui il protagonista, ormai prossimo alla morte, ripercorre la sua vita e le sue scelte politiche, filosofiche e spirituali.

Narrazione in seconda persona

Molto rara, ma esiste. Il caso più famoso è opera di un autore a me molto caro: Italo Calvino con il suo Se una notte d’inverno un viaggiatore. Devo ammettere che, proprio per la complessità legata al punto di vista narrativo, questo romanzo non rientra tra le mie opere preferite di Calvino (Italo perdonami). Tuttavia, resta affascinante per come coinvolge il lettore stesso, rendendolo protagonista della storia, rompendo la quarta parete e giocando abilmente con la metafiction.

Narrazione in terza persona

Qua le cose si fanno più articolate: il narratore può sapere tutto, vedere tutto e rivelare i pensieri e le azioni di qualsiasi personaggio. Questa scelta offre una visione globale della storia, permettendo una comprensione approfondita degli eventi e delle dinamiche tra i personaggi. Tuttavia, rischia di creare una certa distanza emotiva, poiché il lettore non si immedesima direttamente in un solo punto di vista, e potrebbe ridurre il gusto per i colpi di scena se gestita in modo troppo esplicito.

Una narrazione onnisciente può essere alternata a momenti di focalizzazione interna su singoli personaggi, bilanciando la prospettiva globale con un’immersione emotiva più profonda.

Un aspetto interessante della narrazione in terza persona è la possibilità di modulare il grado di focalizzazione, il secondo concetto di oggi e di cui parlerò nella seconda parte del post.

Narrazione con punto di vista multiplo

La narrazione con punto di vista multiplo è una tecnica che permette di raccontare la storia attraverso le prospettive di diversi personaggi, offrendo una visione sfaccettata della realtà. Autori come Virginia Woolf utilizzano questa tecnica per passare fluidamente da un personaggio all’altro, svelando prospettive diverse su uno stesso evento. Questo approccio riflette la complessità della percezione umana e sottolinea come ogni individuo interpreti la realtà in modo unico.

Ovviamente ogni scelta narrativa comporta vantaggi e rischi. Il punto di vista multiplo consente di arricchire la narrazione, aggiungendo profondità psicologica ai personaggi e offrendo una comprensione più completa della trama. Tuttavia, se non gestito con attenzione, può causare confusione nel lettore o frammentare il ritmo del racconto.

Uno degli aspetti più delicati di questa tecnica è decidere se ogni personaggio rappresenti un narratore attendibile o inattendibile. Un narratore attendibile offre una visione coerente e credibile degli eventi, mentre un narratore inattendibile, spesso influenzato da pregiudizi o limiti di comprensione, genera dubbi e suspense, costringendo il lettore a interrogarsi su ciò che è reale e cosa invece non lo è.

Focalizzazione: cosa vediamo?

La focalizzazione è una vera e propria regia narrativa: decide cosa mettere a fuoco e cosa lasciare nell’ombra, influenzando così la percezione del lettore. È un po’ come camminare in una galleria d’arte con una torcia: puoi vedere solo ciò che la luce illumina, e ogni dettaglio nascosto crea curiosità o tensione. Questa selettività non è solo uno strumento tecnico, ma un mezzo per costruire suspense, generare empatia o offrire una visione parziale che invita a indagare oltre.

Se la voce narrante risponde alla domanda chi racconta la storia, la focalizzazione si occupa di cosa viene raccontato. Gérard Genette, individua tre tipi principali di focalizzazione:

  1. Focalizzazione zero:
    Il narratore sa tutto, è una mente onnisciente, in grado di esplorare i pensieri, i sentimenti e i segreti di tutti i personaggi, così come di rivelare dettagli sull’ambientazione o anticipare eventi futuri, come accadeva nella maggior parte dei romanzi ottocenteschi dove l’autore ha un controllo assoluto sul mondo narrativo. Si tratta di un approccio che, se non gestito sapientemente può risultare pesante e togliere effetto sorpresa e immediatezza dell’esperienza.
  2. Focalizzazione interna:
    Con questa tecnica, il narratore vede e sa solo ciò che conosce un determinato personaggio. È il caso di La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano dove il mondo viene filtrato attraverso gli occhi dei due protagonisti Alice e Mattia. Questo tipo di focalizzazione crea un forte senso di immedesimazione, ma limita il lettore a una prospettiva parziale.
  3. Focalizzazione esterna:
    In questo caso, il narratore è un osservatore esterno e si limita a descrivere ciò che può essere visto o sentito dall’esterno, senza accedere ai pensieri o alle emozioni dei personaggi. Questo stile, tipico del minimalismo di autori come Kent Haruf, somiglia al punto di vista di una telecamera: registra azioni e dialoghi senza spiegare troppo, lasciando al lettore il compito di interpretare.

La scelta della focalizzazione non è mai neutrale: ha un impatto diretto sulle emozioni del lettore. La focalizzazione interna, ad esempio, può generare empatia e coinvolgimento, immergendo il lettore nei conflitti interiori di un personaggio. Al contrario, la focalizzazione esterna spesso crea un effetto di distacco, ma può anche accrescere il mistero o la tensione, poiché lascia in sospeso ciò che i personaggi pensano davvero. La focalizzazione zero, infine, trasmette un senso di controllo e chiarezza, ideale per storie epiche o corali, ma può risultare meno intensa dal punto di vista emotivo (e forse anche troppo scontata, bisogna sempre nascondere qualcosa al lettore…).

In definitiva, la focalizzazione è un ingrediente cruciale della narrazione, una lente che definisce non solo cosa il lettore vede, ma come lo vede. Saperla gestire significa avere il controllo dell’attenzione e delle emozioni del lettore, guidandolo attraverso la storia come un regista guida la sua telecamera in un film. E, come ogni grande regista che sapientemente muove una telecamera, un buon narratore sa che a volte è soprattutto ciò che non si mostra a fare la differenza.

In conclusione, chi vuole approcciarsi alla narrativa deve sapere che la scelta della voce narrante e la focalizzazione sono le prime e cruciali decisioni per affrontare la narrazione di un racconto o di un romanzo. È attraverso di loro che la storia prende forma, trasformandosi da semplice trama in un’esperienza complessa, stratificata, plurisensoriale. La vera magia della letteratura risiede qui, nel modo in cui ogni autore, con la sua “luna” di scrittura, ci mostra mondi nuovi attraverso occhi diversi, rendendoci partecipi del suo viaggio.

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Paola Cavioni, 2 dicembre 2024

Cinque (importanti) lezioni che ho imparato dai libri

“Una volta che avrai imparato a leggere, sarai libero per sempre.”
(Frederick Douglass)

Ogni ricordo significativo della mia vita è legato a un libro. Ogni istante che ricordo, sia positivo che negativo, è contrassegnato dal ricordo di uno o dell’altro libro. Ogni cambiamento, ogni passaggio, ogni stagione. Non riuscirei a immaginare la mia vita, i miei spazi, le mie conversazioni, senza libri e senza il loro profumo.

Ricordo l’estate calda e la veranda dei miei tredici anni, la sdraio sulla quale per la prima volta ho incontrato Atticus Finch con Scout, il Cardinale Richelieu, Paul Sheldon e tutti gli altri personaggi che hanno popolato la mia immaginazione di adolescente introversa. Ricordo i libri che stavo leggendo quando sono nati i miei figli. Quel Santiago Posteguillo che avevo sul comodino quando è morto mio padre, e la fatica che mi è costata riaprirlo la mattina dopo averlo salutato per sempre.

Da adulta, ho cercato una casa che fosse adatta alla famiglia e ai libri, e conservo ancora un pregiudizio da lettore: se entro per la prima volta in una casa, la prima cosa che faccio è controllare quanti e quali libri ci sono sugli scaffali (questo non l’ho ancora letto!).

