“Ho vissuto in un mare in tempesta, con onde che mi portavano sulla cresta e poi mi facevano precipitare nel vuoto. Queste ondate sono state così forti in passato, che nei periodi in cui tutto andava bene, invece di rilassarmi e godermi la pace del momento, mi preparavo alla successiva violenta caduta, che credevo inevitabile.
Adesso non è più così. Ora navigo alla deriva, giorno per giorno, contenta del semplice fatto di galleggiare finché è possibile.”
Isabel Allende
Donne dell’anima mia, Feltrinelli editore
C’è chi si affida al comfort food nei momenti di tristezza o malinconia.
Io preferisco un buon comfort book, e Isabel Allende è sicuramente in cima alla lista degli autori che riescono sempre a farmi stare bene, a prescindere da tutte le circostanze.
Sono consapevole che non valuterò mai in modo oggettivo la sua opera perché è troppo grande la stima e l’ammirazione che nutro nei confronti di questa donna che con i suoi libri riempie la mia vita da oltre vent’anni, da quando, grazie al consiglio di una cara amica, lessi La casa degli spiriti e mi si aprì un mondo: quello magico, tragico e meraviglioso dei personaggi usciti dalla penna di Isabel Allende.
Ricordo con grandissima emozione il momento in cui ebbi occasione di vederla di persona alla fine del 2019. Si trovava in Italia per la presentazione di Lungo petalo di mare, in una Feltrinelli in centro a Milano così gremita, che solo qualche mese dopo sarebbe stato impensabile e impossibile organizzare un evento simile.
Io fui tra i fortunati che riuscirono a vederla e ascoltarla bene perché ero davvero a pochi metri da lei.
Fra lacrime di emozione – le mie – trovai esattamente la Allende che mi ero sempre immaginata: spiritosa, profonda, decisamente folle (ma quale animo artistico non è un po’ folle?) e sempre innamorata. Innamorata del suo nuovo marito (il terzo, di cui parla anche in Donne dell’anima mia), innamorata ancora della scrittura, innamorata del Cile anche se non è più la sua casa da molti anni ormai, innamorata della vita e riconoscente per tutto quello che le ha dato, nel bene e anche nel male.
Perché la sua non è stata una vita semplice: l’abbandono del padre quando era solo una bambina, l’esilio durante gli anni della dittatura di Pinochet in Cile, la malattia e la morte dell’amata figlia Paula, solo per fare qualche esempio.
Una donna però che non si è mai lasciata abbattere dagli eventi e che riesce ancora a trasmettere una grandissima carica, la stessa che leggiamo nei suoi romanzi che da sempre parlano di donne solo apparentemente fragili, ma dotate in realtà di una forza straordinaria.
Anche da una riflessione su tutte le eroine che hanno popolato le sue storie, nasce Donne dell’anima mia (Feltrinelli editore), scritto nei primi mesi del 2020, terminato a marzo nel pieno della prima ondata di Coronavirus, e uscito alla fine dell’anno appena trascorso.
Il titolo riprende quello di un suo precedente romanzo, Inés dell’anima mia, del 2006.
C’è da premettere che in questo caso non si tratta di un vero e proprio romanzo ma una sorta di breve autobiografia rivista sotto la lente di ingrandimento del suo femminismo “innato”.
“Non esagero quando dico che sono femminista dai tempi dell’asilo, da prima che questo concetto entrasse nella mia famiglia.”
Isabel Allende
Il libro si articola in brevi capitoli tematici che seguono un flusso di pensieri più che un ordine logico o cronologico, come se fossimo di fronte alla trascrizione di un diario, scritto sotto la spinta di un bisogno intimo di fissare nero su bianco in maniera indelebile i ricordi, per farne tesoro in questi anni della “maturità”.
Isabel Allende parla di sua madre Panchita, inconsapevole causa del suo femminismo, proprio lei così legata ai tradizionali ruoli maschili e femminili, della figlia e della sua malattia, delle nipoti, del rapporto con le donne che nel corso degli anni le sono state vicine in vario modo (dalla sua editor alle amiche), e dall’esempio di queste donne ci trasporta in una riflessione generale che è la fotografia della condizione della donna nel mondo di oggi, delle speranze per il futuro e per una reale uguaglianza fra uomo e donna.
Con lo stile profondo ma anche ironico che da sempre caratterizza la sua scrittura, la Allende regala ai lettori tanti ricordi preziosi legati alla sua vita lunga e ricchissima, rivivendoli senza malinconia ma con la determinazione di chi ha fatto tesoro di ogni evento e vuole vivere pienamente fino all’ultimo istante.
Forse per la prima volta in modo così chiaro e diretto, Isabel Allende racconta le sue convinzioni personali e politiche perché in Donne dell’anima mia, tra un ricordo e l’altro, parla di immigrazione, di contraccezione e di aborto, del mondo occidentale dove si vive sempre più a lungo ma spesso la vecchiaia è vista erroneamente come una malattia, della tutela delle donne soprattutto nei paesi in cui anche solo nascere è una sfida, se non si ha la “fortuna” di essere uomini.
La Isabel che ci sorride dalla seconda di copertina in Donne dell’anima mia è ancora affascinante, con lo stesso sguardo e lo stesso sorriso cui siamo ormai abituati.
L’unica cosa che è cambiata negli anni sono i capelli, che ora porta bianchissimi, testimonianza esteriore del tempo che passa, dei suoi anni che non rimpiange, della sua saggezza.