La domanda più difficile a cui mi capita di rispondere è sempre “Qual è il tuo genere preferito?”.

Amo e leggo tutto: dai classici mattoni ai romanzi leggeri, autori semi sconosciuti, saggi, libri di sviluppo personale. Non ho mai messo un limite alla mia curiosità di esplorare e scoprire, e penso che mai lo farò.

Aprirsi a questa scoperta è come aprirsi alla conoscenza di nuove persone.

C’è però una costante nel mio approccio alla lettura: non permetto a nessun libro di sfuggirmi senza portarmi a casa un piccolo o grande insegnamento, che va a riempire una valigia preziosa e solo mia. Ecco perché ho deciso di mettere insieme cinque delle lezioni più importanti che ho imparato dai libri, selezionandone uno per ogni insegnamento. Lezioni che segnano una rotta, che non sempre, purtroppo, riesco a mettere in pratica, ma che segnano comunque una direzione.

L’ultima, la più recente e forte, la devo a un grande uomo che ci ha lasciato proprio pochi mesi fa.


  • Saper rallentareUn indovino mi disse di Tiziano Terzani

A marzo di quest’anno, una mattina come tante, mentre andavo a prendere il treno, ho avuto un incidente in macchina. Un incidente stupido che però mi ha lasciato, per settimane, una fottuta paura di rimettermi al volante. Passavo ogni secondo a maledire il fatto di non avere la macchina, a maledire la persona che mi aveva causato l’incidente, ripensando a ogni frazione di secondo di quella mattina pensando “se solo fossi stata più attenta”, tutte quelle cose che si dicono col senno del poi.

Ma c’è un però.

In quelle settimane di lentezza forzata, prima di riuscire a sistemare la macchina, ho potuto accompagnare mio figlio Francesco all’asilo ogni mattina, godendomi i suoi ultimi giorni da “remigino” prima dell’inizio della scuola elementare. Un regalo bellissimo e inaspettato: gli abbracci prima di entrare a scuola e i bacini stampati.

Saper rallentare e guardare le cose da un altro punto di vista è la lezione di Un indovino mi disse di Tiziano Terzani. Nel 1993, Terzani rinunciò ai voli per un intero anno, costretto a rallentare a causa della profezia di un indovino che, molti anni prima, gli aveva predetto che nel 1993 sarebbe morto in un incidente aereo. Girare l’Asia senza poter volare diventò il primo passo di un viaggio straordinario, che gli regalò una prospettiva completamente nuova su un continente affascinante, ma segnato da guerre e complessità.

Rallentare, respirare a pieni polmoni, concedersi il lusso di diventare più consapevoli e coscienti.


  • Restare umaniCecità di José Saramago

Cecità è un romanzo distopico, ma nemmeno troppo, che ci sbatte in faccia l’ipotetico crollo della società occidentale, colpita da una misteriosa malattia che rende tutti ugualmente ciechi, inabili e disumanizza, mettendo gli uomini gli uni contro gli altri. Tutti gli uomini tranne una donna.

La cecità di Saramago è ovviamente metafora della cecità morale e spirituale, cosa che ci spinge a riflettere su un atto di coraggio dal valore inestimabile: restare umani. Una umanità senza nome, in cui ogni personaggio è archetipico.

Mettere da parte il proprio egoismo, restare umani significa riuscire a rispecchiarsi nell’altro, nel vedere ciò che ci unisce piuttosto che ciò che ci divide. Significa letteralmente vedere l’altro. Cecità di Saramago è un’opera potente che ci invita a riflettere su cosa significhi davvero essere umani, mettendo in guardia contro una società in cui l’individualismo prevale sulla collettività e in cui, forse, vediamo senza comprendere.

Col senno del poi, Cecità mi ha fatto pensare a un periodo della mia vita in cui ho sentito davvero il peso dell’individualismo della società occidentale. Come molti, mi sono trovata a dover affrontare momenti di solitudine e frustrazione, e per un po’ ho guardato il mondo da una distanza di sicurezza, pensando solo ai miei problemi. Ma è stato proprio in quel momento che ho imparato, forse per la prima volta, cosa significa davvero essere “umani”: è un atto di responsabilità reciproca, è la capacità di aprirsi all’altro, di comprendere le sue sofferenze e i suoi bisogni. Non siamo davvero completi se non vediamo l’altro, se non siamo disposti a mettere da parte il nostro egoismo per far spazio all’empatia. Questo è stato uno degli insegnamenti più importanti che ho ricevuto dai libri: restare umani non vuol dire essere perfetti, ma riconoscere che l’umanità è una rete di relazioni che si costruisce solo se siamo capaci di vedere davvero l’altro.


  • Il potere curativo della letteraturaL’arte di essere fragili di Alessandro D’Avenia

Nel mio blog ho parlato più volte di Alessandro D’Avenia, uno degli autori italiani contemporanei più profondi. Ho amato tutti i suoi primi lavori, in particolare L’arte di essere fragili, un romanzo-saggio sulla vita di Giacomo Leopardi, in cui D’Avenia cerca di restituire a Leopardi la sua umanità, togliendogli quella patina di “sfigato” che spesso gli viene attribuita nei programmi scolastici.

Leopardi ci ha lasciato un grande insegnamento: la letteratura e la poesia sono luci che illuminano anche quando tutto sembra buio. Ogni età è parte di un disegno più grande: adolescenza come arte di sperare, maturità come arte del morire, morire come arte di rinascere.

Nel libro, D’Avenia non si limita a raccontare la vita di Leopardi, ma esplora anche il concetto di fragilità come parte integrante della condizione umana. La fragilità, lungi dall’essere un limite, è vista come una risorsa, un’opportunità di crescita e di scoperta. Attraverso le parole di Leopardi, D’Avenia ci invita a riconoscere la bellezza anche nelle nostre debolezze, a guardare la vita con uno sguardo più consapevole e più profondo. La letteratura diventa, in questo contesto, uno strumento terapeutico che ci aiuta ad accettare noi stessi e a fare pace con le nostre difficoltà, ricordandoci che ogni emozione, anche la più dolorosa, ha un valore intrinseco.

Questa visione della letteratura come cura non è solo una riflessione teorica, ma una pratica che possiamo applicare alla nostra vita quotidiana. Leggere, infatti, non è solo un atto intellettuale, ma un’esperienza che coinvolge le emozioni e che ci permette di entrare in contatto con noi stessi in modi che altre forme di comunicazione non riescono a fare. Quando mi immergo nelle pagine di un libro, spesso scopro o ritrovo parti di me che avevo dimenticato o che non avevamo mai conosciuto. La lettura ha il potere di guarire le ferite più profonde, di dare un senso alla sofferenza e di restituirci speranza, anche quando tutto sembra perduto.


  • Ogni vita è un capolavoroL’eleganza del riccio di Muriel Barbery

Ho un grosso difetto che ammetto ormai con consapevolezza: sulle prime impressioni mi sbaglio sempre. Tendo a non fidarmi più del primo giudizio sulle persone che incontro. Questa consapevolezza mi ha permesso di imparare una lezione importante: ogni vita, anche quella più apparentemente comune, può nascondere una dimensione unica e profonda.

Nel personaggio di Renée, portinaia in un elegante palazzo parigino in L’eleganza del riccio, scopriamo un universo complesso e ricco di significati. La sua passione per la cultura, lontana dagli occhi degli altri, dimostra che il valore di una vita non si misura dall’apparenza o dalla posizione sociale, ma dalla capacità di coltivare un pensiero autentico e di vedere la bellezza nascosta. Ogni dettaglio contribuisce a creare una “trama” personale, trasformando la vita in un’opera d’arte unica.

Questa lezione è diventata particolarmente significativa per me nella vita quotidiana, dove spesso, come tutti, sono portata a giudicare le persone solo dalla superficie, da una professione o dallo status sociale. Mi è capitato più volte di scoprire, dietro a persone che inizialmente sembravano banali o poco interessanti, mondi interiori ricchi e sorprendenti. In una recente occasione, ad esempio, ho incontrato una persona che, per quanto silenziosa e poco appariscente, nascondeva una passione profonda per la musica e un’intelligenza acuta che si rivelava solo nelle conversazioni più intime. Quel momento mi ha fatto riflettere su come spesso il nostro giudizio possa essere limitato e su come, invece, ogni persona abbia una storia da raccontare, una trama che può essere altrettanto straordinaria quanto quella di un romanzo. La lettura di L’eleganza del riccio mi ha spinto a rallentare, a guardare oltre la superficie, a cercare la bellezza nascosta in ogni individuo, ricordando che ogni vita ha qualcosa di prezioso da offrire.


  • Raccontarsi con parole giusteLe parole per dirlo di Franco di Mare

Il 28 aprile 2024, come moltissimi italiani, ho seguito l’ultima intervista televisiva del giornalista Franco di Mare, che fino a quel momento avevo associato ai programmi pomeridiani della RAI. Quel giorno, però, qualcosa è cambiato. Non era più solo l’intervista al giornalista di fama, ma l’incontro con un uomo che aveva scelto, con una profondità rara, di raccontarsi in modo sincero e vulnerabile, nell’ultimo drammatico tratto della sua vita. Per questo avevo deciso di leggere subito il suo ultimo lavoro, Le parole per dirlo.

Nel libro, Di Mare non racconta solo la sua carriera, ma soprattutto il suo percorso interiore umano, attraverso il suo lavoro e la sua esperienza di reporter di guerra, con un linguaggio autentico, immediato, di una semplicità quasi disarmante ma allo stesso potente come l’esplosione di una stella.

Da questo libro, che è diventato poi il testamento morale e spirituale del giornalista, ho imparato quanto, nella vita quotidiana, sia difficile ma essenziale scegliere le parole giuste per raccontarsi.

Le parole, se non sono scelte con consapevolezza, rischiano di diventare superficiali, di non fare giustizia alla complessità di ciò che vogliamo comunicare. Di non fare giustizia alla nostra storia.

Raccontarsi è anche un atto di coraggio, una sfida a mettersi a nudo, a permettere alle proprie parole di fare il loro lavoro: quello di avvicinare gli altri, di condividere la propria umanità.

Quante volte, in mezzo ai mille pensieri e preoccupazioni, non ci fermiamo a riflettere sul potere di una parola ben scelta? Quante volte ci risparmiamo dal dire ciò che davvero pensiamo o sentiamo per paura di essere fraintesi, o per la paura di apparire troppo vulnerabili? Franco di Mare mi ha insegnato che le parole giuste sono quelle che riescono a farci sentire davvero connessi agli altri, quelle che, senza maschere, raccontano la nostra verità. Il vero coraggio sta proprio nel saper dire ciò che siamo, senza paura di mostrarsi imperfetti o incompleti. Raccontarsi anche con parole di perdono e comprensione verso sé stessi, penso che questa sia la lezione e la sfida che resta leggendo questo libro.

E siamo alla conclusione di questo lungo post.

Per me libri sono molto più che semplici storie su pagine di carta: sono viaggi, lezioni, riflessioni che restano con noi per tutta la vita. Anche se non sempre riesco a mettere in pratica le lezioni che mi trasmettono, cerco sempre nei libri una guida per essere ogni giorno migliore, più consapevole.

Alla fine, più umana.

A te che sei arrivato a leggere fino a qui dico grazie di cuore.  

Mi piacerebbe leggere un commento con la tua esperienza e le lezioni più importanti che hai imparato dai libri, per poter condividere insieme una ricchezza che cresce ogni volta che la si condivide.

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Paola Cavioni, 30 novembre 2024

Kent Haruf e le storie dalla terra

“We got one last chance to make it real
To trade in these wings on some wheels
Climb in back
Heaven’s waiting on down the tracks
Oh oh come take my hand
Riding out tonight to case the promised land”

(Abbiamo un’ultima possibilità per farli avverare [i sogni], per scambiare con delle buone ruote le nostre ali. Salta su, il Paradiso ci aspetta lungo il percorso. Dai, prendi la mia mano, stanotte cercheremo di raggiungere la terra promessa)

Thunder Road, Bruce Springsteen

Se c’è un autore che ho scoperto e che ha caratterizzato tutto il mio 2021 con un amore a prima lettura è sicuramente è Kent Haruf. A lui dedico questo lungo post, alla fine del quale trovate gli incipit dei suoi romanzi, che vi invito a leggere perché sono sicura che non rimarrete delusi.

Tutti i libri di Kent Haruf sono pubblicati in Italia da NN Editore

Alan Kent Haruf nasce nel 1943 a Pueblo, città nel sud del Colorado, sul fiume Arkansas.

La vita qui non deve essere facile. Non è il sogno americano quello che si vive fuori dalle grandi metropoli. È una vita fatta di fatica, violenza, solitudine, soprusi, conflitti, infanzia violata nel corpo e nello spirito. Un mondo intero di luci e ombre che entra nei libri di Haruf, rinascendo sotto le mentite spoglie di Holt. Città che sulla carta del Colorado non troverete mai ma che esiste, vera e prepotente, nella testa del suo inventore, talmente chiara che se ne riesce perfino a disegnare la geografia.

La trovate, è alla fine di Le nostre anime di notte (Our Souls At Night), provate a cercarla.

Kent è figlio di un pastore e di una insegnante, si laurea alla Nebraska Wesleyan University e si forma leggendo William Faulkner e Ernest Hemingway.

Come molti altri autori, anche suoi contemporanei, prima di riuscire a mantenersi con la sola attività di scrittore svolge molti altri lavori: insegnante, bracciante, bibliotecario.

Ma la sua strada è la scrittura e lotta a lungo per realizzare questa vocazione.

Pubblica i primi racconti all’inizio degli anni ’80; il primo romanzo, Vincoli (The Tie That Binds) è del 1984.

Per uno strano scherzo del destino, la sua consacrazione e il riconoscimento da parte della critica arrivano solo nel 1999 con Canto della pianura (Plainsong). Haruf ha 56 anni.

Muore nel 2014 a Salida, cittadina poco distante da Pueblo, tornato a vivere in Colorado dopo una vita trascorsa in giro per gli Stati Uniti e dieci anni in Illinois. Coincidenza, sceglie di trascorrere gli ultimi anni della sua vita nel posto a cui apparteneva, proprio come il titolo (in originale) di La strada di casa: Where You Once Belonged.

Ci ha lasciato in eredità sei meravigliosi romanzi, tutti scritti dopo i quarant’anni, tutte opere mature, profonde, strazianti e bellissime allo stesso tempo.

La scrittura di Haruf è piana, semplice e terribilmente aderente alla realtà, cadenzata da dialoghi in discorso diretto libero, senza marcatori di punteggiatura, tecnica difficilissima da padroneggiare e usata tra l’altro da pochi altri grandi autori come Josè Saramago, in forma ancora più estrema, e Cormac McCarthy.  

Nel suo primo romanzo, Vincoli, sono già presenti tanti dei temi che, quasi come un’ossessione, ritornano nelle opere di Haruf: la voce narrante in terza persona, l’attaccamento alla terra e alla fatica del lavoro nei campi, la presentazione dell’infanzia come momento della vita che non è esente dal dolore e dalla morte, la sofferenza nell’esistenza, amanti che il destino avverso separa, la violenza della società che si incarna, in ogni libro, in un personaggio.