Consiglio Donne dell’anima mia a chi è già un lettore di Isabel Allende, mi sembra quasi scontato dirlo, ma anche a chi ancora non la conosce perché la lettura di questo libro sarà certamente scintilla di curiosità per scoprire l’opera di una delle voci più importanti dell’America Latina.
Paola Cavioni
Puoi acquistare Donne dell’anima mia su Amazon. Cliccando qui sarai reindirizzato direttamente sullo shop e potrai acquistare il libro dal link affiliazione di Righediarte.
Per tutte le informazioni sull’autrice puoi consultare il sito web ufficiale (in lingua inglese e in spagnolo) https://www.isabelallende.com
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Sei il secondo figlio. Un maschio. E ho detto tutto.
Sei il mio matto Franz, oggi compi tre anni e io devo iniziare ad abituarmi all’idea che non resterai piccolo per sempre, al fatto che presto sarò io a chiedere i tuoi abbracci.
Il tuo sorriso, le tue parole inventate, la tua carica senza fine, persino i tuoi capricci e il tuo non dormire mai sono stati la nostra benzina in questo ultimo anno, che ha lasciato più di una cicatrice.
Tu, così piccolo, sei stata la nostra forza.
Eppure la serenità che leggo nei tuoi occhi e in quelli di tua sorella ci ripaga di tutti gli sforzi, di tutti i dubbi sulle scelte che ogni giorno, inevitabilmente, facciamo per voi e che ci fanno chiedere sempre “sarà la cosa giusta?”.
Per questo tuo terzo compleanno vorrei solo augurarti questo, tanta serenità.
Per te, per noi, ora e per un futuro che adesso ci sembra ammaccato, rubato.
Ma tu, che porti il nome di poeti e cantanti, lo sai perché te lo dico sempre, saprai sicuramente colorare, dare voce e forma a tutto ciò che la Vita ti riserva, nel tuo modo tutto speciale.
Auguri piccolo grande Francesco, anima sorridente.
Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici.
Non è solo per questo che le cose hanno un senso?”
“È per questo.”
“Dillo anche tu, ragazza. Non è per questo?”
Uomini e no, edizione Oscar Mondadori
Oggi voglio parlarvi di un classico della letteratura italiana del secondo dopoguerra: Uomini e no di Elio Vittorini (Siracusa 1908 – Milano 1966).
A dispetto dell’origine siciliana del suo autore, questo romanzo di poco più di duecento pagine è ambientato in una Milano resa grigia e violenta dall’invasione tedesca. Siamo nel 1944, un anno sanguinoso per la lotta partigiana.
“L’inverno del ’44 è stato a Milano il più mite che si sia mai avuto da un quarto di secolo; nebbia quasi mai, neve mai, pioggia non più da novembre, e non una nuvola per mesi; tutto il giorno il sole. Spuntava il giorno e spuntava il sole; cadeva il giorno e se ne andava il sole.”
Uomini e no, che nel titolo fa da eco al famoso Uomini e topi di John Steinbeck, esce nel giugno del 1945, edito da Bompiani, primo dei romanzi italiani incentrati sulle storie della resistenza, reali o verosimili, e sugli orrori del secondo conflitto mondiale.
L’anno dopo, nel 1946, viene pubblicato Il compagno di Cesare Pavese. Nel ’47 è la volta di Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino e Se questo è un uomo di Primo Levi. La casa in collina, ancora di Cesare Pavese, è del 1948. Opere talmente note che non hanno bisogno di presentazioni.
Sono anni fecondi per la cultura, nonostante le guerre, lo sanno bene gli studenti delle scuole superiori che devono studiare questo periodo in storia, letteratura e arte.
Nel periodo che va dalla guerra civile spagnola al 1945 Vittorini, Pavese (anche lui nato nel 1908), Levi e Calvino sono giovani, giovanissimi (Calvino nasce nel ’23, Levi è del ‘19). Diversi fra loro per luogo di nascita ed estrazione sociale, ma accomunati da ideale che hanno unito tanti uomini e donne che si sono poi impegnati nella ricostruzione del nostro paese dopo la distruzione economica e sociale della guerra: l’amore per la cultura nella sua totalità, anche quella americana percepita come ideale di libertà e felicità, e la necessità di diventare testimoni del loro tempo, per dare voce a chi non ne aveva più.
“Durante il fascismo ciascuno di noi frequentò e amò d’amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, ne tradusse, se ne fece una patria ideale […] Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi” così scrive Cesare Pavese proposito della passione condivisa con Vittorini per la narrativa americana.
Il 1945 è un anno importante: la guerra è finita e Vittorini, non ancora quarantenne, ha già pubblicato da qualche anno quello che viene considerato il suo più grande romanzo: Conversazione in Sicilia, di cui Uomini e no, almeno nel titolo, si pone idealmente come prosecuzione. Nel contesto storico della lotta antifascista infatti Silvestro, il protagonista di Conversazione, scopre che “non ogni uomo è un uomo” intendendo che gli “uomini” sono i partigiani che si contrappongono agli aderenti della Repubblica Sociale Italiana e a chiunque appoggi il regime oppressore.
Uomini e no, titolo che è già un giudizio, che non lascia spazio a replica, lapidario, come la scrittura di Vittorini, a volte ermetico e non sempre di facile comprensione, che nello stile dei botta e risposta dei dialoghi ricorda alcuni racconti di Hemingway.
Il 1945 è anche l’anno di grandi ideali, quello in cui fonda Il Politecnico, rivista di cultura e politica, che chiuderà in via definitiva nel 1947 a seguito dei contrasti fra Vittorini e Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, partito cui Elio aveva aderito alla fine degli anni ’30.