Ma anche temi positivi come la ricerca del riscatto sociale, l’amore come possibile redenzione, che rende la vita degna di essere vissuta, a prescindere dall’età, l’onore, la compassione. C’è poi la Storia, che fa da cornice agli eventi ma resta sempre sullo sfondo, perché tutte le storie di Kent Haruf sono senza tempo.

E poi ancora l’intreccio tutto particolare che riesce a creare nei suoi romanzi, che non hanno praticamente mai un solo protagonista, ma tante piccole storie, ognuna con un proprio sviluppo e un proprio arco di trasformazione, che a volte si intreccia alle altre storie, o a una sola di esse, solo alla fine del romanzo. In ogni libro inoltre ci sono piccoli rimandi agli altri, come se Haruf si fosse divertito a giocare con lettore che deve riuscire a riconoscere il dettaglio, il particolare che rimanda a un altro dei romanzi di Haruf, sempre dentro al micro cosmo di Holt.

E il legame con la terra, la sua terra, il Colorado che è tutto lì fra le case, le vie, i campi e i sassi di Holt.

Buona lettura.

Vincoli. Le origini di Holt (The Tie That Binds)

Prima edizione 1984

“Edith Goodnough non vive più in campagna. Ormai sta in città, in ospedale, in quel letto bianco, con un ago infilato nel dorso della mano e un uomo che la sorveglia in corridoio, fuori dalla sua stanza. Questa settimana compie ottant’anni: una donna linda, bella, con i capelli bianchi, che in vita sua non è mai arrivata a pesare cinquanta chili e che da Capodanno ne pesa ancora meno di così.”

Libro che si apre come un giallo, con un omicidio, ma si rivela un’epopea storica che ci porta in un viaggio dalla fine del XIX alla metà degli anni ’70, in un’America in continua evoluzione, che però nel mondo chiuso di Holt sembra rimanere sempre uguale e se stessa.

Un cerchio che inizia e si chiude nel 1977.

La strada di casa (Where You Once Belonged)

Prima edizione 1990

“Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui. Persino la polizia aveva smesso di cercarlo. Avevano ricostruito i suoi movimenti fino alla California, ma dopo il suo arrivo a Los Angeles se l’erano perso e a un certo punto avevano rinunciato.”

Il libro che più ho amato, il primo che ho letto e il più poetico fra i libri di Haruf*.

Trilogia della pianura

Benedizione (Benediction) – I libro

Prima edizione 2013

“Appena gli esiti dell’esame furono pronti, l’infermiere li chiamò nell’ambulatorio, e quando il medico entrò nella stanza diede un’occhiata e li invitò a sedersi. Capirono come stavano le cose guardandolo in faccia.”

Il più intimo fra i libri della trilogia, per il tema che tratta: il rapporto con noi stessi davanti alla vita che finisce. Cosa succede dei nostri rimpianti, dei fallimenti e delle occasioni perse per sempre?

Canto della pianura (Plainsong) – II libro

Prima edizione 1999

“A Holt c’ere quest’uomo, Tom Guthrie, se ne stava in piedi alla finestra della cucina, sul retro di casa sua, fumava una sigaretta e guardava fuori, verso il cortile posteriore su cui proprio in quel momento stava spuntando il giorno. Quando il sole ebbe raggiunto la sommità del mulino a vento, l’uomo rimase a guardare la luce che si faceva sempre più rossa sulle alette di acciaio e sulla coda, alte sulla piattaforma in legno.”

Lente di ingrandimento puntata in questo caso sull’inizio della vita, sul suo sbocciare a dispetto delle avversità del mondo.

Crepuscolo (Eventide) – III libro

Prima edizione 2004

“Tornarono dalla scuderia nella luce obliqua del primo mattino. I fratelli McPheron, Harold e Raymond. Vecchi che si avvicinavano a una vecchia casa alla fine dell’estate. Attraversarono il vialetto sterrato, superarono il furgone e l’automobile parcheggiata accanto alla recinzione in rete metallica e varcarono il cancello l’uno dopo l’altro.”

In Crepuscolo ritroviamo alcuni dei protagonisti di Canto della Pianura, nel più malinconico dei libri della trilogia. Preparate i fazzoletti.

Le nostre anime di notte (Our Souls at Night)

Prima edizione 2015

“E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Water. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio.

Vivevano a un isolato di distanza da Cedar Street, nella parte più vecchia della città, olmi e bagolari e solo un acero cresciuti sul ciglio della strada e prati verdi che si stendevano sul marciapiede fino alle case a due piani.”

Opera con cui Haruf si congeda dalla letteratura, e in fondo dalla vita. Una storia romantica e anticonvenzionale, su un argomento che spesso è ancora considerato un tabù: l’amore fra due persone anziane. Nel 2017 ne è stato tratto un bellissimo film omonimo, con Robert Redford e Jane Fonda.

Tutti i libri di Kent Haruf sono tradotti in italiano da Fabio Cremonesi, puoi acquistarli anche su Amazon cliccando sul titolo del libro in neretto e sottolineato.

Visita il sito web della casa editrice su www.nneditore.it

Paola Cavioni

14 dicembre 2021

*Puoi leggere la recensione del libro, già pubblicata su Righe di Arte, a questo link:

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Quando guardi oltre, tutto è possibile. Righe su “Il vento contro” di Daniele Cassioli

“La missione di ogni uomo consiste nell’essere una forza della natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina perché l’universo non si dedica a renderlo felice.”

(George Bernard Shaw)

Il vento contro (DeAgostini 2018)

La citazione con cui apro questo post invita con decisione a essere forza della natura, a non lamentarsi, a essere artefici della propria felicità. Leggendo fra le righe, è un’esortazione a prendere di petto la vita, a sfruttare potenzialità e talenti, a dare un senso all’agire nel mondo e più in generale alla vita.

Concetti di facile comprensione, ma non sempre facili da mettere in pratica, soprattutto nella società in cui siamo immersi dove così spesso la lamentela diventa uno stile di vita.

Non vi è mai capitato di avere a che fare con persone che apparentemente non sono mai soddisfatte, che cercano la causa della loro insoddisfazione nelle persone e nelle cose che hanno intorno, ma che non fanno nulla per cambiare?

Oggi vi parlo di un libro che incarna perfettamente la massima di Shaw: Il vento contro, che ho letto nei giorni scorsi dopo avere assistito a una formazione aziendale tenuta proprio dal suo autore Daniele Cassioli.

Daniele nasce a Roma 35 anni fa, si laurea in Fisioterapia a pieni voti, ha un diploma di pianoforte al conservatorio, come sportivo detiene un numero altissimo di record nello sci nautico, si occupa di formazione su temi legati alla motivazione, svolge diverse attività nel sociale e attualmente sta scrivendo il suo secondo libro… è perché no, è anche influencer, nel senso più positivo del termine.

Già fino a qua, è tanta roba per una vita sola, per un solo uomo.

Mettiamoci anche, piccolo dettaglio del tutto trascurabile, che Daniele è non vedente dalla nascita, non so se avrei dovuto dirvelo prima.

Serve altro per capire quanto straordinaria possa essere l’esistenza?

In Il vento contro Cassioli parla della sua vita, della sua famiglia, di come i suoi genitori siano stati in grado, dopo una prima comprensibile fase di smarrimento e di ossessiva ricerca di una cura alla retinite pigmentosa con cui Daniele è nato, di fare accettare al loro figlio la sua diversità, che diventa poi unicità, per vivere come tutti i suoi coetanei.

Una fotografia di Daniele, dal sito web http://www.danielecassioli.it

Vivere come gli altri vuol dire impegnarsi nella scuola, tra le non poche difficoltà logistiche della mancanza di libri i braille e programmi scolastici che spesso non sono a misura di non vedente (per usare un eufemismo) uscire con gli amici, essere sgridato come tutti i bambini, e poi crescendo avere delle fidanzate, fare sport.

E qui arriva la vera svolta per Daniele, che nello sport trova un nuovo scopo, la motivazione e lo stimolo per superare ogni giorno i suoi limiti, fino a ottenere risultati assolutamente straordinari.

Certo si può obiettare che lui comunque è fortunato perché nato in una famiglia che ha avuto la possibilità di fargli fare esperienze, di farlo studiare, di portarlo in giro per il mondo, di gestire in modo positivo la sua diversità. Certo.

Ma con quanta facilità Daniele avrebbe potuto “accontentarsi” della sua vita, trovare nel suo essere cieco una giustificazione alla paura, all’inerzia?

Parlo per me, ma in moltissime occasioni mi lascio vincere dalla pigrizia per molto, molto meno. Basta un raffreddore per farmi rimanere un pomeriggio intero sul divano, una pioggerellina per non uscire a correre, una notte insonne per giustificare l’umore storto.

Quanti come me? Siate onesti.

Il titolo Il vento contro è metafora potentissima presa dallo sci nautico che fa capire come gli ostacoli nella vita possano essere considerati muri contro cui scontrarsi e che bloccano il cammino, oppure trampolini da cui prendere la spinta per saltare per arrivare più in alto possibile e per provare a toccare il cielo.  

Daniele si apre al lettore con una scrittura semplice e diretta, senza fronzoli, la comunicazione tipica di chi è abituato a stare in mezzo alla gente, a raccontarsi ad adulti con esperienze e un vissuto diverso dal suo,  ma anche a farsi comprendere dai bambini.

Perché Daniele che ha anche fondato un’associazione che si occupa della promozione dello sport e di attività sociali legate al mondo e non.

Il vento contro è un libro che si legge per la forza del messaggio che contiene: quando guardi oltre, tutto è possibile.

Che non deve essere confuso con facile da realizzare, scontato o regalato, ma possibile.

E che soprattutto, che alla fine, ne vale sempre la pena.

Per maggiori informazioni su Daniele Cassioli e l’attività della sua associazione puoi visitare i siti web:

www.danielecassioli.it

www.sportrealeyes.it

Puoi acquistare il libro anche su Amazon, per accedere allo shop clicca QUI.

Paola Cavioni

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Righe su “Il conformista” di Alberto Moravia

“Ogni scrittore è una chiave per aprire la porta della realtà”

(da un’intervista di Alberto Moravia)

Alberto Pincherle Moravia nasce a Roma il 28 novembre 1907 e muore nel 1990 dopo una vita iniziata in salita con i frequenti ricoveri nei sanatori sulle Alpi per curare una grave forma di tubercolosi ossea, ma vissuta intensamente fino all’ultimo giorno: una produzione letteraria sconfinata, tre grandissime donne al suo fianco, viaggi intorno al mondo, la fama che il cinema neorealista regala alle sue storie e l’amicizia con molti personaggi di primo piano della cultura italiana come Pier Paolo Pasolini.

Oggi voglio celebrare la vita di questo straordinario narratore testimone del novecento parlandovi del suo romanzo meno amato dalla critica, tanto che spesso non viene nemmeno inserito nelle antologie scolastiche.  

Se infatti, è nota la fortuna, di pubblico e di critica, de Gli indifferenti, de La ciociara o La noia, altrettanto non si può dire de Il conformista.

A soli 44 anni, Il conformista è l’ottavo romanzo, escluse le raccolte di racconti, dello scrittore romano.

Un romanzo che parte da una domanda drammatica: può un evento traumatico nell’infanzia condizionare tutta la vita, la lettura e l’interpretazione di tutti gli avvenimenti che avvengono prima e dopo quel fatto?

Pubblicato da Bompiani nel 1951, quando l’Italia sta ricostruendo quanto distrutto dalle bombe, Il conformista riprende molti temi già presenti nelle opere precedenti (ma anche successive) dell’autore: la decadenza della società borghese votata inconsciamente all’apparenza e ai rapporti stereotipati, il giudizio complessivo di fallimento della società occidentale durante la seconda guerra mondiale e nel periodo appena successivo, con l’inizio della Guerra Fredda, la tensione sessuale che guida i pensieri e le azioni dei suoi personaggi, ma anche la frustrazione per una sessualità mai apertamente vissuta, o peggio, subita, il tradimento come norma nei rapporti umani.

Mors tua, vita mea, una narrativa che non prevede eroi, come nella più pessimistica visione dell’esistenza umana.  

Il conformista è un romanzo in tre atti che ripercorre la vita del protagonista Marcello Clerici.

Il titolo, come spesso accade in Moravia, è un manifesto: programmatico e predittivo rispetto al contenuto della storia.

La narrazione è in terza persona, con uno stile discorsivo che somiglia quasi alla voce fuori campo di un film.  

Nel Prologo del libro, che è il primo atto, troviamo Marcello adolescente. L’adolescenza, età molto indagata dalla penna di Moravia: periodo della vita che può essere pieno di tormenti ma anche curiosità nei confronti dell’esistenza e del mondo, di ricerca di identità certezze e conferme.

Nella vita di questo adolescente ad un certo punto compare un personaggio ambiguo, Lino, che con il suo agire determina in modo definitivo la rotta che la vita di Marcello dovrà prendere per sempre: il ragazzo non vuole più, da quel momento in poi, sentirsi diverso dagli altri, avere pensieri differenti (o che crede erroneamente che siano differenti) da quelli degli altri, dei suoi coetanei.

Nell’età adulta, questa ricerca ossessiva verso il volersi sentire uguale agli altri, spinge il protagonista ad aderire al movimento fascista (nel secondo atto siamo nel momento appena precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale) nel modo forse più facile: diventare una spia alla ricerca dei nemici del duce. Poco importa se questi “traditori della patria” sono persone che lui conosce molto bene, come un suo vecchio professore stabilitosi in Francia.

Marcello parte alla volta di Parigi, mascherando la sua missione con il viaggio di nozze insieme alla moglie Giulia, per trovare il professore e consegnarlo nelle mani dei suoi sicari.

Da quel momento inizia inesorabilmente il suo viaggio di non ritorno verso il punto più basso verso la morale umana, una a-moralità, con una visione del tutto distorta di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un vortice discendente da cui sembra salvarsi, ma non del tutto, solo la moglie Giulia, personaggio che ha comunque dei lati oscuri e nascosti.

Si arriva così al terzo e ultimo atto, che chiude il cerchio e le fila di una vita che ricorda quella di certi inetti così cari alla letteratura italiana a cavallo fra otto e novecento.

Leggendo le pagine di questo romanzo fa impressione pensare che molti dei fatti narrati sono tratti dalla biografia del suo autore, a partire dall’anno di nascita del protagonista Marcello che viene fatto nascere 1907 esattamente come Moravia.

C’è poi il tema dell’adesione al fascismo, che Alberto conosce molto bene essendo stato tacciato di pornografia dal regime, costretto a pubblicare dietro pseudonimo e poi alla fuga dopo l’8 settembre, e il tema dell’omicidio politico.

Nel 1937, infatti, Carlo e Nello Rosselli, cugini di Moravia, vengono assassinati in Normandia per mano di un’organizzazione filofascista francese.

Non mi soffermo a elencare i motivi per i quali quest’opera è così poco amata dalla critica; personalmente credo che sia assolutamente da scoprire e comprendere, soprattutto visto che il tema del conformismo, che può portare anche agli esiti catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti sotto forma di violenza di branco e bullismo, è sempre presente all’interno della società.

Il conformista è  un romanzo di segreti e rivelazioni, di calma sulla superficie a nascondere la tormenta e il terremoto che da sempre scuote l’animo umano.