Uomini e no ha per protagonisti un gruppo di partigiani, guidati da Enne2, capitano dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica) che a Milano portano avanti la lotta di liberazione della città, in particolare contro il capo fascista Cane Nero.
Enne2 è tormentato da anni dall’amore per Berta, una donna sposata. Un amore che non ha presente e futuro.
Uno scontro tutto umano fra ideale e amore, una “narrativa vittoriniana, oscillante fra realismo e lirismo, fra impegno ideologico e tendenza all’astrazione e alla mitizzazione” (Leggere il mondo, di C. Segre e C. Martignoni).
Di Enne2 non conosciamo il nome e il cognome, come se questa informazione non servisse al lettore per collocare la sua vicenda all’interno di un contesto più ampio: la lotta contro l’invasore.
Ma è una lotta impari, Enne2 lo sa bene, e tanti di quelli che come lui hanno scelto di combattere sono destinati ad essere sacrificati per la salvezza dei più.
Uomini e no è un racconto di lotta e di resistenza, di analisi profonda dei valori che guidano l’uomo e che lo portano a schierarsi con un’idea piuttosto che con un’altra.
Il racconto della ricerca di una vera felicità, che per essere tale non può che essere condivisa fra tutti gli uomini liberi.
Enne2 è indubbiamente la trasposizione e la voce letteraria dello stesso Vittorini che del fascismo, della guerra e della resistenza conosce molto. Conosce il fascismo perché per un periodo negli anni ’30 aderisce ai fasci cosiddetti “di sinistra”, abbandonandoli però allo scoppio della Guerra civile spagnola quando si schiera in favore dei repubblicani contro il regime franchista.
Ma conosce anche gli uomini e le donne della resistenza perché, trasferitosi a Milano, collabora con la stampa clandestina e subisce anche la reclusione nel carcere di San Vittore.
Uomini e no riassume nello spaccato di pochi giorni intrisi di sangue, tutti gli ultimi anni della guerriglia che vede fascisti e nazisti da un lato e partigiani dall’altro, le azioni e le rappresaglie compiute da entrambi i lati della barricata, e che solo la Storia ha giudicato.
Da questo romanzo, che presenta comunque qualche lacuna nella particolare alternanza fra capitoli di narrazione e capitoli di “riflessioni” identificati dal corsivo, emerge in pieno l’anima dell’autore in tutta la sua forza e direi anche il suo fascino.
Elio Vittorini infatti non è solo scrittore. È saggista, traduttore, direttore di giornale, viaggiatore. Un’anima irrequieta e ribelle, sempre alla ricerca di qualcosa di indefinito, forse anche a causa di suo padre che di professione faceva il capostazione, sempre in movimento, proprio come un treno.
Un’anima forse alla ricerca proprio di quella felicità che Enne2 non potrà mai raggiungere.
Un libro da leggere e rileggere per trovare forza e conforto nelle parole e nelle azioni di uomini e donne che hanno affrontato tempi duri, più duri dei nostri, che pure ci sembrano tanto difficili da vivere.
Paola Cavioni
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“Dio di misericordia Il tuo bel Paradiso L’hai fatto soprattutto Per chi non ha sorriso Per quelli che han vissuto Con la coscienza pura L’inferno esiste solo Per chi ne ha paura
Meglio di lui nessuno Mai ti potrà indicare Gli errori di noi tutti Che puoi e vuoi salvare
Ascolta la sua voce Che ormai canta nel vento Dio di misericordia Vedrai, sarai contento”
(Preghiera in gennaio, Fabrizio De André)
Uno dei primi e più bei ricordi di quando ero bambina è quello di mio padre che prende con cura un 33 giri, lo toglie dalla sua custodia e lo mette sul giradischi lucido. Avrò avuto 4 o 5 anni, e fra tutti i vinili che ogni giorno mi faceva ascoltare mi innamorai di due canzoni in particolare, di artisti che mi avrebbero accompagnato per tutta la mia vita da quel momento in poi.
Le due canzoni erano Let in Be e Geordie.
Beatles e Fabrizio De André.
Sicuramente fra di loro agli antipodi, sia le canzoni che gli artisti, ma nel mio cuore legati insieme per sempre, ora più che mai in modo indissolubile insieme a tutti i ricordi che ho di mio papà.
Non è possibile riassumere brevemente cosa rappresentino per me le canzoni e la voce di Fabrizio De André, oggi che lo ricordiamo a ventidue (ventidue!) anni dalla sua morte, e ancora non sembra vero.
Non si può riassumere perché sarebbe come avere la presunzione di rinchiudere una vita intera in poche righe.
Ma se devo provarci, se devo elaborare una riflessione che sia “a misura di post” posso solo dire che De André per me è poesia in musica, è la voce della rabbia e dell’amore, l’urlo di chi non si accontenta di vivere una vita mediocre, che non si accontenta di esistere, è la voce di mio papà che mi dice “chiudi gli occhi eascolta che bello questo controcanto”.
Ma è molto di più. Con De André ho scoperto la grandezza delle storie degli ultimi, ho scoperto quanta fede ci possa essere nelle parole di un ateo, ho capito quali siano i sentimenti che accomunano tutte le esistenze: la ricerca disperata dell’amore vero, quello che ti torce l’anima e la ribalta fino a mostrarne la vera natura, la paura della morte, la frustrazione di chi lotta per un mondo migliore.