Paola Cavioni

28 novembre 2021

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Righe su “Per un pò” di Niccolò Agliardi e anche un pò su di me…

“È primavera da pochi giorni, e il cielo sereno filtra dal parabrezza della macchina ancora sporca di pioggia e polvere depositate dagli ultimi colpi dell’inverno. Io non ho smesso di combattere contro la mia malinconia, contro quella solitudine esasperata e invisibile che a ogni nuovo giro di carte, da qualche anno, batte il banco e si porta via il malloppo. Eppure sono un uomo fortunato, lo riconosce la mia ragione, ho una famiglia scomposta ma presente a ogni mio richiamo, ho buoni amici e un corpo in salute nonostante la mente si ostini sporadicamente a lanciare falsi segnali di vere ipocondrie.

L’anima no, non è ancora in porto. Di certo ho attraversato burrasche peggiori, ma so che per le acque calme c’è ancora bisogno di tempo e di molte miglia.”

(Niccolò Agliardi)

Spoiler: volevo scrivere un post a misura di Instagram ma non ci sono riuscita.

Dovrete avere la pazienza di leggere di più di 2200 caratteri e 30 hashtag, ma è un bel po’ che non scrivo quindi so che mi perdonerete la lunghezza del post perché per arrivare dove devo arrivare sono obbligata a fare una piccola digressione che parte dal mio personale.

Nel maggio scorso dopo più sei anni ho cambiato lavoro.

Uscire dalla mia zona di comfort non è stato facile, proprio per niente, soprattutto dopo più di un anno fra lockdown e didattica a distanza.

È stato difficile abbandonare routine e percorsi conosciuti, lasciare la sicurezza di relazioni consolidate, saltare nel vuoto di una nuova realtà, con nuovi orari e responsabilità.

Giorni intensi in cui il sano entusiasmo tipico di tutte le cose nuove che iniziano si alternava a più di un umano timore.

Sarei riuscita a svolgere bene il mio nuovo lavoro?

Mi sarei integrata con il gruppo di nuovi colleghi?

Stavo facendo la cosa giusta per me e per i miei figli?

Avevo paura perché tutto stava capitando in un momento in cui la mia famiglia richiedeva ancora tante attenzioni: le conseguenze emotive della perdita di mio papà lo scorso anno, mia figlia Gaia che si stava ristabilendo dopo un brutto incidente in bicicletta, mio figlio Francesco nel pieno della fase dei “terribili tre”. Insomma, un casino.

Questa è stata la cornice personale del mio arrivo in Fondazione L’Albero della Vita Onlus come Coordinatore delle Risorse Umane.

Paura, gioia, entusiasmo unite alla consapevolezza di essere davanti al coronamento di un sogno personale che credevo quasi impossibile: lavorare in una ONG.

Una ONG, quanto di più umano ci possa essere, per una come me che ha scelto di lavorare nel settore delle Risorse Umane perché convinta che le persone non siano solo numeri di matricola.

In questa nuova realtà ho scoperto e sto scoprendo ogni giorno la bellezza della gentilezza come modalità di approccio tra colleghi e fra superiori e collaboratori.

Sto conoscendo persone che, da varie strade, sono arrivate a lavorare per una Onlus lasciando anche lavori molto più pagati ma meno appaganti.

Mi sto gustando ogni giorni la soddisfazione di tornare a casa alla sera consapevole di avere contribuito, per la mia piccolissima parte, al lavoro di persone che si prestano al servizio del prossimo, nei contesti più difficili, in favore di quella silenziosa massa che vive ai margini della società.

Ma soprattutto sto scoprendo moltissime storie legate all’attività che Fondazione L’albero della Vita Onlus svolge da più di vent’anni in Italia e nel mondo.

Come le tante piccole e grandi storie legate al progetto dell’affido familiare, istituto importantissimo per la tutela dell’infanzia e della adolescenza.

È proprio da questa voglia di conoscere sempre meglio la mia nuova realtà lavorativa che sono arrivata al libro di Niccolò Agliardi, Per un po’. Storia di un amore possibile (Salani Editore).

Un romanzo ma una storia vera allo stesso tempo.

Niccolò Agliardi è un cantautore, autore e scrittore milanese. Ha 40 anni, una famiglia, degli amici, una vita indipendente, viaggia molto. Un uomo realizzato, certo ogni tanto ha qualche attacco di panico, ma chi non ne ha nella nostra società?

E poi diverse storie d’amore anche importanti ma tutte ormai finite.

E in questa vita che si divide fra musica e scrittura, Niccolò sente che c’è uno spazio che può essere colmato. Anzi, uno spazio che può essere donato.

Donato rendendosi disponibile, e risultando idoneo, per un affido familiare, una particolare forma di affido chiamato prosieguo amministrativo.

Così Niccolò diventa genitore affidatario di Federico, Chicco, che è un ragazzo già maggiorenne, segnato da una vita difficile, con più di un affido precedente terminato male e una madre fragile e inconsapevole di quanto la sua assenza pesi sulla vita del figlio.

L’affido di Federico viene seguito dal personale educativo proprio de L’Albero della Vita, che affianca tanti genitori come Niccolò nel percorso spesso emotivamente pesante di una genitorialità differente, che non inizia con una gestazione, ma da un atto di amore altruistico.

In Per un po’ Agliardi racconta il cammino insieme a Federico, le cui fragilità lo obbligano a fare i conti con le proprie zone d’ombra e tutto il non risolto della sua vita.  

Un cammino pieno di difficoltà nel tentativo di diventare solo un padre e un figlio. Anche solo per un po’.

Ci saranno dei passaggi che vi faranno piangere, altri che vi faranno arrabbiare, altri ancora in cui ritroverete anche un pezzo della vostra storia.

Perché questa storia non è una favola, non ci sono buoni e cattivi. Questa è solo e semplicemente vita vera.

Per un po’ è va letto con il cuore aperto e con la consapevolezza che ci sono delle esistenze che precedono l’inizio del racconto e continuano dopo la fine del libro.

Mi sono ritrovata molto nella profondità delle riflessioni di Niccolò e lo ringrazio per avere regalato al mondo una storia così personale, mettendosi a nudo anche davanti agli occhi troppo spesso giudicanti degli altri genitori.

Per questo per poter parlare di Per un po’, ho sentito che dovevo donarvi anche un piccolo pezzo della mia storia.

E vi ringrazio per avermi letta.

Paola

Per un po’. Storia di un amore possibile è acquistabile anche su Amazon. Clicca QUI per andare direttamente al negozio online.

Se volete conoscere tutte le attività di Fondazione L’Albero della Vita potete visitare il sito web https://www.alberodellavita.org/

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Righe su “Elisabetta e le altre” di Eva Grippa.

Elisabetta e le altre. Dieci donne per raccontare la vera regina, di Eva Grippa con prefazione di Enrico Franceschini (DeAgostini Editore, 2021).

Pochissimi giorni fa DeAgostini ha pubblicato un libro che racconta la Regina Elisabetta partendo dalle storie di dieci donne della sua vita. Non ne manca nessuna: ci sono madri, sorelle, figlie, nipoti e nuore.

Il 2021 per la monarchia inglese è un anno importante: si festeggiano i dieci anni di matrimonio di William e Kate, i novantacinque della regina, l’anno del consolidamento della Brexit e della Megxit. Lady Diana avrebbe compiuto sessant’anni. Se fosse stata ancora la Principessa Diana chissà quale festa sarebbe stata in tutto il Regno Unito.

A giugno il Principe Filippo avrebbe compiuto cento anni, se non fosse che il 9 aprile i riflettori si sono spenti sulla lunga vita del tenente Philip Mountbatten, Sua Altezza Reale il Duca di Edimburgo.

Che smacco per il Principe Carlo, proprio il 9 aprile: il giorno dell’anniversario di matrimonio di Carlo e Camilla. Giorno evidentemente infausto dato che nel 2005 la coppia, dopo oltre trent’anni di relazione più o meno clandestina, aveva dovuto posticipare le nozze di un giorno (fissate per l’8 aprile)perché Carlo doveva essere a Roma, presente ai funerali di papa Giovanni Paolo II.

Ma tornando al libro, chi sono queste donne, di cui grazie alle parole di Eva Grippa conosciamo vizi, virtù e soprannomi?

Il libro segue un ordine strettamente cronologico dall’infanzia di Elisabetta, Lilibet, prima ancora di essere l’erede al trono d’Inghilterra. Lei, appartenente ad un ramo cadetto della famiglia Windsor, non era destinata a diventare regina. Almeno fino a quando non è arrivata Wallis Simpson.

Nell’infanzia della regina c’è Marion Crawford, detta Crawfie. Marion è la tata delle giovanissime Elisabeth e Margaret, molto amata dalle due sorelle ma che subisce una vera damnatio memoriae alla fine del suo servizio a seguito della pubblicazione, nel 1950, del libro scandalistico The Little Princesses. Libro che la Regina Madre commenta con un flemmatico “È uscita di senno” riferendosi alla sua autrice ed ormai ex collaboratrice.

Elizabeth Bowes-Lyon, la Regina Madre, mummy, vero simbolo del secolo passato perché nasce nel 1900 e muore alla veneranda età di centodue anni, dopo aver seppellito un marito e una figlia. Dotata da Madre Natura di un viso che sembra sempre sorridente, rotondetta e rassicurante, tanto che la cognata Wallis Simpson (con la quale non correrà mai buon sangue) la chiama Cookie, biscotto. Con le figlie, in particolare con Elisabetta, ha un rapporto speciale. Oltre che con il gin.

Più controverso è invece il rapporto con Filippo.

“Era soprattutto l’ascendenza tedesca di Filippo a disturbarla: era nato principe di Grecia in una casa reale derivata da ceppi tedesco-danesi, che gli avevano dato il cognome di Schleswig-Holstein-Soderburg-Glücksburg, poi cambiato in Mountbatten come adattamento del cognome di sua madre, Battenberg. Un certo legame con il partito nazista delle sorelle di Filippo non farà che confermare l’antipatia. Mummy sapeva quanto la figlia fosse innamorata di lui, ma ciò non le ha impedito di combattere contro il genero una sottile guerra tra le mura delle residenze di corte.”

C’è sua Altezza Reale la Principessa Margaret, contessa di Snowdon, donna tanto bella ed elegante quanto sfortunata, in amore e non solo. Muore lo stesso anno di sua madre, anzi poco prima, e possiamo solo immaginare quanto sia stato difficile per la Regine Elisabetta perderle a così poca distanza l’una dall’altra. Leggendo la sua storia penso che l’appellativo di principessa triste sia più adatto a lei che a Diana Spencer.

È il turno poi di Wallis Simpson, That woman (quella donna). Pietra dello scandalo nella famiglia Windsor perché pluri divorziata e filo nazista, donna assolutamente indipendente e pronta a tutto pur di difendere il suo amore, tanto osteggiato e non creduto, per Edoardo VIII, in questo forse spirito guida della bella Meghan Markle.

La principessa reale Anna, unica figlia femmina di Elisabetta, che con la madre condivide l’amore per i cani,  la vita all’aria aperta e l’impegno nella vita pubblica. È anche l’unico membro della famiglia reale che abbia mai partecipato ai Giochi olimpici. Una donna, tanto per dire.

Lady Diana Spencer, sulla quale ormai si è detto e scritto qualunque cosa, fino a farla diventare quasi una figura al limite del mitologico, cui per contrasto viene associata la scandalosa, e forse un po’ sgraziata, Sarah Ferguson, che solo di recente ha riconquistato la simpatia e la stima della Regina Elisabetta.

Chiudono il libro la sempre presente Camilla Parker Bowles, la Queen to be Kate Middleton e l’ultima arrivata (per modo di dire) Meghan Markle, che non ha saputo adeguarsi alla vita di corte. Henry forse non conosce il significato del proverbio “mogli e buoi dei paesi tuoi”, ma credo che ora, lontano dai flash dei paparazzi che tanto sono costati nella vita della sua famiglia, sia un uomo più felice e realizzato.

La vita della Regina Elisabetta e di chi ha fatto e fa parte, a vario titolo, della famiglia reale, è cosparsa di scandali, tradimenti, divorzi, grandi amori e figli illegittimi. Ma lei ha saputo sempre tenere fede al suo motto: never complain never explain, mai lamentarsi e mai dare spiegazioni.

Eva Grippa ci accompagna in un viaggio piacevole, fatto di storia, di etichetta ma anche di gesti spontanei, di ripicche e aneddoti assolutamente inediti. Un libro fondamentale per capire la personalità della regina come donna e come leader di una potenza quale è quella inglese e dell’intero Commonwealth.

Leggere Elisabetta e le altre in questi giorni porta con sé inevitabilmente un velo di tristezza, al pensiero che, fra tante donne, ora Elisabetta II, la regina dei record, abbia perso il suo uomo, il suo grande amore, il suo Cabbage (cavolo), come affettuosamente lo chiamava.

Ma così è la vita, anche i ricchi (e i nobili) piangono.

Paola Cavioni

Eva Grippa è giornalista di Repubblica dal 2004 e royal watcher per passione e professione.

Il libro Elisabetta e le altre è acquistabile anche su Amazon. Clicca QUI per andare direttamente allo shop dal link affiliazione di Righediarte.

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Righe su “Canto della pianura” di Kent Haruf

Well, my sense of humanity has gone down the drain

Well, my sense of humanity has gone down the drain

Behind every beautiful thing there’s been some kind of pain

She wrote me a letter and she wrote it so kind

She put down in writin’ what was in her mind

I just don’t see why I should even care

It’s not dark yet but it’s gettin’ there

(Bene, la mia umanità è andata nella fogna

Dietro ogni cosa bella, c’è sempre qualche tipo di dolore

Lei mi ha scritto una lettera ed era così dolce

Nelle parole ha messo tutto quello che aveva in testa

Ma perché tutto questo dovrebbe importarmi?

Non è ancora buio, ma lo sarà fra poco)


Not dark yet, Bob Dylan

Canto della pianura (Plainsong, Enne Enne Editore, 2015. Traduzione di Fabio Cremonesi)

Meno di un mese fa ho condiviso sul blog la recensione di La strada di casa.

Oggi torno a parlarvi nuovamente di Kent Haruf con il secondo romanzo della Trilogia della Pianura (il primo è Benedizione, il terzo Crepuscolo, e lo so che non sto andando in ordine ma come dice Karl Kraus “Ben venga il caos, perché l’ordine non ha mai funzionato”)

Il magnifico Canto della pianura è del 1999 e consacra definitivamente il suo autore nell’olimpo della grande letteratura americana, accanto a nomi come Hemingway, Faulkner, Carver e Chandler, ai quali spesso Haruf viene paragonato.

Un libro che è realmente un canto, un romanzo corale ambientato nella tanto amata Holt, che se seppur non esista sembra di vederla sulla cartina, proprio lì accanto a Denver, nell’America che più rurale di così non si può.

Canto della pianura all’interno della Trilogia è il libro dedicato al tema della nascita: un viaggio lungo nove mesi in cui ci accompagnano Tom Guthrie con i figli Ike e Bobby, Vittoria Roubideaux che si trova a dovere affrontare una gravidanza in età adolescenziale, senza un compagno, o meglio con un ex fidanzato che non si può proprio definire un gentiluomo, e con la madre che la caccia di casa, i due anziani fratelli McPheron che sono chiamati ad un compito molto lontano dalla loro natura solitaria e schiva, e poi ci sono Ella, Maggie Jones e gli altri che si muovono sullo sfondo.  