Sono stata insieme a lui e Dori rinchiusa “all’Hotel Supramonte“, ho sofferto la fame e il freddo con loro.
Ho pianto per il suicidio di Tenco di Preghiera in gennaio e ho versato lacrime di emozione ascoltando Tre madri, appena diventata madre io stessa.
Conosco a memoria ogni nota di La buona novella e Non al denaro non all’amore né al cielo, e devo ringraziare De André se ho scoperto e apprezzato Edgar Lee Masters e Georges Brassens.
Sarebbe scontato dire che oggi ricordiamo il giorno della morte di una voce che invece è immortale, eppure è proprio così. Perché l’eredità che ha lasciato al mondo è troppo grande per poter essere dimenticata dal semplice scorrere del tempo.
Paola Cavioni
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Il mio primo personale incontro con i romanzi di Silvia Zucca risale all’inizio del 2019, quando quasi per caso comprai Il cielo dopo di noi*, pubblicato qualche mese prima da Editrice Nord. E fu amore a prima lettura.
M’innamorai della complessità tutta umana dei suoi personaggi, della storia, persino della copertina che, con una veste grafica molto semplice ma d’effetto, presentava una ragazza seduta ai lati di una strada sterrata, le gambe strette in vita, una bicicletta alle sue spalle e lo sfondo con il cielo azzurro a riprendere il titolo.
Leggere Silvia Zucca regala la stessa piacevole sensazione di quando ci si trova in compagnia di una cara amica di lunga data. Un’amica che può offrirti un tè all’inglese nel salotto di casa, in un pomeriggio qualunque, ma che un minuto dopo può anche dirti “prepara la valigia perché domani si vola a Londra”. Imprevedibile.
E con uno stile sempre ricercato ed elegante, mai scontata nei contenuti e nelle trame.
Di tenebra e d’amore (More Stories), acquistabile anche in formato Kindle
Silvia è di nuovo in libreria dallo scorso ottobre con Di tenebra e d’amore, che non è il suo ultimo romanzo in ordine cronologico (fra poco scoprirete il perché), romance storico ambientato fra la Francia e l’Inghilterra di fine ‘800 che ha per protagonisti i giovani Odyle e Tristan, due “eroi” tutt’altro che convenzionali…
Oggi l’autrice regala un po’ del suo tempo ai lettori di Righediarte concedendomi una una lunga intervista.
Quindi mettetevi comodi, rilassatevi e… buona lettura.
Righediarte. Ciao Silvia, anzitutto ti ringrazio per avere accettato il mio invito ad esplorare un po’ il tuo mondo in questa intervista, dove non si parlerà solo dei tuoi libri ma anche di tanto altro.
Vorrei però iniziare dal tuo ultimo romanzo: Di tenebra e d’amore è ambientato in Inghilterra alla fine del XIX secolo, epoca della rivoluzione industriale e di grandi scoperte e innovazioni tecnologiche, alcune delle quali sono ben raccontate nel romanzo. Quali sono stati i testi fondamentali per la ricostruzione del contesto storico in cui si inserisce la vicenda dei protagonisti? Quanto tempo hai impiegato per la prima stesura del romanzo?
Silvia. Una delle cose che amo di più della scrittura è che mi porta ad allargare le mie conoscenze. Ho sempre adorato studiare, soprattutto la storia. Quindi scrivere romanzi storici mi dà modo di approfondire diversi argomenti. Uno di questi, per Di tenebra e d’amore, è proprio quello dello sviluppo tecnologico avvenuto nel XIX secolo. Trovo molto affascinante pensare a come doveva essere il mondo visto dagli occhi di qualcuno che viveva in un’epoca di così grandi e profonde trasformazioni. Oggigiorno siamo talmente bombardati da informazioni che il meccanismo del nostro stupore si è come ingolfato. Anche se, magari, non siamo mai stati in Egitto, le Piramidi le abbiamo già viste in mille modi; così come siamo abituati ai super effetti speciali dei film. Mentre chi si trovava a fare un Gran Tour nel XIX secolo riusciva a meravigliarsi profondamente, per una cultura o, un’architettura ecc così diverse dalle sue. La stessa cosa successe con il cinematografo. È storia acclarata ormai lo scalpore che fece il famoso arrivo del treno filmato dai Lumière, in cui molti spettatori si spaventarono pensando che davvero un treno avrebbe potuto investirli.
Silvia Zucca (photo Yuma Martellanz)
E se la nostra vita è tanto comoda ai nostri giorni un po’ lo dobbiamo anche alle tante invenzioni che sono state sviluppate nel XIX secolo. Il telefono, il treno, l’auto, i primi tentativi di volo, ma anche la radio, i raggi X. C’era davvero un fermento senza pari nella ricerca.
Per rispondere alla tua domanda, utilizzo moltissimi testi per documentarmi. E un po’ su tutto. Sia in inglese che in italiano. Vediamo, per quanto riguarda la tecnologia: The Making of Modern Science, di David Knight. The Subterrean Raylway di Christian Wolmar, per lo sviluppo della metropolitana a Londra, che infatti già funzionava, se non ricordo male, dagli anni Sessanta del XIX secolo.
Ma poi molto importante è anche la storia del costume, ossia il modo di vivere delle persone all’epoca, la stratificazione sociale, il modo di vedere il mondo. Qui, uno per tutti potrebbe essere Londra, l’oro e la fame, edito da Frassinelli.
La stesura è stata abbastanza lunga, ma anche perché avvenne in due tempi. Di tenebra e d’amore era il mio primo libro, quando ancora la scrittura non era per me un mestiere. Iniziai a scriverlo e poi rimase incompleto per mesi, finché non mi decisi a dargli una chance per presentarlo a una casa editrice. La quale – ne sono molto orgogliosa – lo acquistò immediatamente.
Righediarte. Pensi di scrivere un seguito alla storia di Odyle e Tristan?
Silvia. Odyle e Tristan fanno parte del mio passato. La loro storia è nata nel 2005, quando mi affacciavo alla scrittura. Non ho mai pensato di scrivere un seguito e la loro storia è a tutti gli effetti conclusa. Il loro universo invece no. Ci sono altri romanzi che ho scritto in cui in qualche modo il mondo di Odyle e Tristan ritorna. Sono attualmente fuori commercio ma sto pensando alla possibilità di dare una nuova veste e una nuova vita anche a loro.
Righediarte. Questo libro è già stato tradotto o verrà tradotto in altre lingue?
Silvia. Attualmente Di tenebra esiste solo nella versione italiana. I diritti di traduzione sono disponibili però, se qualche editore estero lo desiderasse. Non nego che sarei molto felice se venisse tradotto.
Righediarte. Nel contenuto e nello stile del romanzo si percepisce chiaramente l’influenza della narrativa inglese del 1800, da Jane Austen e alla Brontë, e tu non fai mistero di esserti ispirata proprio a Jane Eyre. Quali sono gli autori di questo periodo a cui sei più affezionata e perché?
Silvia. Oh… sono tanti! Amo la letteratura inglese, e ho una laurea per dimostrarlo! A parte le battute, mi piace molto il periodo storico del XIX secolo, come dicevo, e la letteratura che ne fa parte. Il romanzo è stato anche una scusa quindi per far degli omaggi a queste pagine del passato. C’è Shakespeare, c’è Jane Eyre della Bronte, c’è Walpole insieme alla schiera dei romanzi gotici che tanto piacevano all’epoca. Paradossalmente uno dei miei autori preferiti invece è rimasto fuori, forse perché le sue tematiche non erano troppo in linea con quelle della storia raccontata, parlo di Thomas Hardy (La brughiera, Via dalla pazza folla, Giuda l’oscuro, Tess dei D’Uberville…).
Righediarte. Nei tuoi romanzi, penso anche a Il cielo dopo di noi e Guida astrologica per cuori infranti, hai affrontato diversi temi: l’amore, la ricerca delle proprie radici, i rapporti famigliari, la storia dell’occupazione nazista in Italia, per citarne alcuni, dando prova di notevoli capacità di scrittura e di padronanza delle tecniche narrative. Di tenebra e d’amore, che come hai già detto, è in realtà il tuo primo romanzo completamente rivisitato e riscritto, si inserisce nel filone del romance. Vorrei chiederti se c’è un genere letterario che vorresti affrontare perché ti incuriosisce, o che apprezzi come lettrice, ma sul quale non ti senti ancora sufficientemente pronta.
Silvia. Devi sapere una cosa: io non mi sento mai sufficientemente pronta.
Ogni libro è un viaggio senza garanzie di arrivare davvero da qualche parte, e questo mi succede perché ritengo che la scrittura debba sempre rappresentare qualche novità per me, mi debba sempre far imparare qualcosa. È per questo motivo che affronto libri diversi anche per genere. Mi rendo conto che la cosa può mettere in difficoltà i miei lettori (e non ti dico gli editori!) che magari apprezzando un genere e non un altro si trovano con libri molto diversi tra loro, quando invece solitamente quando un autore trova “un buon filone” lì sta e batte chiodo magari sfornando una bella serie, una trilogia per lo meno. Purtroppo la mia testa funziona in modo diverso. E bada che non lo dico per dire che sono da biasimare quelli che invece scrivono delle serie, anzi, hanno tutta la mia stima, perché progettare una pentalogia non deve essere affatto facile, io proprio non riesco.
Ci sono le storie o i temi che mi chiamano. Purtroppo non c’è niente di romantico in questo, sono solo idee che iniziano a frullare in testa e farmi stare in ansia finché non le tiro fuori.
Tornando al genere, dicevo, ritengo che sia un grandissimo stimolo per me battere strade nuove, che non ho mai percorso, per questo i romanzi sono diversi e mi piacerebbe scrivere un po’ di tutto e in tutti i modi.
Se c’è un genere che ammiro ma per cui proprio non mi sentirei pronta al momento, è il distopico [romanzo in cui viene rappresentata un mondo immaginario del futuro, presentando talvolta società dalle caratteristiche inquietanti o orribili – NdR]. Ammiro moltissimo chi lo scrive, perché per scrivere un distopico devi avere sotto controllo non dei personaggi ma un mondo, un mondo intero, con delle leggi proprie e tutto quanto. E deve avere un senso profondo. La cosa che trovo meravigliosa della distopia è quella sua lucida capacità di tagliare con il bisturi alcune parti della nostra realtà per offrirle, orrendamente sanguinanti, agli occhi del lettore. Non mi accontenterei di fare niente di meno.
Righediarte. So che non si dovrebbe chiedere, ma a quale dei tuoi personaggi sei più legata, magari perché ci hai messo più tempo per darle/dargli “corpo e voce”?
Silvia. Eh… non si dovrebbe chiedere, hai ragione, perché poi gli altri ci rimangono male.