La trama è tutta qua, uno spaccato di nove mesi o poco più nelle vite di un gruppo di persone di Holt che affrontano i problemi del quotidiano: matrimoni che finiscono e figli da crescere, adolescenti difficili, bambini che scoprono come si nasce e come si muore, ragazzine che diventano donne pur non essendo mai state del tutto amate come figlie.

Kent Haruf è un maestro nella tessitura di trame che si intrecciano solo al momento giusto, non un minuto prima; ci fa scorrere sotto agli occhi le vite dei personaggi che alla fine in un modo o nell’altro si ricongiungono, ognuna con le proprie ferite più o meno rimarginate.

E poi quello stile inconfondibile nei dialoghi, che seppure non sono mai indicati dalle virgolette non affogano nel resto del testo. I protagonisti prendono davvero la parola, la vita e si animano davanti al lettore.

Canto della pianura è un fiume in piena, un film che non si può smettere di guardare, idealmente da leggere senza soluzione di continuità.  

Ho terminato la lettura di questo romanzo con le lacrime agli occhi e l’ammirazione sempre più grande nei confronti di un autore che forse ci ha lasciato orfani troppo presto, a poco più di settant’anni nel 2014, che avrebbe potuto regalarci ancora tanta emozione e tanta vita fra le pagine dei suoi libri.

Chiudo con due parole sul lavoro di traduzione di Fabio Cremonesi, che è la voce italiana di Haruf. Chi leggerà il libro si renderà conto, almeno in un paio di occasioni, di quanto possa essere stato difficile rendere in italiano dei termini tecnici legati alla vita rurale, senza però perdere nulla della potenza di quelle particolari scene (che non vi anticipo perché dovete “godervele” in tutto e per tutto). Quindi chapeau, Fabio Cremonesi.

Paola Cavioni

I romanzi di Kent Haruf si possono acquistare anche su Amazon, clicca sul titolo del romanzo per andare direttamente al negozio dal link affiliazione di Righe di Arte:

Leggi la recensione di La strada di casa cliccando QUI.

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Io sono Paola, dal 2015 Righediarte è il mio blog, il luogo nel quale condivido la passione che mi anima da che ho memoria: la scrittura. Ricordo ancora l’emozione del primo tema letto di fronte a tutta la classe quando ero bambina. Quella emozione è stessa che metto dentro a ogni mio post, a ogni racconto, ogni poesia che qui condivido con chiunque abbia voglia di leggere e magari lasciare un commento.

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Righe su La moglie di Ponzio Pilato di Massimo Trifirò (NeptUranus editore)

La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.

Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.

Via della Croce, Fabrizio de Andrè (La buona novella)

Quale occasione migliore degli auguri di Pasqua per parlarvi del libro La moglie di Ponzio Pilato. Tradire se stessi per la verità di Massimo Trifirò, edito da NeptUranus nella collana Il nome della prosa.

Ringrazio la casa editrice per avermi inviato copia dell’opera; un libro particolare e unico nel suo genere, a metà fra il saggio storico e il racconto breve, che offre un punto di vista differente sulla vicenda storica di Gesù di Nazareth, partendo proprio dal racconto de sogno di Claudia Procula, per poi spostarsi sulla ricostruzione prettamente storica delle vicende che portano alla morte di Gesù Cristo.

La romana Claudia Valeria Procula, moglie del governatore Ponzio Pilato, nei Vangeli canonici è nominata una sola volta dall’evangelista Matteo, in poco più di una riga.

Gesù, dopo essere stato giudicato dal sommo sacerdote Caifa, si trova davanti a Ponzio Pilato, l’uomo che ha il potere e l’autorità per confermare la sua condanna alla crocifissione oppure liberarlo.

In occasione della festa, il governatore era solito rilasciare al popolo un detenuto a loro scelta. In quel tempo c’era un prigioniero distinto, di nome Barabba.

Mentre essi erano radunati, Pilato domandò: “Chi volete che vi rilasci, Barabba o Gesù, quello che è chiamato Cristo?”.

Sapeva, infatti, che per odio l’avevano consegnato.

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie mandò a dirgli: “Nulla vi sia fra te e questo giusto, poiché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua”.

Dal Vangelo secondo Matteo 27, 15-19

Mentre alcuni dei suoi discepoli lo tradiscono, lo rinnegano e cercano di salvarsi per non fare la fine del loro maestro, una donna romana, una first lady come la chiameremmo oggi, si schiera dalla parte di Gesù.

Mentre la folla inneggia la liberazione di Barabba, Claudia chiede che si risparmi la vita a un uomo giusto.

Con un atto di coraggio, che dice molto del rapporto che poteva esserci con il marito, chiede la liberazione di Cristo quasi come un favore personale, perché turbata da un sogno di cui possiamo solo ipotizzare il contenuto.

Un sogno che avrebbe potuto cambiare la Storia dell’umanità se solo Pilato l’avesse ascoltata.

E chissà quali scenari si sarebbero aperti se in una remota provincia romana, oltre duemila anni fa, Gesù Cristo non fosse morto da martire e gli evangelisti non avessero raccontato la sua storia.

Forse sarebbe rimasto solo uno dei tanti profeti? Chi può dirlo.

Claudia Valeria Procula, donna romana e di nobili origini, va contro la cultura dalla quale proviene perché sente che quella è la cosa giusta da fare.

Sembra addirittura che appartenesse alla dinastia Giulio-Claudia perché figlia di Giulia Maggiore (e quindi nipote di Giulio Cesare) ma nata al di fuori del matrimonio con l’imperatore Tiberio, che era il terzo marito di Giulia. Insomma, ce n’è per una soap opera solo per ricostruire il suo albero genealogico, era inevitabile che la sua figura diventasse mitica.

Nonostante l’esiguo spazio dedicatole nei Vangeli, Procula è venerata nella Chiesa Ortodossa e la sua figura storica è ampiamente documentata nell’arte figurativa e anche nel cinema (se volete approfondire vi consiglio di guardare La tunica e The Passion, in cui Claudia Procula ha il volto di Claudia Gerini). Segno quindi che non è riuscita a salvare Gesù, ma è diventata lei stessa immortale.

Vi consiglio di approcciarvi al libro di Massimo Trifirò, che racconta molto di più di quanto ho brevemente riassunto in questo post, con la voglia e la curiosità di esplorare la vicenda umana di Gesù Cristo, oltre che la valenza storica e religiosa. Un libro che regala molti spunti di riflessione e spazio per approfondimento personale, se si è curiosi di conoscere quello che volente o nolente è parte del retaggio culturale occidentale.

Ora concludo con gli auguri di una serena Pasqua, vi lascio al vostro pranzo di festa (nel rispetto di tutte le norme per il contenimento della pandemia) e vi auguro di passare comunque una bella giornata in serenità, in compagnia delle persone che amate.

Buona Pasqua

Paola Cavioni

La casa editrice

NeptUranus è una piccola casa editrice che propone un numero limitato di titoli scelti con cura, suddivisi in tre collane dai nomi assolutamente geniali: Fuorismi, Increspature e Il nome della Prosa.

Il motto di NeptUranus è “Meglio essere dilettanti che lavorano in maniera professionale, piuttosto che essere professionisti che operano in modo dilettantesco.”

www.nepturanus.com

info@nepturanus.com

L’autore

Massimo Trifirò nasce a Lecco, città della quale è Cittadino Benemerito.

Ha una laurea in Scienze Politiche con specializzazione in Storia.

È autore di numerosi saggi  e racconti (La lama nel buio, Il dono della lentezza, Racconti tra Lecco e Oggiono).

Con NeptUranus ha pubblicato anche La necessità del bene, Vide e credette, La buona notizia.

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