A dire il vero sono legata in modi diversi a molti personaggi che ho scritto, e non sono necessariamente i principali. Be’, con Alice di Guida astrologica ho un debito di sangue, in pratica, e lei e io ci siamo assomigliate moltissimo in un periodo che risale a diversi anni fa. Amo tantissimo Tio, e ne vorrei uno tutto per me. Ho odiato profondamente Miranda, de Il cielo dopo di noi, perché era talmente arrabbiata con la vita che ho faticato a farla parlare sulla pagina, poi però, quando ci siamo intese, trovate, è stato un dialogo meraviglioso, che mi ha fatto scoprire molte cose di me stessa. Poi, magari ti sembrerà strano, ma ho voluto un bene profondo al Tenente Bonfanti, sempre de Il cielo. Ho una vera e propria passione per i personaggi cupi, negativi, ma che poi hanno sempre quella sfumatura, quella motivazione che rende ogni azione, anche la più terribile, tremendamente umana.
Di Di Tenebra e d’amore, a parte Tristan, che è praticamente un Rochester nella sua vulnerabilità, mi piacciono molto i personaggi della parte più leggera, gli intermezzi comici dei Montgomery, padre e figlia, per cui ricordo di essermi un po’ ispirata alla vasta fauna umana di Jane Austen.
Righediarte. Silvia, tu lavori anche come traduttrice, hai anche tradotto Cinquanta sfumature di nero, di E.L. James, giusto per citarne uno. Quanto la lettura dei testi in lingua originale influenza la tua scrittura? Ti capita di leggere un romanzo in lingua originale e non apprezzarne invece la traduzione in italiano? Ovviamente senza fare nomi, ma come riflessione generale sulle sfumature linguistiche che si perdono nell’operazione di traduzione.
Silvia. Allora, non mi azzarderei mai a criticare il lavoro di qualche collega. Purtroppo ora con Internet, le recensioni online sui siti di e-commerce eccetera, mi è capitato spesso di leggerne, e mi chiedo sempre se chi le muove abbia davvero la competenza per capire il lavoro che sta dietro una traduzione.
Per restare però nel tema della tua domanda, mi è capitato di leggere qualche traduzione dove ho sentito il testo inglese sotto quello italiano o mi sono accorta di una traduzione un po’ troppo letterale, questo sì. Ritengo che ci siano egregi traduttori in Italia, e alcuni sono anche dei carissimi amici, che lavorano cesello con le parole.
Quanto alle sfumature linguistiche, come dici, è vero, sicuramente qualcosa si perde; lo diceva già Eco: una traduzione fedele è quasi un ossimoro. La traduzione comunque tradisce. Si passa a un diverso mondo che non è soltanto linguistico ma anche un diverso sistema culturale. Una cosa che personalmente trovo molto divertente da tradurre, per esempio, sono i modi di dire, che non sono quasi mai uguali da una lingua all’altra. Perché dietro a un modo di dire c’è magari un aneddoto che fa parte della storia del paese cui appartiene quella lingua, o magari un riferimento letterario. E tu, traduttore, lo devi rendere nella tua lingua. È una bella sfida. Perché non devi soltanto riportare un senso che riguarda le parole, ma anche un’emozione.
Ma, tornando alle sfumature linguistiche che traducendo magari vengono perse… mi domando se per un lettore italiano che l’inglese (o un’altra lingua) la capisce mediamente bene, pur non essendo la sua lingua madre, riuscirebbe ad apprezzarle davvero dalla prima all’ultima.
Righediarte. Il titolo del tuo romanzo mi ricorda altre due opere di tuoi illustri colleghi: Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz e D’amore e Ombra di Isabel Allende. L’amore rimane ancora oggi quindi la più grande fonte di ispirazione per gli artisti di tutto il mondo. Quale è la storia d’amore letteraria a cui sei più legata? Quanto invece c’è delle tue storie d’amore nei tuoi romanzi.
Silvia. Ci sono tanti romanzi che al loro interno parlano d’amore e che io amo moltissimo, ma se devo eleggerne uno soltanto allora devo dire L’età dell’innocenza di Edith Wharton. La storia dell’amore travagliatissimo e dolente tra la Contessa Olenska e Newland Archer mi colpì molto quando la lessi, avevo circa vent’anni, e credo ci sia tantissimo di loro, o meglio di ciò che io ho provato per loro e poi per tutto il vasto universo della Wharton e le sue tematiche, nei libri che ho scritto.
Poi però sforo e ne aggiungo un altro che è Espiazione, di Ian McEwan… che infatti si trova citato ne Il cielo dopo di noi.
Per quanto riguarda le mie personali storie d’amore, sì, certamente ci sono dei riferimenti nei libri che ho scritto, perché dopotutto la mia vita, e soprattutto le mie emozioni, fanno parte di uno di quei grandi magazzini cui posso attingere per scrivere. Certo, non scriverei mai un romanzo autobiografico, almeno non per ora, visto che non ritengo la mia vita in toto di così grande interesse per gli altri, e ho anche un certo pudore per ciò che mi riguarda intimamente. Ma diverse situazioni che ho realmente vissuto, opportunamente rielaborate e viste con un occhio molto ironico e autoironico si trovano, per esempio, in Guida astrologica per cuori infranti.
Righediarte. Quali sono i tuoi autori contemporanei preferiti?
Silvia. Ho pochi amori costanti, mi piacciono i libri e le storie che raccontano, ma sono davvero pochi gli autori che compro a scatola chiusa. Tra questi ultimamente c’è un’autrice inglese che si chiama Jane Harris, perché mi piace il suo stile e il modo di raccontare. Ho avuto una passione folle per Agatha Christie da ragazzina e credo di aver letto quasi tutto.
Righediarte. Quando inizi a scrivere un romanzo ti capita mai di pensare a chi potrebbe essere il tuo lettore-tipo o lasci questa riflessione al tuo editore?
Silvia. Uno scrittore pensa sempre a chi sono i suoi lettori, a chi si sta rivolgendo. La scrittura è prima di tutto una comunicazione, perciò, perché questa comunicazione avvenga nel modo più corretto dobbiamo sapere a chi stiamo parlando.
Righediarte. Quando hai iniziato a scrivere? Quale è stato il tuo percorso?
Silvia. Ho sempre desiderato scrivere. Ho iniziato da ragazzina, sui quaderni, inventavo storie. Poi per un lungo periodo ho accantonato tutto. Finché appunto non ho iniziato a scrivere Di tenebra e d’amore. Traducevo già da qualche anno quando mi dissi che mi sarebbe piaciuto provare, e lo feci anche grazie a una cara amica – la Patrizia a cui è dedicato il libro – che era a casa dal lavoro per via di una gravidanza difficile – da cui poi nacque Elisabetta, che adesso ha quindici anni, a cui ancora è dedicato il libro – e visto che Patrizia è attrice e insegna teatro, mi aiutò molto a comprendere i personaggi e a farli “vedere” sulla carta.
Righediarte. La storia della letteratura, italiana ma anche internazionale, vede oggettivamente una presenza maggiore di autori uomini rispetto alle donne. Nella tua carriera come autrice, ti è mai capitato di subire il peso del pregiudizio proprio in funzione del tuo essere donna?
Pensi che sia più difficile per una donna affermarsi nel mondo della scrittura?
Silvia. Assolutamente sì. C’è poco da aggiungere purtroppo. Il divario c’è, lo sentiamo. Siamo autrici donne, la prima cosa che si pensa è che la nostra sia una scrittura “femminile”, per esempio, una scrittura per donne. Conosco anche diversi signori uomini che hanno ammesso candidamente di non leggere donne per partito preso. Non ho mai sentito dire altrettanto da parte di una donna.
Righediarte. Come anticipato, tu non sei solo autrice ma anche traduttrice ed editor, ti chiedo se hai mai tenuto dei corsi di scrittura o se ti piacerebbe farlo?
Silvia. Ho tenuto dei seminari di scrittura creativa, un paio di volte anche con i bambini di scuole elementari, ed è stato bellissimo. È un’esperienza che mi piacerebbe ripetere, e in effetti, insieme a un’associazione, stavamo pensando a un corso di scrittura. Ho qualche problema di tempo, purtroppo, visto che, come hai giustamente detto anche tu, oltre a scrivere, faccio la traduttrice, l’editor e la lettrice per un’agenzia letteraria.
Righediarte. Ti lascio con un’ultima domanda. Stai lavorando a un nuovo romanzo (se si può sapere ovviamente)?
Sì, certo, si può sapere. Sto lavorando a un nuovo romanzo. Ma di più non si dice.
Concludo questa lunga intervista con l’augurio di leggere presto un nuovo romanzo di Silvia, alla quale va nuovamente il mio grazie di cuore.
Paola Cavioni
*Di Il cielo dopo di noi trovi la recensione su Righediarte, a questo link:
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“But this is all I ever was And this is all you came across those years ago Now you go too far Don’t tell me that I’ve changed because that’s not the truth And now I’m losing you
Fragile sound The world outside just watches as we crawl Crawl towards a life of fragile lines And wasted time
And so I cry As I hold you for the last time in this life This life I tried so hard to give to you What would you have me do?“
Ditmas, Mumford & Sons
Gennaio è arrivato da qualche giorno, lasciandoci finalmente alle spalle il 2020.
Sono abituata a non fissarmi più di uno o due “buoni propositi” di inizio anno, perché ho imparato con il tempo a diffidare delle lunghe liste di buone intenzioni, che alla fine creano solo frustrazione per le spunte mancate.
Negli ultimi due anni i miei obiettivi personali a medio e lungo termine si sono concentrati principalmente sulla cura dei rapporti, in famiglia e nelle amicizie.
Ho cercato di fare decluttering nei rapporti che non mi portavano da nessuna parte, vuoti o addirittura tossici, concentrando energia, attenzioni e tempo (tre variabili che non sono infinite purtroppo) solo su relazioni e conoscenze in grado di regalare reciproco arricchimento e, se possibile, positività.
Il secondo obiettivo poi è sempre quello di provare a essere una madre migliore per i miei figli.
Sul primo punto posso dirmi abbastanza soddisfatta, al netto di quello che è successo nel 2020 che ha tenuto tutti distanti fisicamente, sul secondo invece continuo a lavorare giorno per giorno e penso che, come tutte le madri, non riuscirò mai ad essere completamente soddisfatta di me stessa.
Stamattina, nonostante la pioggia, mi sono presa un paio d’ore per andare a camminare, accompagnata dal freddo lombardo di questi giorni e dagli immancabili Mumford & Sons che mi danno il ritmo nei giri in solitaria. Ho sgranchito le gambe e ho fatto prendere aria ai pensieri.
Ho riflettuto molto, complice il silenzio della campagna.
E ho cercato il mio proposito per questo nuovo anno, che si riassume in una sola parola.
Consapevolezza.
Ad ogni inizio anno sento spesso parlare di necessità dicambiamento, talvolta, a mio parere, con un po’ troppa facilità.
Non sei felice nel tuo posto di lavoro? Cambia.
Non sei felice con il tuo compagno/a? Cambia.
Non sei contento della tua vita? Cambia.
Non sei contento del tuo aspetto? Cambia.
Ma è necessario tutto questo cambiamento esteriore se alla base non c’è una reale consapevolezza di sé?
Quante volte i cambiamenti sono motivati da scelte prese di pancia, salvo poi ritrovarsi al punto di partenza e alla stessa condizione di insoddisfazione?
Il cambiamento è certamente una forma di adattamento e anche di sopravvivenza, ma penso che i cambiamenti veri, radicali e duraturi che affrontiamo nella vita, per scelta o necessità, siano davvero pochi. Per questo vorrei riuscire a concentrarmi sullo scorrere del viaggio, sul presente, con consapevolezza.
Consapevolezza per riuscire a percepire realmente, e quindi ricordare, immagini, suoni, odori ed emozioni vissute giorno per giorno. Percepire lo straordinario dentro ogni momento ordinario.
Vorrei vivere con più consapevolezza per rendere ogni momento diverso da quello precedente, come se ogni giorno fosse un piccolo cambiamento miracoloso, ma anche per riuscire ad accettare con serenità le situazioni che invece non posso e non possono cambiare.
Consapevolezza nell’affrontare anche la sofferenza che inevitabilmente la Vita ci regala, a suo modo forse per farci un regalo da portare con noi nel nostro bagaglio di esperienze.
Questo, solo questo, chiedo al nuovo anno.
Consapevolezza ma anche, se possibile, un po’ di leggerezza.
Paola Cavioni
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“I’m more than a bird, I’m more than a plane I’m more than some pretty face beside a train And it’s not easy to be me”
Superman, Five for Fighting
Io Super Dodo, edizione Youcanprint
“Ciao, io sono Riccardo.
Per gli amici Dodo.
E sono un supereroe.”
Riccardo è un bambino che nasce con una rara patologia chiamata duplicazione intestinale, unita a una malattia ancora più rara, il morbo di Hirschsprung, che fa paura solo a pronunciarne il nome.
Eppure Riccardo, così fragile, ha un superpotere speciale: l’amore per la vita.
Riccardo, nelle parole scritte dalla mamma Federica Clerici, autrice del libro in collaborazione con Emanuela De Alberti, ci racconta la sua storia e le avventure del suo alter ego, Super Dodo.
Ma questa non è solo la sua storia, è anche quella di tanti bambini e genitori che hanno vissuto o stanno vivendo lo stesso percorso della famiglia di Federica e Riccardo.
Affrontare la malattia di un figlio, specie se ancora piccolo e se il male è cronico o incurabile, non è mai facile; i mostri che si incontrano lungo il cammino sono tanti e trovano sempre il modo per attaccare di nuovo.
Un genitore può reagire, affrontare la malattia, oppure può negarla, può lasciarsi andare alla disperazione, mollare la presa. In tutti i casi però, tutti, è assolutamente importante dare sostegno a queste famiglie che da normali, se esiste un concetto di normale, diventano straordinarie, aggrappandosi alla vita con tutte le loro forze.
Perché questi genitori hanno il compito, tanto importante quanto difficile, non solo di affrontare la malattia ma di spiegarla ai loro figli, con parole comprensibili ma che riescano anche a infondere coraggio nei loro bambini, per non arrendersi mai, proprio come fanno Superman, Batman o gli Incredibili.
Dodo ci racconta la sua storia e parla ai bambini come lui, con il linguaggio delle parole e dei disegni, ma parla anche al mondo degli adulti. Un libro adatto a tutti i genitori, soprattutto a quelli che hanno figli “supereroi” in vario modo, ma è anche una storia di speranza per gli operatori che ogni giorni affrontano i mostri che attentano alla salute, alla felicità, alla vita di tanti bambini in tutto il mondo.
Un libro di forza, vita e futuro.
Le autrici
Federica Clerici è psicologa e svolge attività clinica come consulente presso l’Istituto Neurologico Nazionale I.R.C.C.S. “C. Mondino” di Pavia.
Emanuela De Alberti è nata a Milano ma vive a Pavia, adora raccontare storie attraverso le immagini, ama i gatti, i bambini.. e i koala.
Paola Cavioni
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Ho preferito non scrivere nulla sull’anno appena trascorso, che per me e la mia famiglia è stato particolarmente duro, ma voglio farti e farmi un semplice augurio per questo 2021 appena nato.
Ti auguro meno di tutto ciò che è stato, per tanti e anche per me, il 2020.
Meno preoccupazioni.
Meno rabbia.
Meno ansia per il futuro.
Meno lacrime.
Meno ingiustizie.
Meno violenza gratuita.
Meno distanza e assenza.
Meno sofferenza.
Ma ti auguro anche tanto, di tanto altro.
Ti auguro di riuscire, giorno per giorno, ad andare un passettino alla volta nella direzione dei tuoi sogni.
Ti auguro serenità.
Respiri profondi.
Sorrisi e progetti quando pensi al futuro.
Lacrime di gioia ed emozione.
Giustizia per te e per il mondo.
Ti auguro di ricevere e donare gentilezza gratuita.
La presenza sicura e costante delle persone che ami, abbracci tanto attesi.
Ti auguro di riuscire a mantenere sempre la tua mente calma e in armonia.
Ti auguro gioie e risate improvvise e inaspettate.
E forse così, solo così, potrà essere davvero un anno buono.